Nella faticosa approvazione in prima lettura della riforma del Senato sono state introdotte non poche modifiche rispetto all’impianto originario anticipato a suo tempo da Renzi. Ciò è inevitabile (si discute anche per migliorare e “venirsi incontro”) ma fra le varie buone intenzioni perse per strada una mi colpisce sfavorevolmente, ed è l’abolizione degli Statuti speciali regionali. Non è detto che non venga reintrodotta in uno dei prossimi passaggi fra le Camere (rendendo necessarie nuove approvazioni e allungando indefinitivamente i tempi) ma al momento il quadro dell’attuale riforma non ne parla più, nel tripudio delle Regioni (e Province) autonome interessate. Il problema (e per certi versi lo scandalo) esisteva prima della riforma ma è di molto aggravata ora. Le riforme del Senato e del Titolo V (QUI in estrema sintesi) hanno infatti due principali obiettivi: semplificazione amministrativa e risparmio economico, che non riguarda solo pochi stipendi di senatori ma specialmente il risparmio che macchina dello Stato, imprese e cittadini avranno proprio in conseguenza della semplificazione. Avere sottratto alle Regioni (peraltro inefficienti) materie quali il commercio con l’estero, le grandi infrastrutture e l’ambiente riconducendole nuovamente allo Stato è solo una questione di buonsenso, anche alla luce della moltiplicazione dei costi in questi anni (+57% dal 2002 al 2013 secondo Il Sole 24ore). Quindi sottrarre potere alle Regioni è considerato strumento di efficienza e buongoverno, ma
Tutta la riforma, però, si ferma ai confini delle Regioni a Statuto speciale. Le norme transitorie del Ddl prevedono infatti che le nuove regole «non si applicano alle regioni a Statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano sino all’adeguamento dei rispettivi statuti»: una clausola che può lasciare per sempre le cose come stanno (Gianni Trovati, Il Sole 24ore).
Cosa sono gli Statuti speciali? Perché alcune Regioni godono di tale privilegio? All’indomani della Seconda Guerra ci furono diverse spinte autonomiste o esigenze locali particolari che portarono innanzitutto alla creazione di Alti Commissari per la Sardegna e la Sicilia (1944, settant’anni fa). La Sicilia poi ebbe uno Statuto Speciale nel maggio 1946, prima del referendum del Giugno e prima della redazione della Costituzione! Per le Province di Bolzano e Trento invece – territori frutto di controversie belliche fra Italia e Austria – ci fu un accordo ad hoc fra i due Paesi. In rapidissima sintesi, per non annoiarvi:
- Province autonome di Trento e Bolzano: accordo internazionale per la tutela delle minoranze di lingua tedesca e come risarcimento per la forzata italianizzazione fascista;
- Valle d’Aosta: risarcimento per la forzata italianizzazione fascista;
- Sicilia: presenza di un forte movimento indipendentista, anche con milizie armate artefici di piccoli scontri; la concessione dell’autonomia arginò il movimento che si sciolse definitivamente nel 1951;
- Sardegna: spinta autonomista che rivendicava un “risarcimento” bellico; la Sardegna, base aerea strategica durante la guerra, subì pesantissimi bombardamenti e l’autonomia è stato il prezzo pagato dall’Italia del dopoguerra come compensazione;
- Friuli: storia diversa, anche a causa delle controversie di confine fra Italia ed ex Yugoslavia per la zona di Trieste. L’autonomia – concessa più tardi delle precedenti Regioni – era tesa a dare sviluppo a un’area poco sviluppata.
Questi privilegi, divenuti costituzionali (art. 116), si traducono in Statuti regionali diversi, con diversi privilegi.
