In questi giorni, è in corso un acceso scontro a proposito della riforma del Diritto del Lavoro che il Governo Renzi ha avviato, sia pure in forma preliminare, con il disegno di legge (il cosiddetto Jobs Act) corredato da un importante emendamento che è stato approvato dalla Commissione Lavoro del Senato e che prevede la successiva stesura di una Legge Delega che tra l’altro preveda, per le nuove assunzioni, il “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio”. In altre parole, uno degli obiettivi del Jobs Act diventerebbe la revisione del celebre Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori che prevede la reintegrazione nel posto di lavoro appunto come tutela per il lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo.
Governo, sindacati, partiti politici, correnti di questi ultimi, editorialisti e passanti casuali si sono lanciati nel dibattito armati di scimitarra e hanno cominciato a tirare fendenti a destra e a manca. Qui a Hic Rhodus vorremmo innanzitutto ricondurre l’argomento alla sua reale sostanza, salvo riservarci qualche considerazione finale sull’effettivo contenuto della battaglia a tutto campo cui stiamo assistendo.
In primo luogo, dobbiamo sottolineare che il Jobs Act non è riducibile al “contratto a tutele crescenti”: esso include altre importanti norme, in particolare relativamente ad ammortizzatori sociali, salario minimo, servizi per l’impiego (la cui efficacia è particolarmente cruciale in una fase di crisi come questa, anche per non vanificare altre iniziative di cui abbiamo parlato). Tutti temi di rilievo, che meriterebbero un commento non superficiale, e che quindi non tento neanche di affrontare, salvo per dire che a mio avviso i loro effetti pratici a breve termine potrebbero essere ben maggiori di quelli dell’ipotetica “abolizione dell’Articolo 18”. Tornando a quest’ultimo, proviamo a porci due domande:
- Quanto è importante ed efficace oggi la normativa dell’Articolo 18?
- Cosa cambierebbe in caso di introduzione del “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”?
Per rispondere alla prima domanda, partiamo dagli elementi quantitativi disponibili. I lavoratori dipendenti cui si applica l’Articolo 18 sono quelli assunti a tempo indeterminato da aziende con più di 15 dipendenti. Secondo un’elaborazione della CGIA su dati Istat aggiornati al 2011 (in giro si leggono dati diversi che credo siano meno aggiornati, ma la morale è più o meno la stessa), sarebbero in totale circa 6.500.000, il 57% del totale di lavoratori dipendenti del settore privato in Italia pari a 11.300.000 tra contrattualizzati a tempo determinato e a tempo indeterminato. Questo numero inoltre è in calo: la stessa elaborazione della CGIA su dati Istat dei 2009 aveva a suo tempo indicato circa 7.900.000 lavoratori “coperti” dall’Articolo 18. Sempre dalla sintesi Istat del Censimento 2011 dell’industria e dei servizi estraiamo la tabella riassuntiva dei lavoratori in Italia nei settori privato, pubblico e no-profit:

In sostanza, se conteggiamo anche i dipendenti pubblici che non rientrano nell’ambito del Jobs Act, in Italia lo Statuto dei Lavoratori si applica a un lavoratore su tre dell’industria e servizi. Più importante è forse notare che questa platea tende a restringersi rapidamente: secondo il Sole 24 Ore, solo il 20% dei nuovi assunti rientra nella categoria dei “protetti”.
Infine, ricordiamo che l’Articolo 18 riguarda specificamente i casi di licenziamento ingiustificato: quanti sono? Poche migliaia di casi l’anno, dato che molto spesso azienda e lavoratore raggiungono un accordo senza arrivare in giudizio, e che dei circa settemila casi che nel 2013 si sono conclusi con una sentenza di reintegro nel posto di lavoro, circa i due terzi avrebbero visto lo stesso dipendente preferire un’indennità economica sostitutiva. L’effetto dell’Articolo 18, se c’è, appare quindi modesto in termini quantitativi, ed è semmai quello di un deterrente. La realtà economica non è immutabile: oggi la difesa dell’Articolo 18 non ha lo stesso valore di quindici o vent’anni fa.
Quanto alla seconda domanda, cominciamo a dire che non cambierebbe assolutamente nulla per chi ha già un impiego, visto che la norma riguarderebbe solo i nuovi assunti. Poi, proprio perché tra i nuovi assunti quelli cui si applica lo Statuto dei Lavoratori sono solo il 20%, pare ovvio che in futuro, se non si cambiano le regole, lo Statuto dei Lavoratori non si applicherà praticamente quasi a nessuno. Che senso ha quindi difendere (ma anche attaccare) una norma che tende rapidamente a diventare irrilevante? Ricordiamo che già oggi il licenziamento per ragioni economiche non prevede più il reintegro, quindi i tagli di personale dovuti alla crisi economica non sono interessati da questa diatriba.
La conclusione è chiara: introdurre un contratto a tutele crescenti non può che aumentare il numero di giovani lavoratori cui si applica un sistema di tutele, sia pure inizialmente modeste (ma si presume che all’inizio anche il dipendente abbia “investito” meno nel nuovo impiego). Si tratta di una soluzione che in questo senso mi trova completamente d’accordo, anche per il suo potenziale di semplificazione ed equiparazione rispetto all’attuale giungla normativa. Se visitate la pagina del sito di Pietro Ichino dove è riportata la sua proposta di testo per quella che potrebbe essere la nuova normativa del lavoro, fa abbastanza effetto leggere in fondo l’elenco delle leggi che sarebbero abrogate grazie a un singolo provvedimento tutto sommato abbastanza snello.
