Referendum: le scelte facili e quelle difficili

Siamo ormai nell’imminenza del voto per confermare la riforma della Costituzione, e c’è ancora molta incertezza, non solo perché il risultato è tutt’altro che scontato, sia pure in un quadro generale dei sondaggi favorevole al No, ma per la diffusa confusione sugli effettivi contenuti della riforma, tanto che molto spesso le “dichiarazioni di voto” che si leggono hanno ben poco a che vedere con il testo costituzionale.

Penso che sia quindi utile ricapitolare qui i contenuti della riforma, senza nascondere cosa ne penso; anzi, percorrerò i vari argomenti seguendo un filo logico insolito: comincerò da quelli per i quali secondo me il giudizio è “facile” per arrivare a quelli per i quali è più “difficile”.

Premessa necessaria: ogni valutazione va fatta tra la “nuova” Costituzione e quella “vecchia”; tutti coloro che obiettano “sì, ma si sarebbe potuto fare meglio così o cosà”, e confrontano la riforma Boschi/Renzi con ipotetiche alternative ideali (eliminazione tout court del Senato, riduzione dei parlamentari, delle indennità, ecc.), usano un argomento eminentemente “benaltrista” nel quale cercherò di non cadere.

Argomenti “facili”:

Sono quelli per cui secondo me non ci sono dubbi su cosa sia preferibile tra la vecchia norma costituzionale e la nuova. Naturalmente si tratta di una valutazione personale, ma anche dal dibattito mi sembra che su questi punti emergano pochi o poco significativi dissensi:

  • Soppressione del CNEL: il CNEL (Consiglio Nazionale per l’Economia e il Lavoro) è un ente ridotto a uno stato sostanzialmente larvale. Penso che basti leggere il testo di una recente intervista al suo Presidente per capire che dubbi non ce ne sono, ammesso e non concesso che l’esistenza di enti di questo tipo debba essere prevista dalla Costituzione.
  • Limiti alla decretazione d’urgenza: l’art. 77 ora contiene indicazioni esplicite su alcuni limiti ai decreti legge. Non ci sono possibili controversie su questo, salvo dubitare dell’efficacia di queste norme.
  • Parere preventivo della Corte Costituzionale sulle leggi elettorali: questo è ora previsto dall’art. 134, evidentemente per evitare situazioni come quella verificatasi con il Porcellum.
  • Modifica del quorum per i referendum: l’art. 75 nella sua nuova formulazione prevede che se le firme per un referendum raggiungono le ottocentomila il quorum, anziché essere della maggioranza degli elettori, diventi della maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera.
  • Modifica delle norme per le leggi di iniziativa popolare: il nuovo art. 71 prevede, tra l’altro l’innalzamento da 50.000 a 150.000 delle firme necessarie per una legge di iniziativa popolare, ma in compenso prevede l’obbligo per il Parlamento di esaminarle in tempi certi. Sia l’innalzamento della soglia che l’introduzione della certezza dell’esame parlamentare mi sembrano utili per dare efficacia a questo canale di partecipazione popolare che non ha mai trovato sbocco.
  • Limiti di retribuzione per i consiglieri regionali e parità di rappresentanza tra uomini e donne: introdotti nell’art. 122, non mi sembrano contestabili.

Su tutti questi punti, non solo personalmente sono per il Sì, ma credo che non ci siano motivi per preferire il No. La vera questione è semmai quanto “pesino” argomenti di questo tipo, che hanno effetti pratici sicuramente inferiori ad altri più controversi.

Argomenti “medi”:

Sono quelli sui quali personalmente ho un’opinione piuttosto chiara e definita, ma che possono essere (e sono) valutati diversamente da altri, in particolare relativamente al rapporto tra Stato e Regioni. L’importante è che sia chiaro a quale sistema di priorità corrisponda l’una o l’altra valutazione.

