Cosa fare coi “dittatori”? Fin dove si può spingere la realpolitik? Una questione spinosa che non possiamo risolvere con appelli ideologici.

Cosa fare coi “dittatori”? Fin dove si può spingere la realpolitik? Una questione spinosa che non possiamo risolvere con appelli ideologici.
In che modo gestire il dissenso di un parlamentare, o di pochi, dentro un’organizzazione politica? Se un leader politico propone una linea, e la maggioranza degli aventi diritto nell’organo decisionale preposto l’avvalla, quanto è tollerabile un successivo dissenso esplicito da parte di membri della minoranza? Il problema è spinosissimo perché da un lato abbiamo ben chiari i concetti di libertà, coscienza, responsabilità, e dall’altro lato quelli di decisione, democrazia maggioritaria e funzionalità organizzativa. Supponiamo, per esempio, che il leader di un partito – Renzi, diciamo – abbia in animo di riformare in un certo modo il Senato e che la sua proposta raccolga una paio di proteste, qualche mugugno e poi un bel po’ di consensi, certificati da una votazione alla Direzione nazionale. A quel punto l’azione parlamentare di questo partito e dei suoi parlamentari dovrebbe essere di sostegno all’iniziativa, sempre e comunque, oppure no? Mi riferisco in particolare ai contrari e mugugnatori, ovviamente. Costoro hanno seriamente, sinceramente, democraticamente espresso il loro diverso avviso, hanno partecipato alla discussione ma sono risultati pochi e non hanno potuto far cambiare la linea del partito. Devono allinearsi? Sono liberi di continuare per l’eternità a distinguersi? Qualunque sia la vostra risposta ha almeno un elemento di debolezza.