Per completare l’analisi del merito di questa ipotesi legislativa resta, a mio avviso, una sola domanda: ma quale differenza ci sarebbe se alla fine del percorso di “crescita delle tutele” il risarcimento per un licenziamento ingiustificato fosse il reintegro nel posto di lavoro (secondo uno degli emendamenti della sinistra PD) anziché un’indennità economica come prevede il testo del Governo?
Secondo me, in termini materiali praticamente nessuna. Come abbiamo visto, si tratta di un falso problema, o se preferite di una questione simbolica. Per come conosco le aziende, il loro problema concreto non è tanto il rischio di essere costrette a riassumere un dipendente licenziato ingiustificatamente, quanto semmai che i criteri di valutazione dei giudici possano essere lontani dalla realtà aziendale. Tutti abbiamo letto di sentenze di reintegro apparentemente sconcertanti e queste provocano un danno notevole all’affidabilità dell’intero sistema; a questo proposito, farei un cenno alla realtà di un Paese chiamato in causa da Susanna Camusso, ossia del Regno Unito.
In UK, la normativa relativa all’unfair dismissal non è poi così diversa dalla nostra, e copre i casi di licenziamento discriminatorio (su cui i britannici sono attentissimi) e ingiustificato (ma è importante notare che lì un rendimento cronicamente scadente è una giustificazione valida). La differenza più importante con il nostro Statuto dei Lavoratori non è, a mio avviso, il reintegro (che in UK è previsto ma può essere sostituito da un risarcimento economico); per come la vedo io, la principale differenza è che per stabilire se un licenziamento sia giustificato si fa riferimento alla valutazione ragionevole di un datore di lavoro equo. Se il giudice ritiene che la decisione di licenziare il lavoratore sarebbe potuta essere presa da un datore di lavoro “ragionevole” (che consideri come dicevo anche la qualità del lavoro), allora il licenziamento è giustificato, anche se ci può comunque essere un compenso per il lavoratore: il giudice non è chiamato ad applicare un proprio criterio di valutazione basato su principi giuridici, ma quello di un operatore economico eticamente corretto che lavora nel mondo reale. Questa è la differenza tra UK e Italia che certamente non verrà mai colmata, e che è sintomatica di un sistema (il nostro) burocratico e rivendicativo che, questo sì, influenza negativamente la propensione degli imprenditori ad assumere.
Insomma, la mia sintesi è:
- L’Articolo 18 è applicabile a una platea sempre più ristretta di lavoratori, e in particolare a molto pochi tra i giovani neoassunti. Un contratto unico a tutele crescenti applicabile ai soli nuovi impiegati avrebbe certamente l’effetto di estendere le protezioni, non di ridurle; inoltre le altre norme previste dal Jobs Act, sia pure da valutare a parte, tendono a produrre un effetto complessivo di incentivo e di più moderna protezione del lavoro. L’impostazione generale del Jobs Act a mio parere è corretta e non ideologica, e rispecchia proposte “annose” di personaggi come Ichino e Boeri.
- Una volta che si accetti l’impianto a tutele crescenti, è nella pratica irrilevante se il “punto di arrivo” dopo tre, cinque o sei anni preveda il reintegro obbligatorio od opzionale in caso di licenziamento ingiustificato. Si tratta di una questione puramente simbolica, che non sposterebbe in nessun caso, a mio modo di vedere, gli investimenti delle aziende, che invece sarebbero certamente favoriti da poter contare su decisioni rapide e “terrestri” dei giudici del lavoro. Le levate di scudi su questo argomento sono puramente strumentali.
- Tutta questa materia, per quanto strategicamente rilevante, non è in grado di creare chissà quanti posti di lavoro nel breve termine: al massimo potrà migliorarne la qualità, e sarebbe già tanto. Scordiamoci che il Jobs Act, qualunque forma assuma, possa provocare effetti importanti sull’occupazione: nel nostro Paese, come qui su Hic Rhodua abbiamo scritto molte volte, occorre piuttosto accrescere la produttività di sistema, anche contraendo realmente la spesa pubblica e riducendo gli oneri che gravano sull’economia produttiva.
Allora perché è in corso questa battaglia tutti contro tutti, senza esclusione di colpi? Proprio perché la questione è simbolica e si presta a essere usata per mobilitare le residue forze dei vecchi schieramenti ideologici. Senza volermi sovrapporre alle interpretazioni che si leggono in questi giorni, è chiaro che su questo terreno Renzi e la fronda che nel PD gli è avversa stanno arrivando a una resa di conti da OK Corral. Per quanto intorno ai contendenti si compongano schieramenti variegati, sembra chiaro che il vero scontro sia tutto interno al PD, e in gioco sia il controllo del partito che ancora oggi vede gli “anti-renziani” controllare importanti posizioni in grado di far impantanare lo schiacciasassi-Renzi. Forse all’ultimo momento uno dei contendenti eviterà che la battaglia arrivi alle estreme conseguenze, o forse il duello giungerà fino a provocare elezioni anticipate; certo è che la possibilità che a finire impallinati dalle pallottole vaganti siano i cittadini è tutt’altro che trascurabile.
Tra le mille analisi più o meno condivisibili che circolano in questi giorni, segnalo solo questa su lavoce,info: http://www.lavoce.info/quali-tutele-quanto-crescenti/