Dilaga la protesta contro i compiti a casa. E contro le mense scolastiche. Ma chi ha ragione? I pedagogisti sono divisi, e i genitori sempre più arrembanti a difesa dei figli. Ma se stessero gravemente sbagliando?

Dilaga la protesta contro i compiti a casa. E contro le mense scolastiche. Ma chi ha ragione? I pedagogisti sono divisi, e i genitori sempre più arrembanti a difesa dei figli. Ma se stessero gravemente sbagliando?
Ogni anno, i test di accesso all’università danno luogo a polemiche e ricorsi. I test sono davvero utili?
Assieme alla primavera, nelle nostre scuole tornano le prove Invalsi, accompagnate dalle consuete, feroci polemiche e, ancora una volta, da una “chiamata alle armi” dei sindacati di base e di alcune associazioni di studenti che invitano al boicottaggio di questa “schedatura dei bambini, dei docenti e delle scuole”, affidata, come recita un volantino dei Cobas, a “demenziali e umilianti indovinelli”. Ma come stanno davvero le cose?
La verità è dentro di noi. La verità siamo noi. Poiché guardiamo il mondo dall’interno verso l’esterno (dall’interno del nostro “io” verso il mondo fuori di noi) tutto ciò che è prossimo a “noi” (le nostre idee, i nostri valori…) riverbera di luce chiarissima e ci sembra illuminare l’oscurità selvaggia della jungla di stupidità in cui siamo immersi. Noi sappiamo; capiamo; vediamo. Gli altri sono sciocchi o, peggio, in malafede. Noi sappiamo le cose, conosciamo la verità. Dobbiamo necessariamente dirla al mondo. Urlargliela. E insultare coloro che diabolicamente si mettono di traverso, perché se lo meritano.
Premesso che nelle mie email di lavoro a gruppi misti, di maschi e femmine, io scrivo di regola “Car* collegh*” (con gli asterischi) per evitare un linguaggio sessista e che, naturalmente, mi sforzo in diversi campi e in forme differenti di rispettare una minima parità di genere anche in forme più sostanziali, ciò premesso sono infastidito dalla corsa a un anti-sessismo estremista e, permettetemi, un po’ cretino.
L’istruzione dei figli che provengono dal mondo dell’immigrazione è un tema scottante: una parte dell’opinione pubblica, una frazione degli insegnanti, molte autorità scolastiche, molti responsabili politici ritengono che gli immigrati (o, meglio, i loro figli ) siano responsabili del degrado del rendimento scolastico, dei problemi disciplinari che si accumulano nelle scuole e della pessima classifica del sistema scolastico ottenuta dal loro paese (o regione) nell’indagine internazionale PISA (qui i risultati provvisori dell’indagine più recente). In molte scuole non c’è traccia di studenti immigrati, ma questo fatto purtroppo è ignorato.
Non so se ho titolo, o se sono in grado, di attribuire agli argomenti di cronaca una scala di valori, ma certamente la questione del Dott. Scattone che sta in cattedra per insegnare in un liceo italiano non occupa i primi posti. Tuttavia è una vicenda di costume che può assumere una valenza superiore al proprio valore.
Nelle ultime settimane, abbiamo assistito al culmine (almeno finora…) delle polemiche prodotte dalle nuove norme introdotte dal programma governativo battezzato un po’ ottimisticamente La Buona Scuola. Gli insegnanti precari sono vivacemente insorti contro i criteri per le nuove assunzioni e soprattutto per l’assegnazione delle destinazioni che potrebbero costringere molti di loro a spostarsi in regioni diverse, con le ovvie difficoltà logistiche ed economiche. I toni del dibattito sono diventati molto accesi, con gli insegnanti e i loro sindacati che hanno evocato scenari di “deportazione”, mentre altre voci hanno invitato gli insegnanti stessi a smetterla di lamentarsi “di non poter lavorare a qualche minuto di macchina da casa”. Noi di Hic Rhodus abbiamo deciso di sfidare il calor bianco di questo argomento e di proporre un nostro punto di vista, cercando di rappresentare la situazione in modo non di parte.
A me pare che la protesta degli insegnanti, assieme a molte giuste ragioni vorrei dire “d’ufficio” (nel senso che ognuno è ben titolato a comprendere il proprio stato e legittimato a protestare per quel che gli pare), ne abbia altre di spiccato corporativismo meno accettabili. E anzi questo corporativismo è banalmente analogo ai mille e mille corporativismi, particolarismi, sclerosi sindacali che bloccano da sempre l’Italia, non mostrando particolare specificità intellettuale, per capirsi, non distinguendosi per dialettica argomentativa o per liberalità pedagogica o per una qualsiasi proprietà distintiva rispetto alle proteste dei tassisti, dei netturbini, dei medici, degli statali, dei commercianti, dei notai, dei farmacisti, di qualsivoglia categoria alla quale un qualunque governo abbia tentato di mettere mano nei decenni. Tolte le molteplici buone ragioni degli insegnanti, che vanno ascoltati anche come portatori di competenze, oltre che di meri interessi, a me pare che raschiando un pochino la scorza corporativa faccia premio.
