Covid19. Il buco nero della nostra società

Una intervista a Serena Fagnocchi fisico teorico e insegnate di yoga.

Accadono cose belle durante il confinamento nelle nostre case da Covid19. Scopro, ad esempio, che la mia insegnate di yoga, Serena Fagnocchi, ha da tempo nel suo cassetto una bozza di libro. Decide di farmelo leggere e ne viene fuori questa intervista. 

1 – Hai una laurea in fisica teorica. Un dottorato in ricerca, un passato in politica. E un presente da insegnante di yoga. Con quali occhi vedi quello che sta succedendo nel nostro paese e nel mondo per il covid19?

Non possiedo occhi differenti per guardare le cose, siamo il risultato di tutti i mondi attraverso cui siamo passati. Ho vissuto ogni cambiamento di percorso come integrazione di saperi diversi, non in contraddizione, che si arricchiscono e completano. Quello che vedo è una società in difficoltà che sta attraversando una emergenza. E lo fa come può, al meglio che può, che purtroppo non sembra molto, in termini economici e soprattutto emotivi e di visione complessiva. C’è chi rabbercia l’oggi, chi si rifugia nelle sue nevrosi, chi placa l’angoscia con qualsiasi cosa trovi a disposizione pur di non tollerare l’incertezza. Vedo tanta paura mascherata. Vedo anche molti che stanno tirando fuori risorse inattese, ma sono per lo più quelli che lavorano a stretto contatto con l’emergenza o che sono stati investiti in modo pesante da essa. Sembra che solo il dolore e la sofferenza più forte siano in grado di farci uscire dal nostro bozzolo fatto di protezioni, giudizi sprezzanti, rabbia e lamento.

2 – Il tuo libro parla di buchi neri. Li descrivi come gli oggetti più esotici ed affascinati della fisica e ne parli come ottima metafora per descrivere società intere. Siamo in un buco nero?

Ho studiato buchi neri per circa dodici anni. Ho lasciato la ricerca scientifica nel 2012. Quando ho scritto quelle pagine avevo l’impressione che certe parti della società stessero inesorabilmente entrando in un buco nero, ovvero in una zona di spazio-tempo disconnessa con l’esterno. Autoreferenzialità, mancanza di ascolto, loop mentali: tutte cose che ci isolano dalla realtà. L’ho usato come metafora per la depressione – quello stato che ci isola dall’esterno e ci fa rinchiudere in noi stessi – ma anche per descrivere interi settori (come quello politico) che si inviluppavano attorno a se stessi circondandosi di parole vuote e rimanendo impermeabili alle richieste delle persone. Ora mi pare che questa metafora possa essere ulteriormente estesa, ahimè. Tendiamo a essere sempre più isolati, a ripensare continuamente gli stessi pensieri, a alimentare le stesse nevrosi, ci proteggiamo con rabbia da ogni possibile breccia nelle nostre roccaforti. Siamo molto spaventati, questo è evidente, e impegniamo ogni nostra energia a proteggerci e controllare. Proteggerci attraverso il controllo. Ma non potendo controllare tutto tendiamo a ritirarci in spazi fisici e mentali sempre più angusti dove crediamo di poter esercitare il controllo, a restringere le nostre opportunità senza neppure rendercene conto, fino a rinchiuderci nelle nostre rassicuranti convinzioni, spesso sbagliate. Alla fine non esiste più spazio per niente: né per il dubbio, né per la messa in discussione di noi stessi, né per l’incerto, né c’è la disponibilità alla fiducia e al buono che può emergere dall’imprevisto. Viviamo sempre più compressi e impermeabili.
Se questa impermeabilità diventa totale, allora possiamo dire di essere dentro un buco nero. Ma finché esiste la possibilità che la realtà entri, e ci metta in discussione, allora abbiamo una speranza di uscirne.
Ora la realtà ha assunto per tutti l’aspetto di una pandemia. Vedremo se sapremo osservarla per ciò che è e integrarla nel nostro pensiero e nelle nostre scelte, oppure se la vivremo come un accidente momentaneo da rimuovere, per ritornare il più velocemente possibile alle nostre vite precedenti sotto la guida delle nostre inscalfibili certezze.

