Ho appena finito di scrivere un post su Cavicchi, che già devo riprendere la penna (“riprendere la tastiera” mi pare brutto…) per scrivere di un tal Luca D’Auria. E avevo già scritto di Fusaro, giusto per fare una triade, tutti eminenti blogger sul Fatto Quotidiano.
D’Auria mi ha fulminato esattamente allo stesso modo di Cavicchi: un docente (poi vedremo meglio) che a partire da una disciplina elettiva tracima in dominî intellettuali impropri, e che non si perita di lanciarsi nelle vaste pianure della speculazione sociologica, filosofica, politologica non vedendo affatto che anziché pianura è jungla, poi è deserto, poi è canyon, e insomma è luogo di insidie, pericoli devastanti, dove è inutile addentrarsi senza una forte preparazione fisica, psicologica, intellettuale.
D’Auria ha appena scritto (sul Fatto) una roba intitolata È nato un nuovo modo di pensare. Ma in Italia solo il M5s l’ha capito, che è tutto un programma; e che sarebbero fatti suoi, sia chiaro, io non critico D’Auria perché gli piace Grillo, ne ha tutto il diritto, come Cuccarini, Povia, Pavone, lungi da me criticare chi la pensa diversamente. Il fatto è che fregiarsi del titolo di “professore”, avere accesso a una tribuna in qualche modo autorevole (un quotidiano nazionale) per scrivere non solo un sacco di fregnacce, ma fregnacce condite in una salsa retorica capace di dissimulare la montagna di fuffa prodotta, ecco, questo lo considero intollerabile per ragioni che andrò a spiegare, così facendo rispondendo a qualche lettore che mi ha (con cortesia) criticato rispetto al precedente testo su Cavicchi.

Sulla falsariga del precedente post: chi diavolo è quest’altro Carneade? Un avvocato milanese, con un suo studio; come vedete dallo strillo sul quotidiano, si autodefinisce “docente di Diritto”. Ora: ‘docente’ non significa nulla. O sei di ruolo (ordinario, associato) oppure sei un docente a contratto; per chi non è al dentro della materia: moltissimi atenei, in carenza di personale docente, contrattualizzano dei professionisti che si presume abbiano determinate competenze; tale presunzione si basa sul fatto di conoscere un ordinario, essere cugini di un preside, avere fatto una gita con un associato, e le competenze, in nessun modo certificate (non ci sono concorsi per il contratto, che è di tipo professionale) impongono poi di fare docenze, esami e così via. I professori a contratto riempiono buchi a volte per poco tempo e a volte per molti anni, fino a diventare “Prof” nell’immaginario degli studenti e di loro medesimi. La legge impone di specificare la qualifica esatta che definisce l’ambito professorale, e che i professori a contratto debbano specificare esattamente sia tale condizione che l’ambito di insegnamento (nello specifico per gli avvocati si può leggere QUI). Sia il Cavicchi di cui già abbiamo parlato, sia il D’Auria, non possono pertanto dichiararsi ambiguamente “professori”, lasciando intendere ruoli impropri. Se sono ordinari devono scrivere “professore ordinario”, ma se fossero contrattisti devono scrivere “professore a contratto di …”; tale dizione può essere disponibile solo fino a scadere del contratto stesso. Il D’Auria, peraltro, è “docente” all’Università telematica San Raffaele. Telematica. Non apro una querelle pure sul valore di queste università…
Ricordando al lettore che ho promesso poi di spiegare perché questo curriculum sia rilevante, entro brevissimamente nel merito del testo in causa.
In quanto avvocato e docente di diritto, D’Auria scrive un pezzo che col diritto non azzecca nulla; scrive di linguaggi, di cultura (in senso antropologico), di filosofia, di psicologia cognitiva, sociologia, politologia. Tutto questo in un unico post sul Fatto, badate bene. Un minestrone indigesto da autodidatta omnivoro, che legge un po’ qua, leggiucchia un po’ là, presumendo sempre moltissimo di ciò che non sa, mette tutto assieme in un frullato dove cita Nietzsche, la fine del sacro, la pancrazia collettiva, il rumore sociale, concludendo con una lode ai 5 Stelle. La fatica di smontare una per una le fuffe di D’Auria, come fatto a suo tempo per Fusaro e Cavicchi, esorbita la mia attuale disponibilità di pazienza. Oddio, potrei prendere un granchio, ovviamente, e – ipotesi B – il D’Auria potrebbe essere uno di quei casi rari di eruditi e veramente sapere di antropologia, sociologia, psicologia, filosofia e semiotica, e il suo testo essere troppo avanti anche per me, anzi: io sono certamente un piccolo borghese invidioso di tanto sapere e di tanto acume.