Questo articolo è parte di un ciclo di tre in cui un gruppo qualificato di sociologi ci ha raccontato la sua visione dei problemi attuali e dei possibili sviluppi. I tre articoli sono così organizzati:
Se – come visto nell’articolo precedente – i nostri sociologi risultano piuttosto disincantati sulla realtà europea e i suoi destini, parlando d’Italia hanno manifestato tutti dei punti di vista abbastanza critici; tale atteggiamento critico poteva essere atteso, essendo probabilmente comune a tantissimi italiani, e diventano interessanti le ragioni di tale critica, le articolazioni del giudizio che si suddividono in poche e chiare dimensioni della quali la maggiore è – diciamo così – “antropologica”, legata al carattere degli italiani, alla loro etica, all’incapacità di sentirsi comunità assumendosene le responsabilità:
Sono passati dodici mesi da quando Matteo Renzi è diventato il nostro Presidente del Consiglio, e sono stati mesi piuttosto lunghi sia per i suoi fan che per i suoi detrattori. Pochi giorni fa, Bezzicante ha analizzato questo periodo dal punto di vista della strategia politica; io vorrei assumermi invece il compito di delineare una sintesi più legata alle cose fatte e avviate, un terreno certamente più ingrato per i nostri politici, ma altrettanto certamente decisivo per noi cittadini. Riprenderemo temi in larga parte già toccati nei molti post che abbiamo dedicato all’azione di governo, e cercheremo di capire a che punto siamo, e perché anziché un solo bicchiere mezzo pieno stavolta ce n’è un’intera serie, assieme a qualcuno ricolmo e qualcuno desolantemente vuoto.
Parlare di sprechi in Italia è un esercizio retorico. Tutti noi li abbiamo presenti e assistiamo impotenti al fiume di denaro bruciato per niente. Quando si parla di “sprechi”, in questo periodo storico così ricco di pensiero omologato, si intende qualcosa che sta a margine della politica, nel Palazzo, nella casta: gli stipendi dei dipendenti di Camera e Senato (per tacere su quelli dei parlamentari!), i poltronifici dove ficcare i politici trombati, forse le Province, i super stipendi dei manager… Hic Rhodus ha raccontato alcuni di questi sprechi e in coda a questo articolo vi ricordo le nostre note precedenti su questo tema. Qui invece vorrei segnalare una serie (ampiamente incompleta) di diversi e bizzarri luoghi dello spreco, alcuni vagamente noti e altri, credo, piuttosto sconosciuti. Lo scopo non è quello di presentare l’ennesima galleria degli orrori ma fare una riflessione sulle ragioni del perdurare di questa infinita rete di inefficienza, danno erariale e presa in giro.
Tutti leggiamo sui giornali, o apprendiamo dai notiziari, della sofferenza causata, a scuola, da bullismo omofobo, con ragazzini/e che ha volte finiscono col suicidarsi. Bulli omofobi a scuola, bulli omofobi nella vita; è da qui che è giusto partire. A seguito quindi del programma promosso dal Consiglio d’Europa “Combattere le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere”, al quale l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni (UNAR) ha aderito, è stata elaborata la Strategia Nazionale per la prevenzione ed il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, che potete scaricare integralmente QUI.
Molte volte, qui su Hic Rhodus, abbiamo parlato della scuola italiana, in termini anche molto critici, per il livello disuguale e insufficiente di preparazione che garantisce agli studenti, per l’obsolescenza dei suoi programmi e dei suoi docenti, per la sua tendenza a dare priorità ai pur legittimi problemi occupazionali della categoria piuttosto che alla qualità del servizio che offre.
Tuttavia, nonostante (o forse anche per) tutto ciò, non c’è dubbio che il sistema scolastico italiano sia uno dei fattori decisivi per un rilancio del nostro Paese, che della conoscenza non può fare a meno. Proprio per questo, è particolarmente sconfortante leggere i dati relativi alla dispersione scolastica, che vedono l’Italia nei primissimi (o meglio ultimissimi) posti relativamente ai tassi di abbandono scolastico.
Come è stato ampiamente riportato dalla stampa, il nostro Governo ha annunciato un’importante riforma del sistema scolastico, uno dei provvedimenti più vistosi e discussi della quale è l’assunzione di 150.000 “precari” entro settembre 2015. Ora, la scuola e la formazione in generale sono un tema fondamentale per l’Italia, di cui ci siamo più volte occupati, e vederlo al centro dell’azione di governo è certamente importante. Abbiamo quindi letto con attenzione il lungo documento intitolato la buona scuola, che è giusto commentare con un certo approfondimento.
Purtroppo, però, il nostro giudizio è complessivamente negativo, e nel seguito cercheremo di spiegare perché.