3 – Se ti cito queste parole di Dostoevskij “ama la vita più della sua logica, solo allora ne capirai il senso”. Senza troppo pensare, cosa mi rispondi?

Le domande che ci facciamo, ci condizionano più delle risposte che troviamo. A volte possiamo girare a vuoto per una vita attorno a domande mal poste. La mia vita è cambiata diverse volte. Una di queste, una delle prime svolte di cui ho coscienza, è stata quando ho smesso di chiedermi il senso, il perché, lo scopo delle cose per concentrarmi sul “come” sono le cose, sul “cosa” accade, sui meccanismi con cui noi e il resto del mondo funzioniamo, senza pretendere di legarle ad un significato, a una ragione, a un disegno. Questo mi ha alleggerito di colpo. Ho iniziato a ritenere la richiesta di un senso una sorta di domanda mal posta, le cui risposte portano inesorabilmente a distorsioni, affaticamenti e irrigidimenti dogmatici.

4 – Stiamo vivendo un momento che ci obbliga ad uscire (mentalmente e non) dalla nostra comfort zone fatta di cose certe, abitudini, routine quotidiane. Ci ha messo a confronto con il nulla di acquisito e il nulla di scontato. Nel tuo libro dici che sarebbe più rilassante affidarsi ad un sapere assoluto e definitivo, senza spazio di errori, dubbi o preoccupazioni… 

Siamo esseri che vivono a risparmio energetico. Prendere continuamente decisioni senza regole ferree, il sospendere ogni volta il giudizio invece di applicare schemi consolidati sono, ad esempio, attività che richiedono un grande dispendio di risorse. Molto più semplice decidere una volta sola in cosa credere, più velocemente possibile, e poi applicare quella decisione senza pensarci – tanto, ci diciamo, abbiamo già pensato – in ogni situazione futura. Poco importa se le circostanze cambiano, se emergono nuove informazioni o esperienze che potrebbero far vacillare alcune sicurezze. E’ più economico difendere quella certezza che costruirne una nuova. Ancora più difficile è rimanere disponibili al continuo evolversi dei fatti e delle opinioni, perché dovremmo abituarci a tollerare l’incertezza e il vuoto. Mi sto convincendo che è proprio sulla gestione del vuoto – mente, dati, informazioni, collegamenti, sapere, opinioni – che andiamo in tilt. Preferiamo riempirlo con cose sbagliate ma immediatamente disponibili, piuttosto che aspettare e riempirlo consapevolmente.  Questa attesa nell’incerto ci è difficilmente tollerabile. Eppure stare nell’incerto e nello spazio delle possibilità è l’unico modo per progredire ed evolvere in conoscenza e consapevolezza. Invece siamo pieni di cose sbagliate cui siamo affezionati e che non lasciamo andare. Spesso non siamo neppure consapevoli di ciò che diamo per scontato e quanto questo ci condizioni. Crediamo di proteggerci, e invece ci intossichiamo.

5 – Qualcosa di invisibile ci preclude l’idea che possiamo tenere tutto sotto controllo. Siamo una sorta di caos che tu descrivi così “il caos è un’incertezza di cui essere grati, cui ci si affeziona in cui vivere comodi”. La domanda che molti si pongono, ne usciremo migliori o peggiori? O almeno, ne usciremo cambiati?

Crisi significa scelta. Ogni giorno della nostra vita scegliamo come comportarci, e quindi chi essere. Potremmo invertire la rotta del nostro viaggio in qualsiasi momento, ma quel che succede è che spesso andiamo avanti per automatismi, senza reale consapevolezza, senza davvero realizzare che possiamo scegliere qualcosa di diverso. Quando capita un’emergenza, anche personale (un lutto, una malattia, una separazione, la perdita di un lavoro, ma anche la nascita di un figlio) i nostri automatismi si inceppano e può essere l’occasione per metterli in discussione e scegliere di modificarli. Molto spesso invece li irrigidiamo ulteriormente: se tendiamo ad avere scatti di rabbia diventiamo ancora più rabbiosi, se tendiamo a giudicare negativamente diventiamo spietati, se tendiamo a commiserarci diventiamo ancora più passivi. Se ne usciremo migliorati o meno dipende da tante cose, le quali sono essenzialmente legate alla nostra disponibilità a farlo. Ora l’emergenza è planetaria e la crisi ci ha colti tutti nello stesso momento, ma non nello stesso stato, non con la stessa disponibilità. E quindi c’è chi sta acuendo le sue nevrosi e chi invece ha imparato a vedere le cose da un punto di vista diverso, a compiere gesti con più attenzione, a dare valori e priorità differenti alle cose. Quindi la risposta è dipende. 

