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La legge di stabilità del Governo Renzi: un bicchiere mezzo pieno

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In questi giorni è molto viva la discussione su quella che è la prima Legge di Stabilità del Governo Renzi. Mentre sono appena state rese note le osservazioni della Commissione Europea, è forse più interessante cercare di analizzarne le priorità e i contenuti, che hanno dato vita a giudizi estremamente variegati.

Tenendo presente che è probabile che ci siano variazioni in corso d’opera anche significative, proviamo quindi a proporre una nostra valutazione, dato che i temi che la legge affronta sono tra quelli che Hic Rhodus segue con attenzione.

L’ Articolo 18, un falso problema e un autentico campo di battaglia

In questi giorni, è in corso un acceso scontro a proposito della riforma del Diritto del Lavoro che il Governo Renzi ha avviato, sia pure in forma preliminare, con il disegno di legge (il cosiddetto Jobs Act) corredato da un importante emendamento che è stato approvato dalla Commissione Lavoro del Senato e che prevede la successiva stesura di una Legge Delega che tra l’altro preveda, per le nuove assunzioni, il “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio”. In altre parole, uno degli obiettivi del Jobs Act diventerebbe la revisione del celebre Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori che prevede la reintegrazione nel posto di lavoro appunto come tutela per il lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo.

Spesa pubblica: taglio o shampoo?

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A settembre crescono i tagli. Questa frutta di stagione è disponibile in due varietà, i tagli lineari e i tagli da spending review. La prima varietà è quella che si trova in tutti i mercatini, ed è semplicissima da produrre, costa praticamente nulla ai produttori e fa sempre il suo bell’effetto alla tavola dei mezzi di comunicazione. Ha il vantaggio poi di non poter essere assaggiato: dopo aver fatto mostra di sè al centrotavola, scompare, senza aver prodotto effetti. Misteriosamente, però, ingrassa lo stesso: la spesa pubblica aumenta di anno in anno.

I tagli da spending review sono invece rarissimi e costosissimi. Una squadra di esperti viene ingaggiata per analizzare a fondo tutti i paramentri necessari ad ottenere un prodotto di qualità, una cosa di gran gusto e classe, che non impatti l’ambiente con la produzione, elimini sprechi e alimenti in modo equilibrato e sano. Un prodotto di questa finezza è  apprezzabile da un pubblico di fini intenditori (la gran parte dei buongustai è un po’ rozza, e non comprende bene la fatica, l’esperienza, la competenza ed il tempo che ci vuole per ottenere questo frutto prezioso). Forse per questo, anche di tale varietà non si è mai visto un esemplare.

Mentre la disoccupazione cresce, cosa fa il governo per i giovani?

L’Istat ha appena diffuso dei nuovi dati che indicano un ulteriore aumento del tasso di disoccupazione (che arriva al 12,6%), e non c’è dubbio che questo sia forse l’indicatore che per tutti noi rappresenta la maggior preoccupazione relativamente alla condizione dell’economia italiana.

Se da un lato questo può costituire un motivo per Renzi per dare priorità al cosiddetto Jobs Act, dall’altro noi anziché parlare di proposte e annunci vorremmo andare a guardare cosa sta accadendo nella realtà a proposito di un’iniziativa già concretamente avviata nel maggio scorso (in realtà si tratta di un programma dell’Unione Europea, deliberato per i suoi aspetti operativi dal Governo Letta) per contrastare la disoccupazione giovanile, e cioè il programma Garanzia Giovani.

Il libro ha un magnifico passato davanti a sé

Qualche sera fa, sono andato a passare un paio d’ore a una manifestazione estiva il cui nucleo è costituito da un mercatino di libri. La manifestazione è ormai un “classico” e si ripete da decenni, ma la qualità delle proposte nel corso degli anni è purtroppo calata, e da luogo dove si trovavano interessanti pubblicazioni di editori minori si è arrivati a una prevalenza indiscussa dei remainders e dei libri a bassissimo costo. Addirittura c’erano cestoni di libri a 99 cent con la scritta “costo meno di un e-book”. Come spesso mi capita in questi casi, mi è venuto da pormi la classica domanda da nostalgico del secolo scorso: forse davvero il destino del libro è segnato?