  • Abolizione delle province: l’eliminazione dei riferimenti alle Province nell’art. 114 apre la strada all’effettiva soppressione delle province, su cui sulla carta quasi tutti sono d’accordo. Io personalmente lo sono, per ragioni esposte anche qui su HR da Bezzicante.
  • Riduzione delle competenze delle Regioni: l’art. 117, nella sua nuova formulazione, riporta allo Stato la competenza sulle materie che nella precedente riforma erano oggetto di “legislazione concorrente”. Indipendentemente da come la si pensi, questo è certamente un elemento di chiarezza.
  • Clausola “di supremazia”: l’art. 117 prevede anche che “Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. In pratica, questo significa che per ragioni di interesse nazionale lo Stato centrale può “imporre” dei provvedimenti alle Regioni.

Su queste novità, il giudizio ovviamente dipende dal punto di equilibrio che si ritiene preferibile nel rapporto di poteri tra Stato e Regioni. Dopo anni in cui è stato “di moda” un Federalismo un po’ sui generis, che ispirava la versione precedente del Titolo V e che è stato molto ben commentato qui su Hic Rhodus da Federico Conti, l’attuale riforma ripropone un modello più “centralista” (per un’analisi dettagliata delle materie di competenza e delle modifiche apportate nella nuova Costituzione rinvio alle esaurienti schede di  lettura pubblicate sul sito della Camera e che non mi è possibile riassumere qui). Io non nascondo di avere un’idea molto chiara su questo: credo che il Federalismo all’italiana si sia dimostrato un vero e proprio disastro, con conseguenze pesanti sia sul fronte economico (la spesa regionale e locale è il vero “buco nero” delle finanze pubbliche italiane), sia su quello dell’omogeneità e della qualità dei servizi (un esempio è dato dalla Sanità, si veda anche l’allarme lanciato con il recente rapporto Crea). Anche sulla clausola di supremazia sono a favore, per evitare i classici comportamenti Not In My Back Yard di cui non mancano gli esempi; però, ripeto, è chiaro che si può pensarla diversamente, a patto di tener conto di dati e fatti reali e non di modelli astratti. Quindi, il mio è un Sì, motivato dall’opinione che l’interesse nazionale debba prevalere sulle logiche locali.

Argomenti “difficili”:

Sono quelli sui quali, anche avendo le idee abbastanza chiare, bisogna approfondire molto di più per formarsi un’opinione motivata, e all’interno dei quali in ogni caso ci sono novità più o meno convincenti, per cui è improbabile che si possa avere un giudizio uniformemente positivo o negativo.

  • Ridimensionamento del Senato: non tanto dal punto di vista numerico (passa da 315 a 100 senatori), ovviamente, ma nel ruolo. Riassumendo, il Senato:
    • Non voterà più la fiducia al Governo;
    • Non esaminerà più le leggi ordinarie, a meno che lo richieda con un voto di almeno un terzo dei suoi componenti; anche in questo caso, qualunque siano le eventuali proposte di modifica del Senato, la Camera avrà la possibilità di accoglierle o respingerle senza ulteriori “rimpalli”;
    • Esaminerà sempre le leggi relative all’applicazione della “clausola di supremazia”;
    • Infine, per le leggi relative a modifiche costituzionali o istituzionali, allo status del Senato o degli enti locali, si continuerà ad applicare lo stesso procedimento “bicamerale perfetto” che si è usato sino a oggi.
  • Composizione del Senato: il nuovo Senato sarebbe costituito da 74 rappresentanti dei Consigli regionali e 21 Sindaci (in numero dipendente dalla popolazione di ciascuna Regione), più cinque senatori di nomina del Presidente della Repubblica. Le modalità di elezione sono da definire con una legge elettorale apposita, ma il nuovo art. 57 prevede che i Consigli regionali eleggano i senatori “con metodo proporzionale”. I senatori restano in carica fino a decadenza dei rispettivi Consigli regionali.