6 – Fisica teorica e yoga? Ci racconti di quest’ amalgama che qualcuno potrebbe definire bizzarra?

E’ molto meno bizzarra di quanto uno potrebbe pensare. Purtroppo i muri che ci costruiamo attorno separano artificialmente mondi con affinità profonde. Ogni muro che alziamo ci impoverisce. Accade per molte cose, in particolare per la ricerca scientifica e la filosofia orientale, in cui nasce lo yoga. Anch’io, avvicinandomi allo yoga, nutrivo questo pregiudizio. Poi mi sono resa conto che la forma mentis per fare yoga era esattamente quella che mi veniva chiesta per fare ricerca scientifica: osservare senza pregiudizi, analizzare ciò che si vede senza giudicarlo, anche quando contraddice le nostre opinioni o le nostre aspettative, imparare a dare molto più peso alle cose che fanno vacillare le nostre convinzioni piuttosto che a quelle che le confermano. Vedere le cose per come sono, non per come vorremmo fossero. Quello che cambia è “solo” l’oggetto della ricerca, da esterno a interno, dall’analisi di un buco nero al nostro funzionamento fisico, psichico, mentale.  Non a caso Jung definisce lo yoga la più antica indagine che l’uomo abbia mai svolto sul corpo e sulla mente. Abbiamo corpi che sono sofisticate antenne che ci inviano continuamente informazioni preziose sul mondo e su noi stessi, che noi normalmente ignoriamo. La nostra mente è spesso troppo impegnata a pensare pensieri, imporre richieste e giudicare performance. Lo yoga cerca di recuperare questo dialogo inceppato tra corpo e mente.

7 –  In particolare sui social si legge di tutto sulla emergenza che stiamo vivendo. C’è anche chi nega morti, chi crede a premi Nobel che sostengono che il  Covid-19 è stato creato in laboratorio. Un po’ come   i terrapiattisti sostengono che la terra sia piatta: che ne pensi?

Assistere, nel contesto di un’emergenza simile, al dilagare e proliferare di ipotesi antiscientifiche mi ha demoralizzata molto, al limite del malessere fisico. Poi ho compreso si tratta di meccanismi di difesa, che partono da una sfiducia – spesso comprensibile e giustificata – verso sistemi di potere dai comportamenti non sempre specchiati e che cercano di dare sollievo a paure profonde, spesso neppure consapevoli. Solo che, a mio parere, a volte queste paure vengono silenziate attraverso la somministrazione di certezze pret-a-porter, facili, che ci danno l’illusione di poter tenere tutto sotto controllo, di non farci fregare, ma che non risolvono davvero il problema.  Non sto dicendo che ci dobbiamo bere tutto acriticamente, sia chiaro, ma dobbiamo imparare a tollerare che non si può avere subito risposta a qualsiasi domanda, che le risposte vanno verificate con fonti certe e ogni opinione deve avere validazione scientifica. Dobbiamo accettare che l’opinione di un premio Nobel non vale più di quella di un dottorando, ma entrambe devono essere verificate attraverso il metodo scientifico. Il metodo scientifico è una meravigliosa invenzione umana per proteggere gli uomini dai propri difetti. Funziona così: non importano i tuoi bias cognitivi, le tue opinioni personali, i tuoi pregiudizi, se sei simpatico o antipatico, se sei in malafede o hai solo commesso un errore, quello che sostieni deve essere dimostrato scientificamente e ogni errore viene corretto. La scienza è fatta da uomini e donne, ognuno coi propri limiti e difetti, ma funziona come un organismo che auto-produce gli anticorpi per eliminare da solo errori o storture che le persone che ne fanno parte portano con sè. Questo processo richiede tempo e la disponibilità a stare sul ciglio tra conoscenza e ignoto.  Solo così la conoscenza avanza attraverso contributi successivi, e la terra non tornerà mai a essere piatta.

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