Come all’esordio di praticamente ogni governo del passato recente, anche in questi giorni il nuovo Presidente del Consiglio Matteo Renzi ci propone obiettivi di riduzione delle tasse e della spesa pubblica, indicando anzi come possibile un taglio “a due cifre” del cosiddetto cuneo fiscale. Intenti analoghi, anche se non sempre così ambiziosi, si sono in passato infranti contro la rigidità e la complessità del bilancio pubblico, le resistenze dei centri di spesa, e tutte le mille ottime e pessime ragioni per cui le tasse non scendono mai.
Ovviamente, qui non potrò dare ricette; aiutandomi però con i numeri, come mio solito, cercherò almeno di suggerire che non tutte le percezioni che ci vengono instillate sono esatte. Proveremo insomma a liberarci da alcune illusioni ottiche.
Intendiamoci: tutti condividiamo l’idea che le tasse sul lavoro vadano tagliate in modo significativo, non solo per favorire una ripresa della domanda interna, ma anche solo per semplici ragioni di equità sociale. D’altro canto, l’Italia stabilisce quotidianamente nuovi record di pressione fiscale, quindi non è (non dovrebbe essere) pensabile che questo taglio finisca per essere finanziato da altre tasse; e, dato che siamo sempre al limite del deficit consentito dalle regole europee di bilancio, abbattere le tasse non può significare che ridurre drasticamente la spesa pubblica. A qualcuno potrebbe venire spontaneo chiedersi: ancora?
Dopo tanti anni in cui sentiamo dire che la spesa è già stata tagliata all’osso, con le Amministrazioni Locali sull’orlo della rivolta, del fallimento o di tutt’e due, i ministri che regolarmente combattono per difendere il “minimo” di spesa indispensabile, le scuole pericolanti, i siti archeologici allo sfacelo, i teatri lirici boccheggianti, gli stipendi degli statali bloccati, esiste davvero lo spazio per un’ulteriore, consistente riduzione della spesa? E ridurre la spesa non vorrebbe dire tagliare in modo insostenibile i servizi sociali?
Cominciamo dalle basi: da cosa è costituita la spesa pubblica? Ricorreremo qui ai dati pubblicati dall’Istat sui Conti ed aggregati economici delle Amministrazioni Pubbliche, e, più avanti, a quelli contenuti nell’edizione 2014 dell’interessantissimo volume annuale NoiItalia, sempre a cura dell’Istat. Dunque, la composizione della spesa pubblica, dicevamo; semplificando un po’, possiamo dire che è costituita dalle seguenti voci, raggruppate in modo un po’ arbitrario:
- Spese in conto capitale
- Spese correnti, costituite da:
- Spese per interessi sul debito
- Spese per prestazioni sociali in denaro
- Spese per stipendi
- Altre spese
Tanto per farci un’idea, il peso di queste diverse categorie di spesa nel 2012 è rappresentato nel grafico qui sotto (dati in milioni di Euro):
Che impressioni ne traiamo (tenendo presente che i dati sono in Euro correnti, quindi sarebbero da correggere per renderli pienamente confrontabili)? In primo luogo, direi che possiamo dimenticare la spesa in conto capitale: oltre a essere quella meno ingente, sembra anche quella più sotto controllo. Anzi, semmai dovremmo riflettere sul fatto che la spesa corrente sia così largamente prevalente su quella per investimenti; peraltro, se mai dovessimo riuscire ad allentare un po’ le regole del fiscal compact europeo, l’unico tipo di spesa ulteriore ammissibile sarebbe proprio quella per investimenti. Quanto agli interessi sul debito, seguono, con il tipico ritardo dovuto alla durata media dei titoli emessi, l’andamento dei tassi, e dato che il famigerato spread è disceso a livelli accettabili, sappiamo che questa voce nel 2013 e 2014 avrà un miglioramento che va peraltro difeso dalle fantasiose opinioni di chi diceva e dice che dello spread bisognerebbe fregarsene. Infine, dato che la spesa per stipendi non potrà verosimilmente essere modificata in modo sostanziale in tempi brevi, è chiaro che se da qualche parte bisogna intervenire per operare risparmi importanti le voci da approfondire sono quelle che ho indicato con Prestazioni sociali e Altro.
A questo punto, possiamo notare la prima illusione ottica che possiamo smascherare: non è vero che la spesa pubblica sia stata sanguinosamente tagliata nell’ultimo decennio, anzi, è solo negli ultimi due anni che c’è stata davvero una certa frenata della spesa. Quella relativa alle Prestazioni sociali in denaro è in massima parte costituita dalla spesa pensionistica, e meriterebbe una discussione a sé (e non è detto che non ce ne occupiamo nel prossimo futuro); diciamo solo incidentalmente che il grafico suggerisce in modo piuttosto chiaro che l’asserita sostenibilità dei conti dell’INPS rischia di essere un’altra di quelle illusioni ottiche che poi riservano spiacevoli sorprese. Rimane il resto della spesa corrente che ho raccolto in un calderone indistinto, ma che include ovviamente molte cose importanti, tra cui in particolare le spese sanitarie (escluso il personale), alle quali va ricondotta una parte importante dell’incremento di spesa registrato tra il 2005 e il 2010.