Queste modifiche delineano un Senato la cui funzione è certamente limitata rispetto a oggi e si focalizza in un ruolo di “Camera delle autonomie” che svolge un ruolo consultivo e di garanzia più che decisionale. Una funzione abbastanza simile, anche se rafforzata dal maggior livello di autonomia e peso dei Länder tedeschi rispetto alle nostre Regioni, lo ha il Bundesrat (v. ad es. il relativo sito nella versione inglese).
Quanto è condivisibile questa trasformazione del Senato? Personalmente, trovo questo ruolo decisamente preferibile a quello attuale di un “doppione” della Camera, e considero positivo avere procedimenti legislativi con tempi certi e senza la possibilità di interminabili “rimpalli”. Per una sintesi del nuovo iter legislativo e delle sue varianti possiamo anche ricorrere a un’infografica della Camera dei Deputati:

percorso-leggi

Oggi quanto impiegano le Camere ad approvare una legge? La risposta è nel diagramma qui sotto, tratto dal sito blog.openpolis.it (per leggi navetta si intendono quelle che hanno richiesto più di due votazioni per essere approvate):

tempi-legislatiivi

Le leggi navetta, che hanno tempi di approvazione astronomici, in realtà sono relativamente poche, circa il 20% del totale; i dati però mostrano che anche solo il “normale” iter con un voto alla Camera e uno al Senato porta a tempi molto elevati.

Quanti sarebbero alla fine i provvedimenti di legge che il Senato dovrebbe necessariamente esaminare? Su questo non ho trovato una stima unanimemente condivisa: il sito certamente partigiano http://www.bastaunsi.it indica nel 3% circa la quota di leggi che ricadrebbero tra quelle di competenza condivisa tra Camera e Senato. Anche considerando ottimistica questa stima, a me sembra verosimile che solo per una piccola minoranza delle leggi si continuerà ad applicare un procedimento bicamerale.

D’altronde, non a caso sono più di trent’anni che la politica tenta di varare una riforma che superi il bicameralismo perfetto, con iniziative di tutte le parti politiche, come si vede da questo, parziale, elenco di cui sono debitore a un ben fatto e dettagliato vademecum tra i tanti che si trovano in Rete:

  • Commissione bicamerale c.d. Bozzi (dal nome del suo presidente), 1983-1985
  • Commissione bicamerale c.d. De Mita-Iotti, 1992-1994
  • Comitato Speroni, governo Berlusconi I, 1994
  • Commissione bicamerale D’Alema, 1997-1998
  • Progetto di revisione approvato dalle Camere, 2005, poi bocciato dal referendum
  • Progetto della I Commissione della Camera (c.d. Violante), 2007
  • Commissione di esperti (c.d. Quagliariello), istituita dal Governo Letta, 2013
Elementi di debolezza della riforma si trovano invece nei meccanismi di rappresentanza delle autonomie locali nel Senato. Non è facile, a mio avviso, trovare una formula efficace: Regioni più popolose devono avere più rappresentanti, ma a questo punto chi devono essere questi rappresentanti? E con quali meccanismi si potrebbe fare in modo che i senatori agiscano nell’interesse della Regione che li delega e non in quello dei partiti a cui fanno capo? Tornando al modello del Bundesrat tedesco, in quell’assemblea i delegati di uno stesso Land devono sempre votare allo stesso modo, pena l’invalidazione dei voti espressi. Funzionerebbe, da noi, o sarebbe il mezzo ideale per un delegato di minoranza per annullare sistematicamente i voti della sua Regione?
Le risposte che la riforma dà a queste domande sono più o meno convincenti, ma non so se saprei proporne di migliori.
  • Elezione del Presidente della Repubblica: il Presidente sarà eletto da deputati e senatori, ovviamente senza più la partecipazione dei delegati regionali. Il quorum per l’elezione è inizialmente posto ai due terzi dei componenti dell’assemblea comune, per poi scendere fino ai tre quinti dei votanti (il quorum minimo nella precedente versione dell’art. 83 era la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea).
  • Elezione dei membri della Corte Costituzionale: secondo il nuovo art. 135, cinque dei quindici membri della Corte saranno indicati da Presidente della Repubblica, cinque dalle “supreme magistrature”, tre dalla Camera e due dal Senato. Prima, questi ultimi cinque erano eletti dal Parlamento in seduta comune.

Si è discusso molto su questi due ultimi punti (ultimi perché non ne esaminerò altri), e anche qui su Hic Rhodus SignorSpok ha argomentato in modo molto dettagliato sul rischio che queste due istituzioni di garanzia diventino in realtà bottino della parte politica che, vincendo le elezioni magari approfittando del premio di maggioranza previsto dall’Italicum, si trovi ad avere la maggioranza assoluta alla Camera.

