Nel suo recente post sulla distribuzione della ricchezza e sulla sua correlazione con il benessere sociale, SignorSpok ci ha mostrato come storicamente negli ultimi 100-150 anni parallelamente a un aumento delle disuguaglianze economiche (misurate tipicamente dall’Indice di Gini) si sia assistito a un incremento generalizzato del benessere, e in particolare anche del benessere dei meno favoriti. In sostanza, e in un’ottica “macroscopica” (sia temporalmente che geograficamente), la lunga fase espansiva delle economie di stampo occidentale ha sì prodotto una significativa polarizzazione della ricchezza, ma è stata accompagnata da un miglioramento generalizzato delle condizioni di benessere, pur nelle differenze non irrilevanti tra i modelli sociali dei diversi Paesi. Facendo riferimento al recente rapporto dell’Oxfam che evidenzia il costante crescere delle disuguaglianze, insomma, il nostro Spok ci avverte che non è così scontato che queste disuguaglianze abbiano (e tantomeno abbiano avuto in passato) effetti negativi. In questo post proveremo invece a chiederci, scendendo dagli scenari macroscopici ad altri ben più delimitati, se e quando le disuguaglianze diventino un’ingiustizia e un problema. L’incremento di disponibilità di beni di consumo, ricchezza, salute e benessere, garantito per decenni dall’economia dei Paesi sviluppati ai relativi cittadini è un fatto difficilmente negabile. Un “equilibrio dinamico” virtuoso, verrebbe da dire, che sembra concretizzare le prescrizioni del Principio di Differenza elaborato dal più grande filosofo politico del ‘900, John Rawls, nella sua Teoria della Giustizia: le disuguaglianze sono “giuste” fintanto che permettono di migliorare le condizioni di vita del segmento più svantaggiato della popolazione. Questa definizione di equità, parimenti lontana dall’egualitarismo incondizionato e dal liberismo senza regole, mi ha sempre convinto, e la prenderei come riferimento per le mie considerazioni. In questi anni, però, ci rendiamo tutti conto di trovarci in una fase particolare dello sviluppo economico globale, e c’è da chiedersi fino a che punto quell’equilibrio dinamico, fondato su un’espansione pressoché continua, sia replicabile in un’economia che mostra segni di crisi strutturale o almeno di saturazione. In condizioni di rallentamento non solo occasionale della crescita economica, quali politiche di distribuzione della ricchezza sono opportune? È arrivato il momento di adottare azioni più incisive per contrastare la crescente concentrazione delle risorse economiche? Non siamo certo in condizione di affrontare qui un discorso globale, quindi proverò a proporre un paio di considerazioni relative ad ambiti e dati più delimitati, senza pretesa di estenderne la generalità.
Una prima considerazione è illustrata dagli Stati Uniti, il Paese più rappresentativo nell’economia mondiale. Infatti, se dobbiamo chiederci quali politiche si possano adottare nella distribuzione delle risorse, occorre innanzitutto conoscere quale sia questa distribuzione, e se dobbiamo stabilire quale livello di disuguaglianza sia socialmente accettabile dobbiamo sapere quale sia il reale livello di disuguaglianza da cui partiamo. Infatti, ovviamente, tutti noi abbiamo una visione parziale della società, e senza far riferimento a dati certi è ben difficile conoscere come stiano davvero le cose.
Una rappresentazione molto evidente di questa difficoltà ad avere informazioni corrette è offerta da uno studio di qualche tempo fa dello Harvard Magazine. Il succo è: agli americani è stato chiesto quale pensassero che sia la distribuzione della ricchezza in USA, e se la trovassero giusta o auspicassero una ripartizione diversa. I risultati sono stati in un certo senso sorprendenti: gli intervistati in genere auspicavano una distribuzione della ricchezza piuttosto egualitaria, nella quale idealmente il 20% più ricco possedesse circa il 32% della ricchezza totale, circa il triplo del 20% più povero della popolazione. Un rapporto 3:1 tra “ricchi” e “poveri”, insomma. Poi, nel sondaggio è stato chiesto quale pensassero che fosse la distribuzione reale della ricchezza. Gli intervistati sapevano bene che le disuguaglianze reali sono maggiori di quelle che loro stessi giudicavano ideali. Ma non avevano idea, evidentemente, di quanto fossero maggiori. Nella figura qui sotto vedete a confronto, da sinistra a destra, la distribuzione “ideale” secondo gli intervistati, quella “stimata come reale” sempre secondo gli intervistati, e quella reale e vera.
Mentre gli americani, in media, immaginano che il 20% più ricco della popolazione possieda circa il 59% delle ricchezze totali, la verità è che possiede circa l’84%. E, soprattutto, mentre gli americani immaginano che il 40% più povero della popolazione (fasce in giallo e rosso nella figura) possieda complessivamente poco meno del 10% della ricchezza totale, la verità è che ne possiede lo 0,3%. Ecco perché nella colonna di destra le fasce gialla e rossa non si vedono… Qual è la prima conclusione? Forse che per giudicare se le disuguaglianze siano eccessive bisogna prima sapere che esistono, e quanto sono grandi. Come sempre, insomma, la mia idea è che i numeri sono fondamentali: dire genericamente che nella nostra società i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri non è sufficiente: dobbiamo sapere a quanto ammontano le differenze reali. Se un cittadino pensa che il 40% della popolazione possieda 30 volte di più di quello che possiede in realtà, è davvero in grado di giudicare correttamente la situazione politica del suo Paese?
