Il prezzo dei diritti

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L’argomento “diritti” è tra i più dibattuti e discussi (anche da Hic Rhodus, si vedano i riferimenti in fondo) ma è pure tra i più quotidianamente invocati ora che il “popolo” (o “la gente”) ha ottenuto voce sui media e in “rete”. Ormai sappiamo che, nei tempi in cui viviamo, esistono diritti di due generi: quelli “artificiali” legati ad aspetti che riguardano persone e cose e quelli “naturali”.

I primi sono i diritti che trovano tutela nelle regole di uno Stato, detto appunto di diritto, che li protegge mediante sanzioni sia penali sia civili. Questi diritti sono strettamente legati alle condizioni di civile e concorde convivenza tra i cittadini e tra i cittadini e lo Stato, che ha interesse a tutelarli, essendo la base su cui esso stesso può “stare” e prosperare, ma è una tutela passiva, cioè attivata a diritto violato. I diritti naturali sono invece quelli che usiamo attribuire in dote a ciascun uomo/donna al momento stesso in cui nasce (secondo alcune interpretazioni di fedi religiose anche prima della nascita).

Quando, dando per scontato il diritto primario alla libertà, parliamo di diritto all’istruzione, alla salute, al cibo, oltre a quello immateriale al decoro, alla dignità e, per estensione molto forzata, alla casa, al lavoro, parliamo di condizioni che possiamo definire essenziali, ma che non in tutte le circostanze sociali sono disponibili. Eppure sono diritti che le organizzazioni costituite tra Nazioni autoproclamatesi “civili” dichiarano fondamentali e assoluti.

In realtà questi diritti non sarebbero storicamente “naturali”. Agli albori, e per molto tempo ancora dopo, gli uomini, al pari degli animali, nascevano, vivevano e morivano senza diritti, se non quelli che riuscivano a conquistare con la forza e la prepotenza imponendoli ai più deboli. Solo col nascere e progredire delle aggregazioni “civili” comincia a manifestarsi il concetto di ciò che spetta e di ciò che non spetta, ma a senso unico, cioè relativo al privilegio del potente (quasi sempre coincidente con ricco) rispetto agli altri. Dalla Rivoluzione Francese in poi, qualcosa, sulla carta, cambia. A fatica.

In alcuni Paesi, soprattutto occidentali, si fanno strada concetti di solidarietà codificati nelle Carte Costituzionali ma che necessitano poi di conferme reali. Alcune di queste si sono indiscutibilmente verificate, ma non sono mai abbastanza, come ci rammentano le quasi quotidiane manifestazioni pubbliche, rappresentazioni mediatiche e lamentele via Web a cui assistiamo. Al punto che, ormai, il concetto di diritto si è esteso anche ad aspetti di legittime aspirazioni che però, almeno nella società attuale, sono ritenute conquiste individuali e non concessioni automatiche.

Non vorrei entrare nel merito della questione che riguarda la dubbia legittimità in termini non solo legali ma anche di presunto merito connessa alla conquista di quelle posizioni, ma non si può eludere il fatto incontestabile che tutti gli aspetti essenziali dell’umano vivere siano appannaggio sicuro di chi è in condizione di pagarseli. Parliamo (lasciando stare la libertà) di cibo, salute, istruzione, casa e perfino lavoro (quantunque in non pochi casi neppure ne abbiano necessità).

Danaro e diritti naturali sono inscindibili e dunque nell’era (inevitabile) della globalizzazione il profitto finanziario, legittimo o illegittimo, che è causa diretta o indiretta della povertà, ha anche la gestione dei diritti. E in tempi di crisi l’aumento della povertà per i molti crea aumento corrispondente della ricchezza per i pochi e mette a rischio anche molti diritti .

Questo particolare non ha solo valenza morale ma anche e soprattutto importanza in un’ottica di progetto di soluzione oggettiva del problema. So bene che ai 10 mln di poveri in Italia censiti da ISTAT nel 2013 importa relativamente poco dei 900 mln calcolati (forse solo a livello di sottoalimentazione) nel mondo, ma il problema ha scarse possibilità di essere risolto anche localmente. Il nostro paese non è tra quelli (Asia e Africa) in cui la situazione può definirsi tragica ma, sia pure in termini relativi, non sta certamente benissimo. Il reddito medio (trilussiano) definito da ISTAT come soglia della povertà è stato calcolato in 972 euro/mese (per una famiglia di 2 componenti) e per 3.258.000 famiglie nel 2013.

Servirebbero, parlando solo dell’Italia e seguendo un semplice criterio di “conto della serva”, almeno 3mld di euro al mese per porvi un accettabile rimedio raddoppiando quel reddito medio. Non sembra una soluzione alla portata di un qualsiasi Governo. A meno che non si vada a prenderli nelle tasche dei ricchi. Ma, tanto per stare in Italia, una ricerca WGI (World Giving Index) indica il nostro paese al 52° posto nel mondo (al 1° la Birmania) in termini di persone che fanno donazioni in danaro (che non coincidono necessariamente con i ricchi).

In conclusione, sebbene l’argomento rimanga un sicuro e abusato oggetto di strumentalizzazione politica e madiatica, la povertà è uno status sociale ineliminabile e i diritti naturali avranno sempre un prezzo troppo alto per molti.

Disuguaglianza e povertà su Hic Rhodus:

Disuguaglianza e diritti su Hic Rhodus:

Contributo scritto per Hic Rhodus da Manrico Tropea
Calabrese nato a Milano; mi vanto di aver preso le caratteristiche
migliori da entrambe le circostanze!