Questo articolo è parte di un ciclo di tre in cui un gruppo qualificato di sociologi ci ha raccontato la sua visione dei problemi attuali e dei possibili sviluppi. I tre articoli sono così organizzati:
- l’Europa (il primo articolo); per precisazioni sul metodo di intervista e un’introduzione generale (con link all’elenco dei sociologi partecipanti) rinvio a questo;
- l’Italia (il secondo articolo);
- il mondo, e conclusioni sul ruolo degli intellettuali (il presente articolo, che conclude la serie).
Va da sé che una domanda sui “destini del mondo” non è semplicemente complessa quanto impossibile. Benché abbia una discreta stima del pensiero sociologico non pretendevo di avere, dal gruppo interpellato, un breviario dei problemi mondiali e semmai le loro soluzioni. Ma dopo “Italia” ed “Europa” ho voluto provocare i miei partecipanti per cercare di cogliere sostanzialmente alcune dimensioni generale entro le quali collocare le precedenti risposte più “locali”. Insomma: i problemi dell’Italia, l’affanno europeo, sono collocati in uno scenario più ampio di cui volevo almeno la segnalazione delle principali dimensioni. Un primo gruppo di sociologi indica due macro-problemi: demografia e risorse/ambiente:
A livello mondiale i problemi fondamentali sono due: lo squilibrio demografico tra aree geografiche e lo sfruttamento delle risorse naturali per loro natura finite (non infinite) In realtà i due problemi sono tra loro interconnessi. Nel mondo abbiamo popolazioni (Cina, India, Brasile, ecc.) che crescono a ritmi eccessivi (accompagnati da sviluppi economici e tecnologici degni delle nazioni più avanzate) che, nel medio periodo, porteranno ad una ridefinizione geopolitica mondiale. Queste popolazioni richiederanno risorse sempre maggiori e già oggi controllano spazi geografici extra-nazione (la Cina con l’Africa, il Giappone con il Brasile, ecc.). Oltre all’accaparramento delle risorse, questi paesi esporteranno stili di vita e visioni politiche in contrasto con quelle cui siamo abituati oggi generando, nel lungo periodo, nuove conflittualità internazionali non legate ad aspetti ideologico-culturali ma politico-economici (come un tempo). Oggi, l’insostenibilità dei nostri stili di vita ha bisogno di guardare ad altre esperienze, come quelle del Buen vivir dei paesi andini, della decrescita di Latouche o le proposte di Slow Food che implicano modelli di sviluppo più consoni alle risorse (quantità e qualità) esistenti (N).
[I problemi] Sono due, in parte connessi: l’incremento demografico e l’inquinamento atmosferico. Il tumultuoso sviluppo economico della Cina e dell’India ha avuto molti meriti, ma ha esternalizzato i costi ambientali – scaricandoli sul resto del mondo. La lentezza della riconversione energetica nei paesi economicamente avanzati ha contribuito [A].
I due problemi sono all’origine di crescenti disuguaglianze:
Mi pare [che il problema] sia quello di conciliare sviluppo economico, diritti sociali e politici e limitatezza delle risorse-tutela dell’ambiente; la conciliazione dovrebbe portare a risolvere l’altro problema collegato, quello della crescente disuguaglianza tra persone sia entro che tra gli stati. Non credo si possa risolvere continuando ai ritmi attuali [C].
Il dominio incontrastato dell’economia finanziaria neoliberista e di grandi attori economici (multinazionali) e finanziari che non sono di fatto controllabili (troppo grandi per fallire) che mettono in crisi le basi stesse del funzionamento di mercati sani (trasparenza, assenza di attori monopolisti etc.); la crescita demografica rapida e totalmente sbilanciata che crea enormi tensioni etniche, culturali, geopolitiche, religiose. I due fattori si integrano e si sostengono considerato che i paesi emergenti stanno diventando i nuovi mercati, ovvero la nuova mecca delle imprese sia per le condizioni di produzione (costo del lavoro e meno regole) che per le grandi opportunità di consumo che offrono. Il risultato è una situazione di totale insostenibilità e instabilità sociale dalla quale non vi è uscita e per la quale le rivolte e le sanguinosissime guerre “regionali” (che, guarda caso, coinvolgono quasi sempre stati in turbolenta crescita demografica) sembrano addirittura essere una componente necessaria [E].
