Come ti riformo la giustizia senza risolvere (quasi) nulla

Marta Cartabia, come la totalità dei guardasigilli che l’hanno preceduta almeno nell’ultimo trentennio, si è trovata di fronte al solito, arcinoto, problema: processi lenti, delinquenti a spasso, strutture giudiziarie malconce, sistema carcerario al collasso, sanzioni dall’UE e via elencando disgrazie. A differenza di chi l’ha preceduta, Cartabia ha l’indubbio vantaggio di sapere benissimo dove reperire le risorse ma, attenzione, non si tratta di risorse a fondo perduto.

Crediamo seriamente che Cartabia abbia la bacchetta magica e che risolva problemi ormai incancreniti dal codice Vassalli in qua? I lettori di Hic Rhodus sono troppo intelligenti per crederlo e quindi confermo che la loro intuizione è corretta: no, la riforma non risolverà tutti i problemi; se saremo fortunati ne risolverà pochini, più realisticamente darà un’oliata a un sistema che non si vuole cambiare (leggetevi questa Cassandra, oppure questa). Questo non per incapacità della titolatissima prof.ssa Cartabia, ma perché manca la volontà politica di risolvere il problema, per palese conflitto di interessi: avvocati e magistrati rappresentano alla Camera circa il 12%, al Senato più o meno il 15% dato che potrebbe crescere se andassimo a guardare a fondo le dichiarate professioni di “consulente”, “dirigente”, “docente universitario” e “ricercatore”. Dati alla mano, in Italia c’è un numero spropositato di avvocati, il quadruplo dei francesi, una volta e mezzo i tedeschi, ci supera solo la Spagna (vedi anche qui, meno aggiornato, ma con grafica più intuitiva). La situazione del personale di magistratura e giudiziario è, al contrario, sottodimensionata, ma questo non è determinante ai fini della soluzione del nostro problema.

La riforma Cartabia, come tutte le precedenti, interviene sui procedimenti già avviati anche se, finalmente, si decide ad operare corpose, seppur temporanee, iniezioni di personale non di magistratura: il nostro sistema è un enorme imbuto dove qualsiasi fesseria fonte di litigio entra e va a intasare un collo strettissimo dal quale a volte escono le soluzioni attese, altre volte restano lì intasate. Se si vuole risolvere il problema, occorre ridurre drasticamente il flusso in entrata e semplificare i passaggi intermedi, eliminando l’inutile cavillosità garantista e non continuare ostinatamente ad intervenire solo sui tempi di uscita.

Lo strumento principale utilizzato finora per accelerare la durata dei processi e raggiungere quella ragionevole durata descritta dall’art. 111 della Costituzione (introdotto con appena una cinquantina d’anni di ritardo rispetto alla CEDU), è stato accorciare o modificare i tempi di prescrizione. Lo ha fatto la legge ex Cirielli (2005), lo ha fatto la riforma Orlando (2017), lo ha fatto la riforma Buonafede (2019), lo sta facendo ancora la riforma in approvazione. Accorciare i tempi di prescrizione non riduce i tempi di lavorazione dei fascicoli, non aumenta il numero di udienze, né migliora le performance del personale giudiziario e di magistratura, perché l’iter che conduce alla sentenza è sempre lo stesso. È come salire su un treno ed essere costretto a scendere dopo un certo numero di fermate: sono arrivato dove volevo? No, sono solo sceso dal treno. Inoltre, come già in passato, i processi che si prescriveranno saranno quelli che offrono terreno fertile ai populisti forcaioli: i furti, le truffe… tutta la c.d. “microcriminalità” è destinata alla prescrizione, se non si interviene seriamente sul tragitto che il fascicolo compie prima di arrivare a sentenza.

Per dimostrare che l’intervento non è solo sulla prescrizione, la riforma Cartabia introduce elementi di contorno: limiti all’appellabilità per sentenze (niente di apocalittico, ma col rischio di fermarsi al vaglio costituzionale, analogamente a quanto accadde alla legge Pecorella), modifiche cosmetiche per cui anziché prescritto il processo diventa improcedibile: un espediente tecnico che nasconde più di un’insidia, come saggiamente il CSM ha osservato (qui anche una versione meno dotta).

Già da prima della riforma delle sedi giudiziarie (2012, goffo tentativo di recuperare personale senza assumerne di nuovo) si era accelerata la via dell’informatizzazione, divenuta obbligatoria nel 2014 per il processo civile e accelerata bruscamente nel settore penale nell’ultimo biennio a causa del COVID. La digitalizzazione è stata imposta a personale anziano, praticamente privo di formazione informatica; si è mossa con passo da bradipo (nel civile c’è voluto un decennio e non siamo ancora al 100%) e così continuerà a muoversi, se non arriveranno iniezioni stabili di personale giovane, nativo digitale: stiamo parlando di un settore privo di ricambio per oltre vent’anni, laddove di magistrati, invece, se ne reclutano circa 300 ogni 18 mesi. I primi, emergenziali, segnali di nuove assunzioni (concorsi tampone di fine 2020) non hanno fatto altro che reclutare cinquantenni, spesso stufi del lavoro precedente con modeste competenze informatiche (nonostante l’apposita, risibile, prova tecnica) e scarsa voglia di crescere professionalmente, atteso il breve, talvolta brevissimo, lasso di tempo che li separa dalla pensione. Benissimo allora rimpinguare gli uffici giudiziari ma con un diverso meccanismo di reclutamento: Brunetta è convinto che sarà premiato il merito, finalmente. Si annuncia un plotone di neolaureati, che nell’ufficio per il processo entreranno dalla porta di servizio del tempo determinato, per risolvere l’emergenza. Abbiamo poi i GOP, un ircocervo che esiste solo in Italia: giudici onorari che svolgono le identiche funzioni di quelli togati, per un periodo teoricamente determinato ma di fatto tendenzialmente infinito, indispensabili perché costano meno dei secondi e smaltiscono una quantità enorme di affari: la relazione Castelli ha ipotizzato varie soluzioni, ma il tema merita approfondimento in apposita sede.