Tuttavia, noi vogliamo restare fedeli al nostro amico Rawls, e ricordiamo che anche una distribuzione della ricchezza estremamente diseguale potrebbe essere giusta. Certo, è difficile immaginare che una concentrazione così elevata della ricchezza abbia effetti positivi sulle condizioni di vita della “fascia rossa” della popolazione; ma piuttosto che su una valutazione soggettiva dovremmo basarci su dati concreti (o almeno, la mia vocazione mi porta a cercare appunto di fondare il mio ragionamento su dati misurabili); e per le ragioni che abbiamo già visto è probabile che sia impossibile stabilire uno schema di ripartizione che possa essere considerato equo in tutti i contesti socioeconomici.
Prendiamo quindi in considerazione un ambito delimitato e che conosciamo meglio: quello italiano. In Italia, infatti, come sappiamo negli ultimi anni abbiamo sperimentato appunto quella stagnazione nella produzione della ricchezza che dicevamo poter essere una condizione critica per il modello di produzione di benessere diffuso grazie alla crescita. Come fonti, adotteremo alcuni dati raccolti dalla Banca d’Italia nelle sue ricerche periodiche La ricchezza delle famiglie italiane e Indagine sui bilanci delle famiglie italiane.
Le ricerche sono aggiornate ai dati del 2012 e vi troviamo molti elementi interessanti, tra i quali i seguenti sono forse quelli più pertinenti alle considerazioni che stiamo svolgendo. Il primo diagramma mostra l’andamento della ricchezza complessiva delle famiglie italiane, che come si vede nel periodo 2008-2012 presenta una stagnazione e poi un leggero calo (-2,9% nel 2012).
Il secondo invece, preso dal secondo riferimento, riporta la distribuzione della ricchezza (attenzione: non del reddito) sempre fino al 2012.
Dai diagrammi si vede chiaramente come nel periodo 2008-2012 la disuguaglianza nella ricchezza abbia subito un’impennata (con l’indice di Gini che cresce fino a 0,64 e la quota di ricchezza posseduta dal 50% meno abbiente che scende da poco meno del 5% fino a circa il 4% del totale), con un’accelerazione nel periodo 2010-2012 che è anche quello più negativo per la ricchezza complessiva.
Possiamo quindi dire che, almeno nel limitato microcosmo dell’Italia di questo periodo di stagnazione economica, la tendenza alla concentrazione della ricchezza si è accentuata parallelamente alla contrazione complessiva della ricchezza stessa, e quindi le condizioni del segmento più svantaggiato della popolazione italiana hanno subito un duplice deterioramento.
A quali conclusioni possiamo arrivare? Gli elementi che abbiamo presentato non consentono certo di fare affermazioni di valore generale, ma la mia opinione è che queste evidenze, insieme ad altre di cui si è in parte già discusso, suggeriscano alcune considerazioni:
- La presenza di disuguaglianze nel nostro modello economico è una componente “irriducibile”, che ha verosimilmente una funzione di incentivo essenziale per il modello stesso;
- Nonostante la presenza di meccanismi di redistribuzione della ricchezza, questo modello può ugualmente condurre (e, secondo molte rilevazioni tra cui quelle del World Economic Forum, conduce effettivamente) a un progressivo incremento delle disuguaglianze stesse, ovviamente più o meno accentuato a seconda del sistema sociale e politico all’interno del quale il modello economico opera;
- Nella situazione dell’Italia di oggi, in cui la ricchezza complessiva non cresce, osserviamo che le disuguaglianze tendono invece ulteriormente ad aumentare in modo anche più sensibile, e si riscontrano quindi le condizioni in cui tale aumento è “ingiusto” secondo il criterio indicato da Rawls che abbiamo citato all’inizio e che soggettivamente ho voluto prendere come riferimento;
- Al verificarsi di simili condizioni non si può evitare di prendere in considerazione misure di redistribuzione della ricchezza (più) incisive, per ricondurre in termini equi la concentrazione di ricchezza, in particolare laddove tale concentrazione non è funzionale alla produzione di benessere collettivo (il che diviene però una valutazione di diverso ordine, che non siamo in grado di affrontare qui);
- Quali misure siano possibili e opportune, in un Paese come il nostro, è una questione politica tutt’altro che semplice; tuttavia, qualsiasi politica deve partire da una rappresentazione corretta della realtà, e, come l’esempio della ricerca di Harvard ha mostrato per gli USA, è tutt’altro che scontato che l’opinione pubblica cui le proposte politiche sono dirette disponga di un’informazione corretta sull’effettiva distribuzione della ricchezza.
La mia opinione, che non è però direttamente “dimostrabile” con i dati che ho presentato qui e quindi va presa come del tutto personale, è che la stagnazione nella produzione di ricchezza (intesa come valore economico di beni materiali, ovviamente) sia uno scenario con cui dobbiamo ormai strutturalmente fare i conti, dopo molti decenni di crescita ininterrotta. Il modello economico che si è dimostrato efficiente, e quindi “giusto”, in questo lungo periodo di diffusione del benessere potrà richiedere un ripensamento e dei correttivi importanti, ai quali dovremo collaborare come cittadini consapevoli e capaci di incidere sulle strategie politiche.
[Alcune considerazioni presenti in questo testo sono state anticipate in un post su MenteCritica del 9 gennaio 2014]