L’autonomia finanziaria di cui godono queste Regioni è probabilmente una delle condizioni più stridenti oggi. Diversa fra le Regioni, in Sicilia arriva al 100%; vale a dire che il 100% delle imposte locali restano in Sicilia, alla quale arriva comunque un contributo nazionale. L’autonomia finanziaria e la competenza esclusiva in numerose materie strategiche ha moltiplicato in modo paradossale le spese nei decenni. Dati 2012 segnalano che il 25% della spesa regionale grava sui territori a statuto speciale malgrado comprendano solo il 15% della popolazione italiana. Questa disparità persiste negli anni malgrado la continua riduzione, in queste zone, delle entrate fiscali. La figura che segue mostra la disparità – a favore dei territori “speciali” – di alcuni indicatori.
Attenzione però:
Tutte le classifiche vanno messe in relazione con le dimensioni della singola Regione. Il quinto posto siciliano, per esempio, rischia di nascondere il fatto che a Palermo si spende il 20% dei costi totali registrati nel 2011 dalla politica regionale in Italia. Nel caso della Valle d’Aosta, invece, il primato dipende anche dall’esiguità demografica (128mila abitanti), che spiega anche l’assenza della Provincia (fonte).
La “cultura” autonomista ha prodotto guasti gravissimi anche nella gestione politica locale come alcuni critici sottolineano da tempo (vi riporto alcuni articoli anziché fare io una sintesi):
- Francesco Merlo, Ruberie, sprechi e baronaggio feudale. Ecco perché lo statuto speciale va abolito; “la Repubblica-Palermo”, 6 ottobre 2012;
- Andrea Indini, Aboliamo le regioni a statuto speciale; “Il Giornale”, 18 luglio 2012;
- A statuto speciale i politici sprecano meglio, “il Fatto quotidiano”, 2 febbraio 2012.
A questi critici (che parlano di sprechi, inefficienza, malaffare) si contrappongono i sostenitori dell’autonomismo, che accampano più che altro motivi identitari e non rispondono nel merito delle critiche (questi sono molto attivi specialmente in Sardegna dove, com’è noto, esistono forti correnti indipendentiste).
Posto che, ovviamente, nessuno pensa di risolvere i problemi italiani negando lo statuto speciale a queste aree, dovrebbe comunque essere evidente che le riforme istituzionali riguardano (dovrebbero riguardare) un insieme organico, coerente e collegato di elementi, ciascuno volto alla semplificazione amministrativa e all’efficienza dell’azione pubblica (e sperabilmente dell’efficacia, ma le norme di cui parliamo possono incidere su efficienza e spesa, mentre l’efficacia resta nella capacità di dirigenti e amministratori):
- riforma vera del Titolo V come faticosamente si sta tentando di fare;
- costituzione di macro-regioni;
- abolizione vera e completa delle Province;
- accorpamento piccoli comuni;
- abolizione statuti speciali (solo per quelli di Trento e Bolzano ci sarebbe qualche difficoltà in più in virtù del trattato con l’Austria, con la quale si potrebbe certamente aprire un negoziato);
- rivisitazione Autorità territoriali di varia natura e Aziende pubbliche.
L’abolizione delle specialità è quindi solo un tassello fra altri, ma necessario anche per eliminare evidenti disparità fra cittadini. Accampare questioni identitarie, nel 2014, è una difesa ridicola, come se gli umbri o i lucani pretendessero analoga autonomia perché popolazioni denominate umbre o lucane preesistevano ai romani con loro civiltà e linguaggio. La verità è che questi territori godono di privilegi nati in un’epoca di grave emergenza politica e istituzionale dell’Italia post bellica: l’autonomia siciliana è un chiaro esempio, concessa per far sgonfiare le tensioni locali fomentate da separatisti armati. Sono passati settant’anni. Se c’erano risarcimenti da dare sono stati abbondantemente pagati, e con gli interessi.
L’Italia ha bisogno di ripensarsi, di ridisegnare il suo profilo istituzionale, di rendersi più competitiva. L’abolizione degli statuti speciali ormai è solo una questione politica, di credibilità.