Lo spazio del dissenso individuale nelle organizzazioni politiche

In che modo gestire il dissenso di un parlamentare, o di pochi, dentro un’organizzazione politica? Se un leader politico propone una linea, e la maggioranza degli aventi diritto nell’organo decisionale preposto l’avvalla, quanto è tollerabile un successivo dissenso esplicito da parte di membri della minoranza? Il problema è spinosissimo perché da un lato abbiamo ben chiari i concetti di libertà, coscienza, responsabilità, e dall’altro lato quelli di decisione, democrazia maggioritaria e funzionalità organizzativa. Supponiamo, per esempio, che il leader di un partito – Renzi, diciamo – abbia in animo di riformare in un certo modo il Senato e che la sua proposta raccolga una paio di proteste, qualche mugugno e poi un bel po’ di consensi, certificati da una votazione alla Direzione nazionale. A quel punto l’azione parlamentare di questo partito e dei suoi parlamentari dovrebbe essere di sostegno all’iniziativa, sempre e comunque, oppure no? Mi riferisco in particolare ai contrari e mugugnatori, ovviamente. Costoro hanno seriamente, sinceramente, democraticamente espresso il loro diverso avviso, hanno partecipato alla discussione ma sono risultati pochi e non hanno potuto far cambiare la linea del partito. Devono allinearsi? Sono liberi di continuare per l’eternità a distinguersi? Qualunque sia la vostra risposta ha almeno un elemento di debolezza.

Se pensate che il politico in minoranza debba allinearsi alle posizioni maggioritarie, senza poter più dire né a né ba, dimenticate che il famigerato centralismo democratico è morto e sepolto assieme alla dittatura del proletariato e alle magnifiche sorti e progressive. Grazie al cielo riteniamo ingiuste le pratiche staliniste, crediamo che la dialettica interna a un partito sia elemento di progresso e democrazia e giudichiamo male Beppe Grillo anche perché epura all’istante ogni manifestazione critica. E i parlamentari hanno garantito il diritto alla libera espressione anche in dissenso al partito di appartenenza (laddove all’art. 67 della Costituzione si dice che “non hanno vincolo di mandato”). Sì, certo, hanno già potuto esprimersi nei loro organismi direttivi, ma non è che cinque minuti dopo, interrogati da un giornalista, possono far finta di niente…

Se invece pensate che il politico in minoranza abbia sempre e comunque il diritto di prendere le distanze vi chiedo se non credete che il perdurare continuo, insistente della critica, incluso il voto avverso in Aula, non possa creare qualche problema. Afferma l’idea di un’impossibile sintesi, mina la credibilità del leader ma poi della stessa formazione politica nella sua interezza e disillude il cittadino verso la possibilità di avere una chiara offerta politica distinguibile e certa.

Il caso Mineo (preceduto da un meno eclatante caso Mauro) deve spingere a fare queste riflessioni comprendendo però bene cosa sia successo. Mineo era un rappresentante PD nella Commissione Affari Costituzionali dove si discute di riforme e di abolizione del Senato. Lui (e altri) ha idee diverse da quelle di Renzi (e quindi da quelle ufficiali del partito) e non aveva alcuna intenzione di “piegarsi” al volere della maggioranza; la conseguenza è che dopo Mauro anche Mineo è stato costretto a lasciare quell’incarico. Ha ragione la vittima Mineo e torto il dittatore Renzi o a ragione il riformista Renzi e torto il contestatore Mineo? Se volete rispondere con la testa e non col cuore dovete conoscere anche questi pochi elementi:

  1. il Regolamento del Senato, Capo VI (artt. 21-51) ci spiega come i componenti delle Commissioni siano designati dai gruppi (non sono eletti dai cittadini, sono indicati dai gruppi politici a rappresentarli); i gruppi possono “per un determinato disegno di legge o per una singola seduta, sostituire i propri rappresentanti in una Commissione” (art. 31); vale a dire che la famosa mancanza di vincolo di mandato non è prevista in quanto le Commissioni sono organismi operativi e non legislativi;
  2. lo Statuto del PD riconosce la pluralità (art. 1, comma 6) ma:
    1. è il Segretario che esprime l’indirizzo politico (art. 3, comma 1);
    2. gli eletti “si impegnano a collaborare lealmente con gli altri esponenti del Partito Democratico per affermare le scelte programmatiche e gli indirizzi politici comuni” (art. 22, comma 1).

A me pare, in sintesi, che Mineo abbia torto sia dal punto di vista del partito sia dal punto di vista del Senato della Repubblica.

Chiarito questo episodio resta però il problema generale. In che forme e modi i dissensi sono accettabili, e in quali diventano inaccettabili? Converrete con me che il problema non è risolvibile con una magica regola generale, con un’equazione capace di pesare parole e loro effetti, momenti politici e ideologie di riferimento. Direi che caso per caso occorre capire e valutare la situazione, nel rispetto delle regole piuttosto chiare che esistono (l’art. 67 della Costituzione, i regolamenti di Camera e Senato, le leggi esistenti che garantiscono e tutelano la libertà di espressione) e di opportunità che hanno, naturalmente, a che fare con le sensibilità individuali. Se diamo un’occhiata alle minoranze interne del PD, vediamo per esempio degli stili molto differenti: Gianni Cuperlo non è certo tenero con Renzi, e la sua area di riferimento continua a fare una seria opposizione interna, ma contribuisce alla costruzione della linea del partito e non va a elemosinare comparsate televisive per dichiarare ogni cinque minuti quanto sia distante la propria posizione da quella del Segretario, cosa che invece continua fastidiosamente a fare Pippo Civati, che non sembra capace di riassorbire la sberla delle primarie.

Nelle organizzazioni complesse e plurime è difficile fare sintesi; il PD nasce per l’apporto di componenti molto differenti, di culture cattoliche, marxiste, socialdemocratiche; non si può amare il pluralismo quando la propria componente è maggioritaria, trattando paternalisticamente le altre componenti, e scalpitare quando, nella medesima organizzazione, vincono altri; non si può partecipare alla gara delle primarie e poi non riuscire a placare il proprio ego narcisistico quando il responso dei cittadini ti consegna un risultato così diverso da quello auspicato. Che piaccia o no all’insieme degli iscritti e degli elettori PD, oggi Renzi ha scalato la montagna, da solo, e siede in cima, con risultati eclatanti sia alle primarie che alle ultime elezioni europee e amministrative. Bene controllare il suo potere; benissimo opporre ragioni e argomenti alternativi alle sue ragioni e argomenti; fondamentale criticarlo quando sbaglia. Ma poi si lavora dentro il partito e per il bene comune.

Mi dispiace avere parlato solo del PD; il caso Mineo e le componenti interne fanno più notizia ed è venuto naturale soffermarsi sui Democratici, ma la mia riflessione vorrebbe avere una valenza generale. Per applicare analogicamente tale riflessione su altre formazioni occorrerebbe parità di condizioni: democrazia interna, statuti anziché non-statuti, segretari e non proprietari… Non tutti i partiti sono quindi candidati a questa riflessione ma un certo numero indubbiamente sì. Partiti che accettano il dissenso, che sono capaci di confronto ma anche di fare sintesi, e in cui, da un dato momento in poi, nessuno può godere della posizione di privilegio offertagli (quella di essere un parlamentare e di avere un pulpito perenne dal quale crearsi visibilità) per lavorare perennemente contro.