La pedante questione (a 5 stelle) dell’autentica delle firme

Oltre all’esultanza per lo spread che sale, al tripudio per il progressivo declassamento del nostro rating, al giubilo per la prossima uscita dall’Euro là, in quei corridoi, i ministri del cambiamento (in quota pentastellata) hanno ulteriori motivi di gaudio, per una questioncella che noteranno solo pochi accaniti compulsatori, ma che, soprattutto, in pochi comprenderanno perché, analogamente allo spread, al rating e all’Euro, argomenti dei quali la stragrande maggioranza di noi non capisce assolutamente nulla, l’argomento “autentica delle firme” appare ai più come questione di ottusa burocrazia che i pidioti e chi li ha preceduti han voluto tenere in piedi allo scopo di impedire ai cittadini di esercitare il loro sacrosanto diritto alla democrazia diretta.

Il Ministro Fraccaro, ministro per la democrazia diretta (!) annuncia che è stata trovata la soluzione per renderci tutti liberi partecipi e coinvolti nella cosa pubblica: potremo raccogliere firme come ci pare, autenticarcele da soli e promuovere tutti i referendum che vogliamo quando vogliamo. Fantastico. Appena la modifica passerà (assieme alle altre ardite modifiche alle norme per il reclutamento di presidenti e scrutatori e alle luminose regole per le elezioni pulite, di cui vi parlerò in una prossima occasione), sono pronta a scommettere che dalle tribune casaleggine partiranno estasiati i peana agli onorevoli che han restituito la democrazia ai cittadini, sottraendo questa pratica borbonica (così l’on. Magi in commissione, tenendo bordone alla collega pentastellata Macina, coautrice dell’emendamento) ai grigi burocrati e attribuendola finalmente a… chiunque.

Astenendomi dall’approfondire la questione di costituzionalità di un ministero siffatto, e rimandando all’ottimo Pasquino per chiarire che la democrazia, a parte l’Atene del 400 a.C., è sempre rappresentativa, ricordiamo che, oltre al voto, esistono strumenti più o meno ampi di partecipazione dei cittadini: si può discutere sulla loro effettività, sulla possibilità del singolo di esprimere in modo efficace la propria posizione e di far valere la propria idea.

Nella vulgata pentastellata, quella delle manine e del decreti fatti col cuore, l’intervento normativo va ad incidere sullo strumento di democrazia diretta che pure uno studente delle medie con una modesta infarinatura di educazione civica riconosce come tale: il referendum (abrogativo). E interviene ipersemplificando UNO (solo UNO) dei numerosi aspetti disciplinanti il meccanismo che ne regolano il funzionamento. Infatti, grazie ad un emendamento dell’On. Macina, sarà possibile “l’autenticazione delle firme per referendum e leggi di iniziativa popolare anche a cittadini designati dai comitati promotori”, così annuncia il citato comunicato ministeriale. Attualmente la promozione del referendum abrogativo (art. 75, Cost.), analogamente alle leggi di iniziativa popolare (art. 71, Cost., delle quali non importa nulla a nessuno tanto è inutilizzato questo istituto), è regolata dalla l. 352/70 e successive modificazioni.

La legge 352/70, coeva della prima legge sottoposta a referendum (quella sul divorzio, relativo alla l. 898/70) e secondo diversi costituzionalisti (come Fusaro, Barbera, Morrone) strutturata ad arte per limitare l’accesso allo strumento referendario, prevede una serie di procedure e limiti temporali per la presentazione di quesiti referendari. In breve: ci sono limiti temporali annuali entro cui presentare i quesiti, limiti legati alla scadenza della legislatura, limiti alle leggi che possono essere sottoposte ad abrogazione referendaria, limiti entro i quali fissare le consultazioni, doppio sindacato di ammissibilità, automatica decadenza in caso di approvazione di legge modificativa di quella da sottoporre a quesito e, sì, ex multis, c’è anche questa questioncella dell’autentica delle firme.

In tutta franchezza, non mi sembra così aggravato, il procedimento: il referendum serve ad abrogare una legge che vale per circa di 60 milioni (MILIONI) di persone. La richiesta popolare deve venire da almeno 500.000 elettori. Lo 0,8%. Zerovirgola. Una quota di popolazione pari alla rappresentanza di quei partitucoli di cui manco ricordiamo il nome e che propugnano idee, appunto, proprie di una sparuta minoranza. Garantire che la possibilità di abrogare una legge nazionale, valida per tutti, sia espressione di una volontà se non maggioritaria, almeno latamente condivisa fra i consociati, non mi pare esattamente una forma di “aggravamento” della procedura referendaria, semmai, è un termometro della popolarità dell’argomento sottoposto a quesito.