Poiché, valendo l’ipotesi B, io non ne sarei consapevole, procedo quindi con l’ipotesi A e concludo.
A me di D’Auria importa esattamente come di Cavicchi e un po’ meno di Fusaro. Ognuno di noi si sveglia la mattina (sapete quella della gazzella e del leone, no?) e si mette a correre per portare a casa il companatico ma, specialmente, per avere conferme del proprio ruolo in questo buco di mondo: essere accettati, semmai un filino lusingati, semmai straordinariamente valorizzati… Ognuno di noi vuole essere amato, semmai corteggiato o – straordinario – avere migliaia di fan, di follower, di like, di imitatori perfino! Se sei professore sei uno sborone per definizione, se lo sei a contratto e infingi un pochino che male c’è? Se hai un minimo di capacità sintattica e ti trovi a scrivere su un blog dà gusto, no? Ditelo a me! Se poi il blog è su un quotidiano sai i caffè pagati dagli amici! Se poi è sul Fatto… ecco, se è sul Fatto, e tu sei un simpatizzante, hai fatto tombola.
E qui passiamo a rispolverare il concetto gramsciano di “intellettuale organico”, che lui – Gramsci – pensava organico al popolo; capace di leggerne i bisogni e percepirne gli umori (i dolori, le sofferenze…), e quindi si prestava, col proprio intelletto, e cultura, e sapere, a dare voce a quei bisogni, dare voce verso la borghesia e i capitalisti, che di parole ne hanno da vendere, come ci ha insegnato don Milani.
Qui io vedo invece nascere una leva di intellettuali organici al populismo. Intellettuali intrisi di logica populista che “danno voce” al popolo populista (non è un gioco di parole; ‘popolo’ e ‘populista’ fanno parte di due concetti separati, ed esiste anche un popolo non populista, vivaddio!); il populismo è dogmatico, massimalista, improvvisatore anziché eclettico, zeppo di pareri e scarso di competenze… Così lo sono i suoi intellettuali; sono organici al populismo in quanto capace di improvvisare allegramente spaziando fra termodinamica, sociologia del tutto e filosofia for dummy, mettendo assieme delle zuppe ricche di ingredienti tolti dal frigo così, a cazzo, quel che c’è c’è.
Se l’intellettuale gramsciano ha avuto un ruolo fondamentale nella coscienza delle masse di fine Ottocento e prima metà del Novecento, l’intellettuale populista ha una presenza lieve ed evanescente; scrive sciocchezze e i veri intellettuali le disdegnano; le scrivono infarcendo di paroloni da pseudo-eruditi e quindi anche il popolo li schifa. Non aggiungono nulla ai politici populisti, che in quanto tali non hanno una linea ma, semplicemente, arrancano improvvisando; sono quindi innocui? Fino a un certo punto. Poiché la moneta cattiva scaccia quella buona, la produzione di questa pseudo-letteratura – ancorché non letta dai più – crea un’idea di intellettualità, di ragionevolezza, di consenso verso la fufferia, lascia intendere che davvero uno vale uno, che di Nice basta sapere che “dio è morto” e di Marx che “il capitalismo divorerà se stesso”, che la sociologia significa chiacchierare del più e del meno e che la filosofia è alla portata di chiunque pensi, una volta nella vita, “da dove vengo, e dove vado?”. E quindi anche la teoria dei quanti, in fondo in fondo, si racchiude nel principio di Eisenberg, quello là che dice, più o meno, che tutto è incerto, e poi siam tutti figli della Wikipedia, no?
E così il mare di fuffa prodotta dai parvenu della cultura, che si fanno pubblicare un libro, accattano un incarico, scrivono un blog, sommerge la Cultura con un pensiero unico fatto – badate – non di contenuti ma di forme. Il nuovo pensiero unico non è tale perché dice sempre la stessa cosa (sarebbe banale) ma perché dice molte cose nello stesso modo. In questo caso di specie il modo è quello dell’approssimazione, della cacofonia imitatrice dell’erudizione, delle fallacie logiche coperte dalla trama sintattica.
Io non ci sto. Qui su HR non ci stiamo.
Noi non ci omologhiamo.