I grandi sviluppi economici di nazioni come l’India e il Brasile, sono stati possibili lasciando inalterate estese condizioni di grave povertà e controllandole appena con un welfare pubblico minimale, ampliando le soglie di tolleranza in ambiti circoscritti. Abbandonata la tentazione penale, ciò che molte società hanno scoperto è che la povertà e l’esclusione sociale si possono circoscrivere utilizzando la tolleranza: per molti anni si è cercato di espandere il ruolo del sistema penale o l’istituzionalizzazione, basti pensare al ruolo degli Ospedali psichiatrici, ora si è capito che è sufficiente accrescere la segregazione urbana e non intervenire rispetto a ciò che accade in quegli ambiti circoscritti [Q].

Ecco allora che di fronte all’enormità di questi problemi viene a mancare, secondo alcuni, la capacità di governo della complessità globale; un tema che ci rimanda spediti alla politica:
La smisurata disuguaglianza tra ricchi e poveri, tra uomini e donne. La mancanza di una governante globale, capace di influire realmente sulle decisioni e sui conflitti, una forza equilibratrice [D].
Paradossalmente, credo che sia il declino più che l’eccesso della politica: almeno della politica intesa come spazio agonistico alternativo alla violenza o all’appello allo stato di eccezione e alla necessità, quindi aperto al possibile e alla mediazione. Il declino è sanzionato da un lato dalla globalizzazione economica e i suoi imperativi, dall’altro dalle minacce ecologiche, anch’esse apparentemente imponentesi nella loro impellenza e fattualità, dall’altro ancora dall’imporsi apparentemente ‘naturale’ delle tecnoscienze (ICT e life sciences in particolare), e ancora dalla risorgenza delle religioni come fattore di divisione invece che di coesistenza. A guardarlo bene, fa tutto parte dell’intensificazione della biopolitica, ossia della centratura sul governo del vivente in quanto tale, del cui avvento parlava Foucault decenni fa [B].
La mancanza di un sistema di governance globale in grado di affrontare quattro grandi sfide che richiederebbero cooperazione (vale a dire capacità di gestire i conflitti tra gli interessi): sicurezza, economia, diritti umani e ambiente. Gli organismi multilaterali, con la fine della Guerra Fredda, hanno funzioni residuali. La governance globale assiste passiva alle grandi crisi (belliche, umanitarie, ecc.) o agisce alla difensiva, senza incidere sulle soluzioni [I].
Gli equilibri internazionali stanno cambiando profondamente. È bene che l’opinione pubblica occidentale lo comprenda presto: prima è meglio è. Ma da noi in Occidente ci sono resistenze culturali e strutturali: nessuno di noi è pronto e crede più al cambiamento; strutturalmente siamo società anziane e scarse numericamente e destinate a “pesare” sempre meno. Poi c’è il problema della violenza e delle controspinte che avversano la modernità, la tolleranza, la libertà delle donne in particolare, la recrudescenza di trattamenti crudeli nelle forme di varie nuove schiavitù. L’idea dei fondamentalisti è quella di conquistarci: ma quali basi di massa avrebbero su cui erigere un loro Califfato d’Occidente? La vera concreta possibilità che l’Occidente si trovi superato proviene non dal Medio ma dall’Estremo Oriente, allorché si salderà il legame tra Cina e Russia, costituendo un fronte compatto. Certo poi ci sono anche altri attori e bisogna vedere come si comporteranno: penso, ad es., nel sud est asiatico alle potenze emergenti ASEAN a 5 [H].
L’assetto ancora solo parzialmente multipolare e incompiuto che ha fatto seguito alla fine dell’assetto bipolare della Guerra Fredda e poi per qualche tempo unipolare dominato dagli USA. L’attuale disordine mondiale costituisce l’espressione di una situazione anomica nella quale il vecchio ordine non c’è più, ma il nuovo stenta ad affermarsi [M].

Il quadro è fosco, com’era prevedibile fosse, né pare possibile, realistico, segnalare vie d’uscita immediate e semplici:
La soluzione al problema della sostenibilità dei modelli di sviluppo occidentale non è ovviamente semplice nonostante vi sia una presa di coscienza e una aumentata sensibilità sulla questione da parte di ogni generazione d’età e di cultura. Gli sforzi nella ricerca, le proposte della politica, le azioni dei movimenti sociali (ambientali, gruppi di acquisto solidale, ecc.), i cambiamenti negli stili di vita di ogni luogo vanno nella direzione giusta ma richiedono un arco temporale di attuazione di lungo periodo che, tra l’altro, deve fare i conti con i desiderata delle popolazioni in rapida crescita economica. Come sopra accennato, si intravede una crescente conflittualità da parte delle multinazionali e dei paesi sul controllo delle risorse (acque), sul loro accaparramento (terreni), sul loro sfruttamento (minerali per le nuove tecnologie) o sulla loro brevettabilità (ogm) [N].