Senza addentrarci nell’argomento quorum, oggetto di dibattito dottrinale e utilizzato largamente dai detrattori di quesiti referendari, come ad esempio accadde coi quesiti relativi alla fecondazione assistita, nel 2005, ma anche prima, con i referendum pannelliani del 1997, il referendum prevede procedure articolare anche per evitare che un fronte modesto, rappresentativo di neanche l’1% della popolazione, metta in moto un meccanismo che ha dei costi piuttosto rilevanti (si parla di diverse decine di milioni di euro, solo per remunerare i soggetti coinvolti nelle operazioni: componenti dei seggi, dipendenti dei comuni, appartenenti alla forza pubblica in servizio di vigilanza). E d’altra parte, pensare di poter abrogare una legge nazionale attraverso il voto di una modesta quota di elettori (se non ci fosse la barriera del quorum) creerebbe non tanto un vulnus nel nostro ordinamento democratico esponendo qualsiasi legge al capriccio di gruppi rumorosi (ci pensate, che ne so, all’abrogazione della legge Lorenzin ad opera dei comitati no-vax?), quanto piuttosto getterebbe nel caos l’intero sistema.

E poi sì, c’è questa cosa dell’autentica delle firme, che secondo la legge attuale è attività riservata ai certificatori. Costoro sono pubblici ufficiali bene individuati e in particolare: consiglieri o assessori comunali (provinciali) o regionali, sindaci e presidenti delle province e funzionari da loro incaricati, segretari comunali, giudici di pace, cancellieri di Tribunali, Procure o Corti d’Appello, notai. Questi soggetti attribuiscono la cosiddetta “pubblica fede” alle firme raccolte e certificano che Tizio e Caio hanno effettivamente apposto la loro firma in quella data su quel modulo alla loro presenza.

Capirai, direte voi, cosa ci vorrà a scrivere che Tizio o Caio sono venuti a firmare? Ci vorrà la responsabilità di dichiararlo con la propria faccia, la propria sottoscrizione e l’apposizione di un timbro tondo con lo stemma della Repubblica. Per ottenere l’uso di questo timbro occorre un rapporto di relazione tra il certificatore e lo Stato, tale da consentire al primo di usare legittimamente lo stemma del secondo. Il Comune, la Provincia, la Regione, il Tribunale. Certo, lo si può facilmente scaricare da Google e riprodurre a caso, cosa cambia?

L’autenticatore svolge una funzione di garanzia, esponendosi al rischio di procedimenti penali se si certifica il falso, che per il cancelliere, dipendente dello Stato, si traduce in un conseguente procedimento disciplinare, mentre per il consigliere comunale/provinciale/regionale si tradurrà in una figuraccia presso il proprio elettorato o, viceversa, un’esposizione al pubblico ludibrio se la controparte politica è un pochino attenta. Per il primo può anche significare la fine di una carriera, la necessità di trovare un altro lavoro e via dicendo.

Il certificatore tutela i promotori (che si affidano al suo potere certificativo e alla sua capacità a svolgere questo compito) e tutela i cittadini che, andando a sottoscrivere il modulo, avvertono l’ufficialità del soggetto che raccoglie i loro dati, distinguendolo in modo netto da quelli che ti fermano in autogrill chiedendoti una “firma contro la droga” e poi salta fuori che hai comprato un’enciclopedia in 37 volumi.

Attribuendo a un pezzo di carta un valore probatorio privilegiato, “fino a querela di falso”, si conferisce a quel documento una potenza probatoria che, intuitivamente, non può avere qualsiasi atto. Né si può pensare che questa valenza possa essere attribuita da qualunque cittadino “indicato dai comitati promotori”. Peraltro, sfatando il mito del mucchio-di-carta-che-non-guarda-nessuno è capitato sovente che autenticatori poco seri siano finiti nei guai perché avevano certificato per autentiche firme di persone decedute o inesistenti.