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I nostri ragazzi non capiscono nulla di economia. È solo colpa loro?

[I dati qui presentati sono stati aggiornati con un post del 21 Marzo 2018]

Qualche giorno fa, sono stati resi noti i risultati di un’indagine condotta in 18 paesi nell’ambito del PISA (il programma OCSE per la valutazione degli studenti) sulle competenze di base in ambito economico-finanziario degli studenti quindicenni.

I risultati, come non di rado accade, sono particolarmente poco lusinghieri per i ragazzi italiani (che sono risultati complessivamente al 17° posto seguiti solo dai coetanei colombiani), e vale la pena di analizzarli più da vicino, chiedendoci anche se in questo caso quella emersa sia una lacuna imputabile principalmente ai ragazzi stessi, alla qualità dell’istruzione che ricevono, o ad altre ragioni.

L’Italia sta perdendo l’autobus dell’Agenda Digitale

Da tempo, mentre si continua a discutere su come “incentivare la ripresa” in Italia, si sa benissimo che c’è un singolo fattore di sviluppo che può fare la differenza, e che da solo è in grado di farci raggiungere tutti gli obiettivi di crescita che l’Italia si pone: rendere reale ed efficace la digitalizzazione dell’economia e della Pubblica Amministrazione.

Questo obiettivo, tradotto a livello europeo, è al centro della cosiddetta Agenda Digitale Europea, che pone al 2020 la data in cui l’UE dovrebbe conseguire una serie di risultati in grado, complessivamente, di garantire appieno a tutti i cittadini europei i benefici della digitalizzazione di processi e servizi, e alle imprese la possibilità di sfruttare al massimo le opportunità offerte dalle nuove tecnologie. Come si colloca l’Italia rispetto a questo scenario?

Terribilmente indietro, purtroppo.

Su Patria, Popolo, Nazione e altri concetti fuori moda

Il complesso delle persone che hanno comunanza di origine, di lingua, di storia e che di tale unità hanno coscienza, anche indipendentemente dalla sua realizzazione in unità politica. (Enc. Treccani)

A cosa vi fa pensare questa definizione? Sì, può essere il bar sottocasa, ma sarebbe anche una definizione di “Nazione”. Dico “sarebbe una” perché il concetto di nazione è ancora incerto, o quantomeno variabile nel tempo e nei tempi.

Di solito ci soccorre l’etimologia, che – etimologicamente parlando – sarebbe all’incirca lo studio del vero senso (etymon in greco). Ma in questo caso ci soccorre poco. Il termine trova un primo riferimento storico nel latino “natio” cioè nascita, dunque sarebbe lecito pensare che fosse riferito semplicemente a persone (o gentes, che è qualcosa di più di “persone”) che avevano in comune luogo di nascita e stirpe, dando poi al termine un senso estensivo connesso anche a lingua, religione e costumi. Dunque il concetto che abbiamo citato sarebbe simile a quello antico romano, ma se pensiamo che loro stessi non consideravano invece la romana una “natio” ma una “civitas” in quanto regolata da istituzioni e quindi di più elevato livello sociale, si comprende che parliamo di un concetto in continuo divenire che ha avuto nei tempi diverse definizioni e diverse accezioni, motivate, da un certo momento in poi, anche da esigenze “politiche”.

Gli espatriati italiani scelgono Londra

Se è vero che la crisi di questi ultimi anni ha messo particolarmente in difficoltà le famiglie italiane, come abbiamo già discusso in precedenti post sull’impoverimento dei lavoratori della classe media e sull’incremento della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, non può sorprendere la notizia del rilevante aumento degli italiani che decidono di espatriare. Molti di noi, penso, conoscono persone che negli ultimi anni hanno deciso di trasferirsi all’estero, per un periodo o per sempre.

