Autore: PamelaTavalazzi

Vivo in Romagna, a due passi da Ravenna, a quattro dal mare. Mi occupo di comunicazione da oltre 25 anni, da una decina anche di comunicazione politica. Oscillo tra la pubblica amministrazione e le imprese. Amo osservare il mondo che mi circonda, tentando di trovare soluzioni improbabili ma possibili e di questo, talvolta, scrivo.

Le parole suonano vuote, già sentite mille e mille volte. Eppure le parole sono giuste. Mettete le mascherine e usate il gel sanificante, tenete le distanze. Per la parte economia ci pensiamo noi: meno tasse, più liquidità per il mondo del lavoro, cassa integrazione, bonus di varia natura, miliardi che arrivano a pioggia e tutto il resto che sentiamo da giorni. Insomma, tutto corretto. Poi le scuole. Già le scuole, quella formazione della mente che aiuta a comprendere gli accadimenti della vita e a starci dentro. La scuola che educa al meglio che ti può accadere e che dovrebbe educarti anche a stare dentro al peggio, allo sconosciuto. Coglierne il senso e non stare lì, ad aspettare, come un’alga sul bagnasciuga quando arriva l’onda a umidificarla, che le cose da sole mutino. E poi c’è il PIL. Mai visto un PIL così, mai vista una recessione così dai tempi dell’ultima guerra mondiale. Eppure, lo diceva Bob Kennedy nel 1968, il PIL non tiene conto di tante cose. Non tiene conto della salute mentale delle persone, ad esempio. Abbiamo paura, abbiamo ancora paura. Non tiene conto delle mascherine che coprono sorrisi. E i sorrisi servirebbero come il pane quando sei affamato. Il PIL non tiene conto del corpo, della fisicità mancata, di quella pacca sulla spalla che dice “forza, ce la facciamo…”. Il PIL non tiene conto dei baci che non si danno, delle mancate gioie, della fatica a prendere tra le mani la speranza e vedere il futuro. Il PIL non ha neppure il dono di farci guardare la nostra vita quotidiana con la coda dell’occhio. Quella particolare angolazione del vedere ed osservare ciò che ci accade e che apre mondi diversi, differenti, creativi. Se fossi un politico, dopo aver detto esattamente cosa si pensa di fare materialmente per il prossimo futuro, parlerei di fiducia e ne parlerei in dosi uguali e forse anche superiori alle cose che si toccano. Sì, dobbiamo mangiare, ma dobbiamo mangiare con uno straccio di sorriso. E poi dobbiamo uscire dalle nostre case, ma fuori ci sentiamo ancora a disagio. E allora, perché non si parla a gran voce del disagio se lo vogliamo risolvere? Il ruolo della nostra vita emozionale è determinante ora, chi ci governa (Stato, Regione, Comuni) dovrebbe tenerne conto. Si tratta di aver cura gli uni degli altri, si tratta di ricominciare a stare nel mondo con gli altri. Si tratta di condividere l’incertezza. Se non capiamo il nostro sentire e non lo trasformiamo ora, la ripresa di questo paese sarà ancora più lenta.

Immagina una famiglia, la tua famiglia. Immagina che ogni santo giorno, a turno, qualcuno s’arrabbi per qualcosa. Dalla mattina alla sera, dall’alba a notte fonda. Immagina le voci si alzino, i toni si incrinano, le espressioni dei visi tirate dalla rabbia. Immagina questo per giorni e giorni, anzi mesi.

La definiresti una famiglia serena? Una famiglia in grado di risolvere i problemi che si hanno da sempre? Qualcuno bestemmia, altri urlano, chi diventa permaloso e chi sbatte la porta e se ne va. Un muro tra le persone, un dialogo frantumato. Inquinato.

Adolescenti a tavola con i genitori, timorosi che una parola storta faccia scoppiare la rissa di parole. Un continuo rivendicare il passato, l’accusa perenne di quel che è stato. Dialogo impossibile, privo di soluzioni per il futuro. Un presente fatto di musi lunghi, risentimento, tristezza. “Tieni, prendi questi soldi, esci e vai a comperare qualcosa… “. “No, papà. Mi serve altro, vorrei ti sedessi e mi ascoltassi, vorrei mi tranquillizzassi. Vorrei non avere paura del giorno dopo, vorrei capissi che non sono i soldi che mi servono, prima di quelli ho bisogno della tua attenzione. Siediti per favore, spegni tutto (cellulari e tv) e ascoltami che ho da dirti cose”.

Un cumulo di eventi ammassati giorno dopo giorno, che ora vanno rispolverati, esaminati, capiti e digeriti se si vuole procedere insieme in modo diverso. Sappiamo cosa non vogliamo più, ma sappiamo cosa è necessario

fare di nuovo per uscire da questo stallo?

Ti prego madre, non urlare più. Padre, per favore ascoltaci e decidi per il meglio cosa fare di questa famiglia, di questo atmosfera, dei fiori che non ci sono sul davanzale, dei sogni che non riusciamo più ad avere, della malinconia sui mobili.

C’è una famiglia che si chiama popolo che è stanco di aver paura del futuro ed è stanco di aver paura delle paure percepite. E’ la fabbrica dei sogni, non la fabbrica della paura di cui si ha bisogno. E’ di realtà e verità che si ha bisogno, guardata con gentilezza e voglia di cambiare il mondo alla Gandhi, però.

Il lupo non c’è. Abbiamo guardato, ma non c’è. Ma c’è un Governo che parla, urla, fa perenne propaganda e vorrebbe farci credere che non possiamo più sognare un mondo per tutti fatto di incontri con l’altro. Abbiamo un Governo che mette a disposizione la paghetta, ma il lavoro non c’è. Abbiamo un Governo che copia quel che è stato, posticipa decisioni, decide sempre all’ultimo secondo, cambia opinione come ci si cambiano le mutande. E urla, sempre, tanto. Troppo.

“Sai benissimo che una goccia inonda il cielo. È così piccolo il mondo che ci osserva” cantava la cantantessa, Carmen Consoli.

Tanti ancora credono al lupo. Gli altri aspettano – tra risate, ironia, preoccupazione per il tempo che passa –  confusi e infelici.