Scuola e migranti: istruzioni per l’uso

 

L’istruzione dei figli che provengono dal mondo dell’immigrazione è un tema scottante: una parte dell’opinione pubblica, una frazione degli insegnanti, molte autorità scolastiche, molti responsabili politici ritengono che gli immigrati (o, meglio, i loro figli ) siano responsabili del degrado del rendimento scolastico, dei problemi disciplinari che si accumulano nelle scuole e della pessima classifica del sistema scolastico ottenuta dal loro paese (o regione) nell’indagine internazionale PISA (qui i risultati provvisori dell’indagine più recente). In molte scuole non c’è traccia di studenti immigrati, ma questo fatto purtroppo è ignorato.

Non bisogna negare le difficoltà prodotte dalla presenza nelle classi e nelle scuole di molti studenti che provengono dal mondo dell’immigrazione, ma le credenze che imputano loro la maggiore parte delle difficoltà scolastiche sono infondate. Prima di entrare in merito, vale la pena di soffermarsi sulle categorie e le definizioni che riguardano questi allievi e studenti. Chi sono? Non si possono più considerare immigrati studenti nati nel paese in cui risiedono e i cui genitori sono pure nati dove vivono. Strictu sensu si possono e si devono considerare immigrati gli studenti che sono nati in un’altra nazione; i loro genitori — o gli adulti che se ne occupano — sono cresciuti in un paese diverso da quello nel quale risiedono.

Quando si parla d’immigrati ci si dovrebbe riferire solo a quest’ultima categoria. In questi casi, famiglie, gruppi di immigrati, adulti e studenti arrivano sovente nella nuova zona di residenza nel corso dell’anno scolastico. Si tratta allora di accoglierli e di inserirli in un ambiente scolastico che ha proprie regole e codici, nonché una specifica lingua veicolare.

Che fare? Non distinguo qui tra immigrati e rifugiati, anche se i due gruppi non sono identici e coltivano valori e aspettative differenti. In entrambi i casi si tratta tuttavia di persone straniere che praticano altri valori, che spesso non conoscono la lingua utilizzata nell’insegnamento né la lingua ufficiale del paese in cui si trovano, che hanno alle spalle esperienze traumatiche, che ignorano i codici di comportamento e di comunicazione diffusi nel luogo in cui si trovano. La scuola non può fare molto per facilitare il loro inserimento sociale, per ridurre le diffidenze reciproche, per modificare le percezioni positive o negative dell’opinione pubblica e dei gruppi di immigrati, per combattere le tendenze segregazioniste di entrambi i gruppi, nonché le chiusure sociali ed economiche. Questo non significa però che la scuola non possa fare qualcosa di utile. L’istruzione scolastica può aiutare e accelerare o frenare l’inserimento sociale. Quando ci si pone la domanda di che cosa la scuola possa fare si solleva indirettamente la questione degli obiettivi sociali: se la società rifiuta di inserire nel proprio alveo la nuova popolazione, la scuola agirà in un certo modo; se invece la politica sociale mira a ridurre le discriminazioni e a facilitare l’integrazione allora il ventaglio delle iniziative scolastiche cambia.

L’integrazione sociale e culturale degli immigrati. Questa prospettiva per sé non è semplice da raggiungere. Alcune scelte scolastiche possono aiutare a facilitare un’integrazione attiva. Subire rassegnati un’integrazione passiva, da raggiungere a media o lunga scadenza, può comportare enormi sprechi umani, come è successo a molti gruppi di immigrati in Europa nel corso del XX secolo. Il primo problema da affrontare in modo concreto è la lingua. Gli studenti immigrati e le loro famiglie devono essere messi in condizione di capire il linguaggio comune, il linguaggio dell’insegnamento, il linguaggio dell’amministrazione, la lingua locale. Poco importa se i gruppi dell’immigrazione prevedono di installarsi durevolmente nel loro nuovo contesto oppure se intendono partire al più presto. Anche per un soggiorno di corta durata l’acquisizione della lingua locale è fondamentale. Inoltre, l’apprendimento di una lingua costituisce sempre un vantaggio, anche economico.

L’apprendimento della lingua. Questo obiettivo è semplice da enunciare, ma è difficile da raggiungere. Di solito, si collocano insieme i nuovi arrivati a frequentare corso di lingue accelerato. Orbene, i vari gruppi etnici parlano lingue diverse e coltivano valori talora divergenti. Le modalità di apprendimento di una nuova lingua variano quindi da un gruppo all’altro. Tra l’altro, sarebbe opportuno ammettere che i nuovi arrivati spesso non sono affatto linguisticamente degli sprovveduti poiché succede che già in tenera età si conoscono e si praticano più lingue. Quest’osservazione induce tra l’altro ad attuare immediatamente un’altra procedura, ossia a reperire il bagaglio di conoscenze almeno scolastiche dei nuovi arrivati. L’equivalenza dei gradi di scuola non dice assolutamente nulla; se si procede in modo amministrativo in questo campo si commettono sviste colossali. La questione linguistica serve quindi come trampolino per valutare il grado di istruzione dei nuovi venuti. Quest’operazione è graduale e piuttosto lenta; all’opposto l’apprendimento della nuova lingua — pur essendo una conquista graduale — si svolge in modo assai rapido.