Ora, su questo bisogna essere chiari: in senso generale le preoccupazioni sull’alleggerimento dei contrappesi al potere del Governo un fondamento ce l’hanno. Dal complesso della riforma il potere del Governo esce indirettamente rafforzato, proprio perché altri organi istituzionali (Senato e Regioni) ne perdono, e perché la Camera dei Deputati acquisisce una serie di prerogative esclusive che renderanno più agevole governare a chi ne otterrà il controllo.
La mia opinione, sempre in generale, è che questo rafforzamento sia un fatto positivo, specie perché avviene appunto senza conferire particolari nuovi poteri al Governo, ma semplicemente rendendo ad esso possibile esercitare con meno ostacoli “burocratici” quelli che ha: ad esempio, se la Camera è contraria a un provvedimento lo boccerà, ma ci saranno meno proposte di legge bloccate nel limbo e mai calendarizzate.

Quanto a Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale, le cose sono un po’ diverse: non è in nome della governabilità che si può desiderare che il Governo controlli queste istituzioni di garanzia. Però bisogna prendere atto che non sono le nuove norme costituzionali a essere determinanti in questo senso: la presenza o meno di un rischio di “filotto istituzionale” dipende dalla legge elettorale. Infatti, in sé richiedere la maggioranza dei tre quinti dei votanti per l’elezione del PdR garantisce le opposizioni più di quanto non facesse un quorum della maggioranza assoluta dell’assemblea, a meno di immaginare rapimenti di massa di parlamentari dell’opposizione. Più discutibile, anzi a mio avviso sbagliata, è la decisione di far eleggere tre membri della Corte alla Camera e due al Senato, non tanto in sé (è logico che la Camera “pesi” più del Senato), quanto perché cinque più tre fa otto, ossia la maggioranza della Corte, e a quel punto i due membri eletti dal Senato possono essere irrilevanti. La questione però è sempre la stessa: indipendentemente dalla riforma del Senato, una legge elettorale con premio di maggioranza attribuirebbe a chi vince ottime possibilità di controllare Parlamento (per definizione di premio di maggioranza), Presidenza della Repubblica e Corte Costituzionale. La nuova natura del Senato semmai riduce queste possibilità, perché rende meno probabile che il Senato abbia la stessa maggioranza della Camera.
Personalmente, vedo una sola possibile (ma ben difficile da far approvare) contromisura al rischio di cui ho parlato: eliminare i membri di nomina politica della Corte Costituzionale. La realtà è che già con la Costituzione vigente il Parlamento nomina direttamente o indirettamente dieci giudici costituzionali su quindici, e non c’è un vero modo di evitare che chi abbia una solida maggioranza parlamentare possa ottenere un peso determinante nella Corte (ammettendo ovviamente che i giudici eletti siano “permeabili” alle sollecitazioni dei loro designatori).

In sintesi: su questi argomenti “difficili” ho un’opinione meno univoca, ma nel complesso la mia valutazione è comunque positiva. Gli aspetti delicati di cui abbiamo parlato non lo sarebbero meno in uno scenario con la Costituzione “vecchia” e una legge elettorale simile all’Italicum applicata ad entrambe le Camere, anzi lo sarebbero di più. I punti più deboli che ho citato non sono di facile né rapida soluzione, e il testo in esame, se è vero che non li sana, non contiene neanche assurdità; semmai ha il torto di fermarsi alle formulazioni più “immediate”.

Concludo con una considerazione: alcuni sostengono che una maggiore efficacia dei poteri del Governo comporti gravi rischi a causa dell’influenza che sul Governo avrebbero i “poteri forti” (ad esempio i colossi della finanza internazionale). Mi pare che si sottovaluti il fatto che il potere esiste in ogni caso: più debole è quello delle istituzioni politiche, più forte è quello appunto, non pubblico e non elettivo, esercitato dai grandi soggetti dell’economia e della finanza, che anziché dover negoziare con i governi possono agire con maggiore libertà di manovra. Nel 1948, la peggiore minaccia possibile alla democrazia era costituita da un governo tirannico; nel 21° secolo, la peggiore minaccia potrebbe essere un governo che non ha i mezzi per agire con tempestività ed efficacia.

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