I detrattori di questo sistema affermano da un lato, che solo i grossi partiti e i grossi sindacati possono raccogliere le firme: qui prendono una cantonata pazzesca, dal momento che i Radicali, nel 1978, forti solo del loro 1,4% promossero i referendum sulla legge Reale e sul finanziamento pubblico ai partiti; in seguito, sempre i Radicali, nel frattempo saliti al 3,45%, promossero i referendum su ergastolo, aborto e porto d’armi nel 1981, prendendo però una sonora sberla. Invece di Mariotto Segni, col suo movimento estemporaneo “dei 31” formato da politici, intellettuali e industriali, promosse e vinse il referendum sulla riduzione delle preferenze alla Camera dei deputati nel 1991. Un po’ di tempo dopo, nel 1993, sempre Pannella, col suo modesto 1,4% promosse otto referendum e li vinse tutti. Per converso, referendum promossi da un comitato “ampio”, come quello sulla caccia del 1990, o quello sulle trivelle del 2016, sono falliti miseramente alla prova delle urne. Dicono i detrattori che solo loro “riescono ad avere un esercito di autenticatori, di consiglieri comunali, oppure ad avere disponibilità finanziarie per pagarseli.” (così sempre l’on. Magi, nell’intervento sopra citato).

Pagarseli? Ho capito bene? Per questo servizio i consiglieri comunali, il sindaco, il segretario comunale, sono pagati? No, perché questa loro disponibilità è espressiva della loro adesione alla proposta politica che vanno ad incentivare con il servizio di autentica.

E’ difficile reclutarli? Dipende: il rappresentante di un comitato promotore assolutamente minoritario in un determinato territorio farà più fatica, rispetto all’omologo rappresentante in un territorio più presenziato da esponenti di quell’orientamento. E se questa difficoltà è più ampia e diffusa, forse ai promotori dovrebbe sorgere il dubbio che il quesito non sia proprio un tema cruciale per la vita del Paese. O che magari andrebbe riformulato o meglio proposto.

I cancellieri e i notai invece, sì, vanno pagati. Volete sapere l’onorario standard di un notaio/cancelliere per questa attività? Ben 0,05€ a firma autenticata. Dopo 20 persone, si è messo insieme un caffè, insomma. Lasciando da parte il discorso notai (che verosimilmente inviteranno i rappresentanti dei promotori a cercare qualche consigliere comunale di concordi vedute che si presti all’ufficio), i cancellieri possono rendersi disponibili previa autorizzazione del capo dell’ufficio e nulla osta prefettizio. In breve, i cancellieri devono un po’ crederci nella raccolta firme che vanno ad autenticare, perché di passare delle mattine e delle sere intere in un banchetto, coi promotori, per copiare dei dati e mettere un timbro in fondo, in cambio di un compenso che forse varrà una pizza e una birra, diciamolo, è una bella seccatura. Preciso che chi scrive, ha passato svariati pomeriggi e domeniche al freddo o sotto la pioggia ad autenticare firme incassando un lauto compenso in gratitudine e relazioni umane.

Quindi quel che afferma l’on. Magi è una sciocchezza: i certificatori non “costano” (e se un comitato deve pagarli sottobanco farebbe bene a denunciare la cosa) e non è affatto detto che solo i grossi partiti abbiano un esercito di autenticatori, l’esperienza dei Radicali che l’on. Magi ben dovrebbe conoscere, in quasi cinquant’anni di referendum, dovrebbe dimostrarlo piuttosto bene. Mentre quello che crede, cioè che ridurre l’autentica a una frottola renderà la promozione dei referendum più semplice, oltre a essere una sciocchezza sesquipedale, si tradurrà in un boomerang per tutti i fautori dello strumento referendario, sia per l’incompetenza e l’inesperienza degli improvvisati autenticatori, che esporranno i comitati promotori a innumerevoli rilievi da parte di chi quelle liste di firme deve verificare, sia per la vanità dello strumento referendario, utile ormai solo in quei casi di quesiti così cruciali da spingere in massa gli elettori alle urne. E varrebbe davvero la pena di averne, di questi quesiti.

articolo scritto per Hic Rhodus da Chiara Plazzi.

Romagnola, burocrate “inside”. Svolge quotidianamente compiti 
di cesello e bulino su pratiche di varia burocrazia, da un numero 
di anni che una signora preferisce non rivelare, pagata a tal fine 
dagli onesti contribuenti.