A questo riguardo gli specialisti non condividono un identico punto di vista. Taluni ritengono che l’apprendimento della nuova lingua sia facilitato se nel contempo si cura anche la padronanza della lingua materna; altri considerano invece che il modo migliore per inserirsi consiste in un corso accelerato su misura — in un bagno linguistico che trascura le conoscenze linguistiche preesistenti. Ad ogni modo, sarebbe opportuno evitare la costituzione di classi separate o di classi speciali per l’apprendimento della nuova lingua come pure sarebbe da combattere qualsiasi tendenza a isolare i nuovi venuti dai loro coetanei. E’ noto che quanto necessario per l’esistenza quotidiana non si apprende nelle aule ma piuttosto nelle relazioni sociali o, per utilizzare un lessico più popolare, nei cortili di ricreazione, nelle strade, nei negozi, nei retrobottega. Un’attenzione siffatta, che aborre le soluzioni semplicistiche, costa ed esige grande flessibilità da parte del corpo insegnante. I nuovi arrivati faranno dei va e vieni da una classe all’altra: per alcune settimane, per alcuni mesi, fin quando riusciranno a capire da soli quanto succede e a esprimersi il modo sufficientemente chiaro per far valere le proprie opinioni, preferenze, idee o più semplicemente per chiedere ciò di quanto hanno bisogno. Non ci sono regole in merito: l’inserimento varia moltissimo da caso a caso. In talune circostanze, tra cui vanno inserite le disposizioni soggettive e/o le percezioni del gruppo di immigrati rispetto alla coesione sociale, questo periodo di integrazione che mira a risolvere questioni urgenti e pratiche può durare alcune settimane; in altri casi alcuni mesi, mai più di un anno.

La famiglia. Si commetterebbe un madornale errore se si isolasse lo studente dal gruppo sociale nel quale è inserito. Pertanto, le azioni scolastiche intraprese per facilitare l’inserimento devono avere necessariamente una componente peri o para-scolastica. Da questo punto di vista, la priorità va assegnata a interventi scolastici presso le madri e le donne. Poco importa se queste operazioni siano svolte dalla scuola, e in questo caso dagli insegnanti, o da assistenti sociali. La preferenza qui andrebbe al personale scolastico che deve conoscere le culture domestiche, aiutare le donne a inserirsi e spiegare loro le nuove regole di convivenza, i codici sociali. I maschi che lavorano possono essere aiutati nell’ambiente lavorativo, mentre le donne adulte restano a casa e tendono a isolarsi. I corsi accelerati di lingua le devono coinvolgere. Va da sé che i corsi devono essere su misura, concepiti per adulti. Gli insegnanti raramente hanno la preparazione richiesta per formare persone adulte.

Queste proposte vengono dalla pratica e sono state attuate quando si è trattato di inserire rapidamente e con successo i nuovi venuti. Si tratta di misure d’urgenza adottate per favorire la coesione sociale e soprattutto un inserimento rapido, poco traumatico, dei nuovi venuti in un contesto sociale e culturale nuovo, spesso percepito come ostile. Oltre ai provvedimenti urgenti si dovrà in seguito pensare a un accompagnamento adeguato a media e lunga scadenza. La lotta contro la segregazione e l’apartheid sociale e scolastico è lunga e spesso si trascina oltre la prima generazione, quella dei nuovi venuti. I figli crescono, andranno a scuola ma su loro peserà a lungo il marchio di immigrati. Diventeranno adulti: alcuni si adatteranno bene al nuovo mondo e si confonderanno con i locali; altri al contrario subiranno, per colpa loro o dell’ambiente, discriminazioni di ogni genere e vivranno condizioni che si trasferiranno sulle seconda generazione. Questo è un pericolo da evitare. Una società sana integra, assorbe, si arricchisce umanamente se è aperta. Occorre quindi impostare politiche scolastiche e formative su vasta scala, che evitino la riproduzione della segregazione, la costituzione di ghetti sociali. Il servizio scolastico può dare una mano. Se tutta la società e le politiche culturali, sociali e economiche andranno in questo senso si riusciranno a ridurre le tensioni e i costi umani. Non bisogna però aspettarsi che la scuola da sola possa fare molto.

Contributo scritto per Hic Rhodus da Norberto Bottani. 
Figlio d’arte perché il nonno e il padre sono stati insegnanti 
nella scuola di base. Non solo: due sorelle e un fratello sono 
diventati insegnanti. Per questa ragione dopo un inizio 
predestinato nella scuola se ne è allontanato e ha iniziato a 
osservare le malefatte dei sistemi scolastici e a commentare 
le politiche scolastiche attuate in vari paesi.