La conferma viene dai dati dell’AIRE, che gestisce l’anagrafica degli italiani residenti all’estero, e che ha rilevato un fortissimo incremento degli espatriati (+19% nel 2013). Se il fenomeno è piuttosto impressionante da un punto di vista quantitativo ma non sorprendente, analizzando i dati in maggior dettaglio emergono elementi tutt’altro che scontati e che invitano a una riflessione.

Il programma economico di Renzi: diverse buone idee, ora servono i fatti

Con un comunicato dell’8 aprile scorso, il Governo Renzi ha annunciato l’approvazione del DEF, il Documento di Economia e Finanza che rappresenta di fatto il programma economico della nuova squadra capitanata da Renzi, Padoan e Delrio. Dal momento che si tratta del primo documento del genere elaborato dall’insediamento dell’attuale Governo, il suo valore sta ovviamente anche nelle linee strategiche che traccia per i prossimi anni, sempre che si dimostri possibile a Renzi dare continuità alla sua linea di governo. Analizzare il lungo documento in tutti i suoi aspetti, e verificare la coerenza del programma in esso tracciato con i provvedimenti legislativi ed esecutivi che saranno realizzati, richiederà tempo e potrà essere argomento di più di un post; in questo vorrei esporre qualche considerazione “a volo d’uccello”, anche in virtù del fatto che di molti dei temi al centro del documento ci siamo già occupati anche qui su Hic Rhodus.

L’Italia e l’eccellenza possibile

Per una volta, in questo post non mi addentrerò in un’analisi di numeri e statistiche, anche se qua e là non potrò evitare di inframmezzare il discorso con qualche cifra. L’argomento di questo post infatti è ispirato ad alcune trasmissioni radiofoniche e televisive degli ultimi mesi, in cui ho ascoltato Brunello Cucinelli esporre la sua filosofia imprenditoriale.

Per chi, come me, ha una competenza sottozero nel settore del fashion, Cucinelli può essere un emerito sconosciuto. In realtà è un imprenditore di notevole successo, azionista di maggioranza dell’impresa che porta il suo nome e che produce capi di lusso principalmente in cashmere. Per quanto si possa considerarla una produzione di nicchia, fatto sta che la valutazione di Borsa dell’azienda colloca Cucinelli, secondo Bloomberg, nel ristretto novero dei miliardari. Buon per lui, direte, ma cosa c’è da imparare da un simile caso di successo in un Paese in cui la crisi investe settori con centinaia di migliaia di addetti? Li mettiamo tutti a fare maglioni da duemila Euro l’uno?

Spesa sanitaria e costi standard: lo stiamo facendo sbagliato?

In un precedente post, ho cercato di cominciare a ragionare su se e dove sia possibile (e credibile) ridurre la spesa pubblica, dato che il nostro nuovo Presidente del Consiglio continua ad affermare di voler ridurre drasticamente le tasse sul lavoro. Preferisco per ora non prendere in considerazione l’idea che questo tipo di provvedimento possa essere finanziato da una maxi-patrimoniale, risolvendosi quindi di fatto in un incremento della pressione fiscale, e prendo piuttosto per buone le parole del ministro Alfano che afferma che stiamo per assistere al “più grosso taglio alla spesa pubblica e alle tasse che si ricordi”. Nientemeno. Ma come e dove si può tagliare la spesa?

Spesa pubblica e tasse: evitiamo le illusioni ottiche

Come all’esordio di praticamente ogni governo del passato recente, anche in questi giorni il nuovo Presidente del Consiglio Matteo Renzi ci propone obiettivi di riduzione delle tasse e della spesa pubblica, indicando anzi come possibile un taglio “a due cifre” del cosiddetto cuneo fiscale. Intenti analoghi, anche se non sempre così ambiziosi, si sono in passato infranti contro la rigidità e la complessità del bilancio pubblico, le resistenze dei centri di spesa, e tutte le mille ottime e pessime ragioni per cui le tasse non scendono mai.

Ovviamente, qui non potrò dare ricette; aiutandomi però con i numeri, come mio solito, cercherò almeno di suggerire che non tutte le percezioni che ci vengono instillate sono esatte. Proveremo insomma a liberarci da alcune illusioni ottiche.