Non credo ci sia una soluzione, diciamo, istituzionale. Una specie di supergoverno mondiale o qualcosa di simile. Ovviamente la politica non muore ma prende forme e manifestazioni sempre più lontane da quelle originariamente concepite in Grecia e attualizzate con enormi sforzi e sofferenze nella storia europea, forse malamente ma almeno con qualche tangibile risultato (pace per vari decenni, abbattimento dei confini ecc.). Occorrerebbe (ri)prendere consapevolezza di tutto ciò. E’ ancora una volta una questione in primo luogo culturale, e le persone in grado di farlo ci sono, solo che sono note a un pubblico ristrettissimo, non sono certo i sedicenti maitre a pénser che furoreggiano sui media e influenzano le scelte politiche [P].
Insomma, riassumendo quello che esprimo molti partecipanti alla nostra indagine
Nel breve periodo non sembra esserci soluzione possibile. Il sistema sociale ed economico planetario rischia di riassestarsi con dinamiche che sfuggono anche agli attori globali più forti [E].
Ma… se la soluzione ai problemi globali venisse da lontano, da luoghi che non possono più essere lo stanco Occidente?
Noi occidentali e gli Europei in particolare abbiamo una grande cultura ed esperienza, che potremmo mettere al servizio di un nuovo ordine mondiale, pur essendo indubbio il nostro ridimensionamento. Il nostro, di occidentali, approccio alla vita è specularmente opposto a quello dei paesi emergenti: noi pensiamo a mantenere quello che abbiamo conquistato, a salvaguardarlo, ed è giusto sia così, ne va della nostra vita, non abbiamo altro modo di vivere, non sappiamo fare altrimenti in ogni campo della vita pubblica e privata. Le popolazioni dei paesi emergenti invece stanno investendo sul loro futuro: dalle rimesse degli emigrati (i nostri immigrati) al miglioramento e alla costruzione di quartieri e città con le nuove tecnologie (penso all’applicazione dei pannelli solari sui tetti che da noi richiede almeno un incentivo o una defiscalizzazione), lì è terreno vergine, è tutto da fare: se la Presidente Roussef deve sbaraccare una favelas e costruire un quartiere popolare lo farà utilizzando le nuove tecnologie edilizie che acquisterà a prezzi concorrenziali magari dalla Cina. Da noi l’ultima grande ricostruzione di massa è stata nel dopoguerra; a meno che non si decida di intraprendere con convinzione la strada di un nuovo piano Marshall… una vera rivoluzione nella UE a trazione tedesca. Certo: non è tutto oro quel che riluce, oggi nei paesi emergenti la strada è ancora lunga e tortuosa. E tuttavia l’ex (?) Terzo Mondo, è il Mondo a venire, ha tutta la storia davanti a sé e non ha che “da perdere le proprie catene” [H].
L’emergere con sempre maggior evidenza dei BRICS, che ampliandosi a sempre nuovi paesi emergenti non potrà che contribuire al progressivo consolidarsi di un ordine mondiale di tipo multipolare costruito sulla base di una decina circa di macro-regioni mondiali più o meno omogenee per tradizioni storiche, linguistiche, culturali, economiche e politiche. I tempi? Quelli dello sfaldamento del vecchio ordine internazionale basato sullo scambio ineguale e del consolidarsi delle nuove alleanze geopolitiche a livello macroregionale (vedi per tutti il caso dell’America Latina) [M].

A questo punto resta da chiedersi davvero cosa possa (e voglia) fare l’Europa; restare ai margini, sempre più soffocata nelle sue logiche iper-formali oppure intervenire diventando protagonista dei grandi cambiamenti evitando di esserne schiacciata?