A questo punto, se ci immedesimiamo nel Renzi di turno, possiamo adottare due diversi approcci: uno, semplicistico, è simile ai cosiddetti tagli lineari. Consiste nel dire: nel 2012 la spesa corrente che si trova sotto la voce Altro era pari a circa 190 miliardi? Benissimo: nel 2014 ci dobbiamo far bastare 180 miliardi, e i 10 miliardi che restano (un taglio di circa il 5%) li usiamo per il cuneo fiscale. Come fare? Affari vostri (ossia: di ministri, governatori di regioni, satrapi, plenipotenziari e in generale tutti coloro che hanno il potere di spendere soldi pubblici).
Oppure possiamo essere più raffinati, ma allora dobbiamo entrare nel merito per capire dove tagliare, anche se dubito che un Premier possa farlo. E dobbiamo anche chiederci quali effetti avrebbero i tagli su cui stiamo ragionando. Ci sarebbe un collasso dei servizi pubblici, oppure anche questa prospettiva è un’illusione ottica? Qual è la relazione tra i livelli di spesa pubblica e la qualità dei servizi erogati?
Proviamo a prendere brevemente in esame appunto la Sanità, per cercare di capire come, nel periodo 2005 – 2010, sia stato impiegato l’incremento della spesa cui ho fatto cenno in due casi che incarnano, nel nostro immaginario di cittadini, il meglio e il peggio della sanità italiana: la Lombardia e la Sicilia. Ovviamente le due realtà sono diversissime, né tenterò di analizzarle se non per cogliere qualche elemento macroscopico di valutazione.
Premessa: in Lombardia per la sanità pubblica si spende, in termini assoluti, un po’ più che in Sicilia (ma meno della media nazionale!). Attingendo al ricco database specializzato dell’Istat Health For All (e rassegnandoci al fatto che se si prelevano i dati da fonti diverse non si trovano mai numeri esattamente uguali), troviamo che nel 2010 in Lombardia la spesa sanitaria pubblica per abitante è stata pari a 1.810 Euro, mentre in Sicilia è stata di 1.759, con una differenza inferiore al 3%, tutto sommato trascurabile; la differenza di risorse in questo campo tra Lombardia e Sicilia è quindi un’altra illusione ottica: i soldi spesi sono gli stessi (purtroppo non è un’illusione invece il divario qualitativo dei servizi: ci sono indicatori piuttosto chiari anche di questo). Quello che non è affatto trascurabile è la differenza di ricchezza delle due regioni, visto che il PIL pro capite della Lombardia è più o meno il doppio di quello della Sicilia. Quindi, in termini reali, i siciliani spendono per i servizi sanitari pubblici una quota molto maggiore del PIL che producono rispetto ai lombardi: il 10,43% contro il 5,44%. Per omogeneizzare le politiche di spesa e ottenere risparmi senza ricorrere ai tagli lineari, è in effetti da tempo in discussione il
ricorso al metodo dei costi standard, che dovrebbe dare risultati positivi in modo particolare appunto in ambito sanitario. I progressi verso l’adozione di questo metodo finora sono stati però, a mio avviso, intollerabilmente lunghi e i primi passi mi sembrano andare in direzione decisamente sbagliata; se c’è una cosa su cui un Premier
decisionista dovrebbe concentrare la propria attenzione per incidere sugli sprechi, a mio parere è questa. Anzi, per come ragiono io una cosa logica sarebbe centralizzare gli acquisti tramite gare nazionali.
Questa spesa, tra il 2005 e il 2010, è cresciuta in entrambe le regioni di circa lo 0,6% del PIL, ma con effetti piuttosto diversi, come possiamo vedere qui sotto:
Ecco quindi che, a fronte di un aumento generale dell’incidenza della spesa sanitaria pubblica, in Lombardia a questa tendenza è perlomeno corrisposta una riduzione dei costi sostenuti direttamente dai cittadini, mentre in Sicilia si è verificato un duplice aggravio, visto che in rapporto al PIL, cioè alla ricchezza prodotta, è cresciuta anche la spesa sanitaria a carico delle famiglie.
I ragionamenti che ho provato ad abbozzare non risolvono certo il dilemma di dove trovare le risorse per ridurre la pressione fiscale; come dicevo all’inizio, hanno semmai lo scopo di mostrare che non tutto quello che fa parte del nostro paesaggio mentale relativamente alla spesa pubblica corrisponde alla realtà concreta. Volendo cercare a tutti i costi una conclusione, direi che possiamo constatare che, mentre l’economia reale subiva una dolorosa contrazione a causa della crisi, e la pressione fiscale arrivava a livelli esorbitanti, fino almeno al 2010 la spesa pubblica ha continuato costantemente a crescere, nonostante i proclami politici che ricordiamo più o meno tutti. Sebbene negli ultimi due anni questa tendenza sia stata smorzata, e sebbene su diverse voci (previdenza, personale pubblico) sia necessario un intervento strutturale e non congiunturale, intervenire per abbassare la pressione fiscale grazie a una riduzione di qualche punto della spesa corrente non è semplice, ma è e deve essere possibile, in un Paese che ha visto contrarsi pesantemente le attività produttive. Ci sono infine elementi che suggeriscono che la variabilità nella qualità dei servizi pubblici nel nostro Paese non sia tanto legata ai livelli di spesa, quanto ad altri fattori.