La crisi pandemica ha reso visibile a tutti l’assoluta insostenibilità del disastroso regionalismo introdotto dal governo Amato nel 2001.

La crisi pandemica ha reso visibile a tutti l’assoluta insostenibilità del disastroso regionalismo introdotto dal governo Amato nel 2001.
Leggete l’intervista a Jole Santelli, Presidente della Calabria, oggi sull’HuffPost. Per tono, per argomentazioni, per arroganza e per stupidità è l’emblema del regionalismo oggi. Voglia di protagonismo, antagonismo fazioso al governo, scelleratezza cinica sulla pelle dei cittadini. Abbiamo perso la scommessa di Renzi, che nell’ammucchiata referendaria aveva anche messo la riforma del maledettissimo Titolo V della Costituzione – in gran parte responsabile di questa tensione eversiva del regionalismo usato come clava politica. Ringraziamo di ciò il prepotente ideologismo di Zagrebelsky, della “ditta”, della sinistra ottusa (pare che Landini si sia pentito…). Oggi le (deboli) forze riformiste, democratiche, liberali e socialdemocratiche devono aprire una stagione di riflessione sulla deriva regionalista e sulla indifferibile necessità di un riordino delle autonomie locali.
Il coronavirus andrà come andrà… Ma se incominciassimo ora a pensare al dopo, e a pensarlo migliore di quello attuale?
La crisi del coronavirus è un semplice test per la nostra democrazia. Spiace informarvi che non l’abbiamo superato.
Zingaretti lancia una proposta di grande interesse sulla semplificazione amministrativa. L’idea è ottima, ma come pensa, Zingaretti, di realizzarla?
“L’Italia è una ventina di repubbliche fondate sul ricorso”. Così si sarebbe dovuto riscrivere l’articolo 1 dopo il cambiamento del Titolo V del 2001. La devoluzione delle competenze dello Stato alle Regioni negli ultimi 15 […]
Abbiamo già visto in un articolo precedente quali criteri è bene non prendere in considerazione per valutare le propria posizione sul referendum costituzionale. In questo articolo si affronta il compito di offrire alcuni strumenti per […]
Lo dico subito in apertura a tutti coloro che spammano su Facebook e Twitter presunte frasi contro la casta di Pertini, che rimpiangono Pertini, che inneggiano a Pertini-il-Presidente-di-tutti-noi: questo breve post non è stato scritto per voi! Pertini ha “esercitato” dal ’78 all’85, il che significa che molti di voi non erano nati o erano bambini; se avete meno di cinquant’anni e parlate di Pertini non ne avete titolo, lasciate perdere e non fate gli omologati che corrono dietro a modelli che non conoscono per unirsi a un coro di indignati da salotto. Questa sfuriata iniziale mi serve per introdurre i due assolutamente distinti blocchi di Presidenti che abbiamo avuto, quelli prima di Tangentopoli e l’inchiesta “Mani Pulite” (Pertini e Cossiga gli ultimi) e quelli dopo (Scalfaro, Ciampi e Napolitano).
Due parlamentari PD, il deputato Morassut e il senatore Ranucci, hanno presentato un disegno di legge di modifica costituzionale per la riduzione delle Regioni, dalle attuali 20 a 12. La stampa ne ha brevemente parlato mostrando la mappa di come sarebbe ridisegnata la nostra geografia regionale, e chi ha buttato almeno un occhio sulla notizia sarà andato a vedere che fine potrebbe fare con questa riforma. A occhio e croce la prima proposta di cui mi ricordi era della Fondazione Agnelli più o meno, direi, trent’anni fa, e da allora di quando in quando il tema è stato sollevato diventando probabilmente più forte nella coscienza collettiva e più urgente oggi, sia perché si sta discutendo di riforma del Titolo V della Costituzione (che ha parecchio a che fare con qualunque manovra sull’architettura regionale) sia per il discredito che questa Istituzione ha presso i cittadini, per i troppi sprechi e scandali di cui molte Regioni si sono rese colpevoli.
Nella faticosa approvazione in prima lettura della riforma del Senato sono state introdotte non poche modifiche rispetto all’impianto originario anticipato a suo tempo da Renzi. Ciò è inevitabile (si discute anche per migliorare e “venirsi incontro”) ma fra le varie buone intenzioni perse per strada una mi colpisce sfavorevolmente, ed è l’abolizione degli Statuti speciali regionali.
“Sì, scrivere come si pensa è una bella cosa,” rispose Pococurante; “è il privilegio dell’uomo. In tutta la nostra Italia si scrive unicamente quel che non si pensa; gli abitanti della patria dei Cesari e degli Antonini non ardiscono avere un’idea se prima non gliene dà licenza un domenicano” (Voltaire, Candido).
Quando ero bambino (un sacco di anni fa, sì), tutto andava abbastanza bene: c’erano le mezze stagioni; il cinematografo era un divertimento meraviglioso; ci potevamo permettere la carne una volta a settimana ma mia mamma, grande cuoca, sapeva appagarci tutti i giorni; la guerra in Europa era un ricordo e di lontane guerre in posti sconosciuti si sentiva a malapena parlare in TV. Chi ce l’aveva. Naturalmente i miei genitori erano preoccupati per il confronto nucleare fra i blocchi, la crisi di Cuba etc., ma io che ne sapevo? Questo è durato a lungo. Sono cresciuto con l’impagabile lotta politica fra democristiani e comunisti, con l’idea degli italiani brava gente e dei poveri negri come sono trattati male in America, l’idea del crescente benessere e del boom (di bambini e di PIL), le prospettive di un mercato comune europeo, addirittura! Poi, più tardi, gli hippie, la guerra del Vietnam e Canzonissima, ma sì, tutti assieme mescolati in un unico spettacolo pirotecnico che si ammirava da lontano: tragedie e commedie, tutte assieme, in ben due canali televisivi!
Poi è accaduto che questo finto cerchio di innocenza si spezzasse.
[I dati qui presentati sono stati aggiornati con un post del 21 Marzo 2018]
Il dibattito in corso sull’abolizione delle Province è falsato artatamente da alcuni critici. Assistiamo in particolare all’alleanza fra sostenitori del mantenimento delle Province (per esempio molti di coloro che fanno politica in questo ambito) e antigovernativi a oltranza, o meglio anti-renziani, che nella migliore tradizione della politica italiana sono contro a prescindere; costoro propongono argomenti limitati e dati parziali che mostrerebbero l’irrisorio risparmio e l’inutilità semplificativa di questa riforma. A me pare che questi due argomenti non siano ben impostati, e che ne manchi un terzo che invece costituisce l’elemento centrale della riforma (se inquadrata – come dirò – in un disegno più generale), ovvero quello della diminuzione dei centri amministrativi e di potere a vantaggio di una semplificazione funzionale di sistema.