Non credo ci sia uno scontro di civiltà, ma si dimostra piuttosto che una visione della politica centrata tutta sugli interessi economici non coglie le dinamiche più complesse che coinvolgono, insieme agli interessi, valori, culture e identità. L’Europa potrebbe da un lato rivendicare il valore generale di alcune conquiste sociali e culturali per la dignità di ogni essere umano (invece di chiedere soltanto scusa per le passate malefatte), dall’altro smarcarsi dagli USA (che in politica estera non ne azzeccano una) costruendo una posizione terza capace di negoziare in modo più articolato. Naturalmente questo è impossibile se a gestire i processi sono di volta in volta i singoli paesi (UK, Germania e Francia in particolare). Ci sarebbe poi da coltivare la vocazione ‘ecologista’ dell’Europa, ormai passata in seconda linea di fronte all’imperativo della crescita e dell’innovazione in quanto tale [B].
La situazione è davvero complicata. Sembra non si possano (né si vogliano) bloccare il crescente squilibrio demografico né i flussi finanziari, la coazione al consumo sta raggiungendo praticamente tutti gli abitanti del pianeta: ammesso questo non restano soluzioni praticabili che possano avere effetti entro 10 anni. La vera politica estera europea la stanno facendo le multinazionali mentre i paesi più forti militarmente coltivano i propri interessi anche a danno degli altri membri (vedi Francia nel caso Libia). Se i consumi nei paesi “poveri” cresceranno a livello di quelli ricchi la situazione diventerà insostenibile a livello ambientale. Lo scenario probabilmente sarà questo (che poi è quello su scala maggiore che è stato proprio degli ultimi 25 anni): guerre su scala regionale e genocidi diffusi in tutti i paesi ad alta crescita demografica, drammatici flussi migratori, tentativo dei paesi ricchi di tenere lo scontro fuori dai propri confini alimentando la retorica della democrazia e dello “scontro di civiltà” (insieme a quella dei diritti umani, ovviamente), fortissima pressione da parte del potere economico-finanziario a continuare comunque sulla strada della globalizzazione forzosa. In previsione di tale scenario la cosa migliori e praticabili da fare per l’Europa urgentemente sono forse tre: 1)- costruire una politica dell’immigrazione seria, comune, condivisa ed applicata da tutti i partner; 2)- ricostruire le condizioni perché possa esistere in tutti paesi membri un welfare realmente funzionante che possa tornare ad essere un modello ed un riferimento per il resto del mondo; 3) – sostenere con ancora più forza il processo di valorizzazione delle energie rinnovabili locali e le politiche di difesa dell’ambiente, della biodiversità e dei territori eliminando tutte quelle norme attuative che negano nei fatti i principi dichiarati a livello generale. Nessuna illusione (dopo J.Tendler) sui progetti di cooperazione internazionale, ma almeno, uno sforzo politico per far valere e valorizzare la diversità e l’identità dei popoli fuori dai confini d’Europa e un occhio attento all’operato delle imprese europee che vi operano [E].

Se avete letto tutti e tre gli articoli di questa serie avrete notato un tema sottotraccia, non esplicitato ma realmente forte: il ruolo dell’intelligenza, dell’analisi, della cultura (in Italia tanto disprezzate come abbiamo già visto. Non solo i nostri interlocutori sono intellettuali, ma nella loro visione di mondo (Italia ed Europa incluse) c’è lo sforzo di capire, e nelle loro speranze di futuro c’è la comprensione, c’è la formazione, c’è la dialogica. Allora, anziché conclusioni mie a questa serie di articoli, vi propongo le loro risposte all’ultima delle domande che abbiamo posto loro: “Qualunque sia stata la risposta a ciascuna delle precedenti domande, qual è il ruolo degli intellettuali? Possono contribuire alla costruzione di un’Italia/Europa/mondo migliore? Per dare questo contributo devono partecipare attivamente alla politica o starne al di fuori? Come?”:
Certo, dovrebbero partecipare attivamente, ma è meno facile di quanto sembra. Il problema è che spesso questo avviene nel ruolo di intellettuale organico, ossia da un lato scelto e gradito al potere politico (quindi ovviamente impossibilitato a criticarlo), dall’altro e per la stessa ragione portato ad adottare e riprodurre un mantra indiscutibile (vedi attuali intellettuali, economisti in particolare, quotidianamente impegnati nei talk show). Se uno riflette un attimo si rende conto che gli intellettuali che esercitano influenza sui temi principali, anche quelli presentati come ‘indipendenti’, sono in effetti pochissimi, sempre gli stessi, tanto sui giornali che in tv. Si tratterebbe quindi di costruire think tanks indipendenti, capaci di agire nella sfera pubblica senza sudditanza ai partiti [B].
L’intellettuale-politico non fa bene né la cultura né la politica. Non può essere neppure “il consigliere del Principe”. Qualsiasi grande intellettuale è sempre stato un grande rompiscatole, spesso temuto dal potere. Può contribuire alla politica, alla costruzione di una realtà migliore, soprattutto con il suo spirito critico-profetico [F].
La politica deve essere fatta da politici puri. Questa richiede mediazione che l’intellettuale non deve avere. Beninteso che per intellettuale si intende una persona che dedica il proprio tempo a studiare un fatto sociale e non chi ha delle semplici o grandi idee o ha del talento dialettico (i media sono pieni di prime donne). Ruolo di quest’ultimo, quindi, operando fuori dalla sfera politica, deve essere quello di diffondere le proprie idee e metterle a confronto con quelle degli altri, fornire gli strumenti per comprendere un fenomeno sociale, facilitare il dialogo ad ogni livello della società civile, stimolare la riflessione nelle persone, proporre interpretazioni e soluzioni al politico [N].
Gli intellettuali stanno sempre all’opposizione, nel senso che la loro funzione sociale è il distacco critico [H].
Possiamo anche dire che essere un intellettuale che produce analisi e interpretazioni del mondo inevitabilmente assume un ruolo nell’arena pubblica. Ma l’intellettuale esercita il suo ruolo in modo autonomo e libero da qualunque interesse di parte o di ‘bottega’. Quando un intellettuale si schiera attivamente in una parte politica, sia essa un partito o un movimento, diventa automaticamente un intellettuale ‘organico’ a quella parte politica e questo rappresenta una mutazione di ruolo [G].
Mi auguro che crescano il senso di responsabilità e la propensione al rischio degli intellettuali. Una loro funzione utile per migliorare le cose: aiutare i cittadini a formarsi opinioni sulla base di processi razionali di argomentazione, riflessione, approfondimento, contrastando la banalizzazione del dibattito politico (non solo in Italia) ad opera della televisione e degli stessi partiti [I].

A conclusione di questo ciclo di articoli, mi dispiace dirlo, abbiamo probabilmente le stesse idee confuse e semmai qualche speranza in meno. Ma le cose stanno così: l’Italia è pervasa da cialtronismo furbesco; l’Europa è avvitata su se stessa senza un glorioso futuro davanti; il mondo è oggetto di profondi cambiamenti, in genere preoccupanti, ai quali sembra di poter contrapporre poco e nulla. I nostri interlocutori hanno accennato a soluzioni e idee, più che altro speranze e auspici, ma onestamente mi associo al tono un po’ mesto e disilluso col quale ci hanno spiegato i loro punti di vista.
La conclusione sul ruolo degli intellettuali serve a condurci tutti a un esame di realtà in cui collocare storicamente la nostra azione; io ho sempre pensato (e in questo mi differenzio da alcuni fra i nostri sociologi) che quella di “intellettuale” non sia una condizione strutturata in via definita, per cui alcuni lo sono e altri no, per sempre, consegnando ogni azione o alla sfera intellettuale (in qualche modo divenuta così quasi teleologica) o al resto delle possibilità, ridotte così a funzioni minori dell’agire sociale. Intellettuale è colui che esercita la sua funzione critica con disincanto, con coraggio, fuori da schemi ideologici predefiniti, lontano da lusinghe e prebende. Fra gli intellettuali miei indiscussi maestri conservo il ricordo di un contadino del mio paese, in gioventù, che in anni lontani e così diversi svolgeva il ruolo di pungolo politico, di mallevadore di giovani coscienze, di organizzatore di eventi di rottura per le addormentate coscienze paesane.
Allora al bando i narcisi dei talk show. Basta con i giornali veline di partito. Basta specialmente con gli omologati dalla facile indignazione, con gli spacciatori di ideologie, con gli scettici immotivati come con gli entusiasti d’apparato, con i dissidenti con la rendita di posizione assicurata, con chi ha vissuto una vita nel ventre molle di un partito, di un sindacato, di un’organizzazione per poi scoprirsi improvvisamente folgorato da una Grande E Definitiva Verità, con chi perdona tutti ma non tollera nessuno, con chi pensa pensieri altrui e dice parole che da quel pensiero nascono, chi si vergogna e tace, chi non si vergogna ma si fa gli affari suoi, chi pensa che comunque non ne valga la pena.