Il dato a mio parere sottovalutato nel reclutamento di questo personale è che nella testa dei candidati appaiono come un’insegna luminosa le parole posto statale e il fatto che sulla carta sia temporaneo poco importa: da decenni la Pubblica Amministrazione recluta temporaneamente personale per emergenze varie, per poi stabilizzarlo in nome di conquiste sindacali e di tutele dei lavoratori. Esattamente ciò che si sta tentando di fare con i magistrati onorari e ciò che si finirà per fare con gli attuali assumendi. Staremo a vedere.

La rimodulazione della durata delle indagini e l’introduzione di criteri di priorità. Anche qui non stiamo parlando di novità epocali: nei trent’anni di vigenza dell’attuale codice, numerosi interventi hanno modificato la durata delle indagini che già ora seguono la gravità del reato. Bene ridefinirli, se questo va a giovamento di chi le indagini deve svolgere, anche se la storia recente ci mostra un quadro che anziché far trovare più velocemente i colpevoli, consente loro maggiori vie di fuga: mi riferisco, anzitutto, ai reati fiscali e tributari ma anche al reintrodotto falso in bilancio: su questo molto scrisse il compianto Bruno Tinti, sia nel suo blog, sia in diverse sue opere. I criteri di priorità adottati degli uffici esistono già: introdurne per legge rischia di portare su sentieri assai scivolosi (si vedano, molto tecnici e non recentissimi, ma assai interessanti questo e questo articolo), dove la corrente politica dominante potrebbe dare precedenza a certi reati anziché ad altri. Sull’argomento credo meriti attendere una lettura molto attenta del testo definitivo: una parola anziché un’altra può andare a scontrarsi con l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, che è una garanzia per tutti (non solo per i cittadini).

Ancora: la richiesta di rinvio a giudizio “solo nei casi di ragionevole certezza di condanna” è una contraddizione in termini. Se il PM non è ragionevolmente convinto di ottenere una pronuncia positiva, chiede l’archiviazione, procedura garantita analogamente a quella processuale perché in ogni caso quel fascicolo va lavorato e deciso da un giudice. Un passaggio cruciale di tutti i procedimenti, sul quale invece la riforma inspiegabilmente tace, sono le notifiche: migliaia, milioni di atti da notificare. Agli avvocati, facilissimo: c’è la PEC, un clic e la notifica è fatta. Alle parti, dipende: finché si consente agli indagati e imputati di eleggere domicilio dove vogliono, in nome di un garantismo di facciata, è pacifico che si continuerà a perdere tempo a cercare persone che nel frattempo sono emigrate, han cambiato residenza, non abitano al civico 2, ma 22, non in via Garibaldi ma Gariboldi, non nel comune di Calliano (TN) ma nel comune di Calliano (AT) e così via cercando, rimandando, regredendo, replicando. Alcuni anni fa si è giunti a questo risultato per il processo civile, senza particolari traumi per il diritto di difesa: viene da chiedersi come mai, con l’occasione servita su un piatto d’argento, non la si sia colta per introdurla anche nel processo penale.

La riforma non interviene dove serve: se vogliamo che i processi vadano più spediti, occorre anzitutto ridurne il numero, frenando il flusso in entrata. Qualsiasi screzio, diverbio, vivace scambio di opinioni si trasforma in querela, perché costa meno di una mediazione strutturata. Se la vicina continua a lasciare l’immondizia sul pianerottolo spendo molto meno a sfogarmi con una denuncia dai Carabinieri che chiedere un parere a uno studio legale. Per ciascuna di queste migliaia e migliaia di stupidaggini vanno aperti fascicoli, sentiti testi, istruite pratiche, fatte notifiche e, quasi sempre, archiviato tutto quando le parti si sono finalmente messe d’accordo (andando in seconda battuta dai legali dove non sono volute andare subito). Una tassa per l’introduzione di querele pari almeno alla spesa che chiederebbe l’avvocato per una mediazione fra i litiganti, ridurrebbe in modo drastico il flusso di queste pratiche bagatellari, senza vulnerare il sacrosanto diritto alla difesa che la Costituzione garantisce. Ma anche di questo non c’è traccia nella riforma.

Gli strumenti deflattivi che introduce la riforma intervengono su pratiche già aperte: perché invece non depenalizzare contravvenzioni che, nella realtà dei fatti, mai portano a reali conseguenze penali per i loro autori? Gli armadi dei tribunali straripano di fascicoli istruiti per reati che non andranno mai a processo ma che reati restano, perché introdotti sull’onda emotiva del tema da tutelare (l’immigrazione clandestina, le inosservanze alle norme di prevenzione e sicurezza sul lavoro, le contravvenzioni in materia edilizia ed ambientale…) o perché residuato di una legislazione mai aggiornata (il famigerato TULPS, sanzionato ancor oggi dal Regio Decreto 773/31): non si nega l’importanza di questi argomenti, ma l’opportunità di assegnarne il sanzionamento al vaglio del giudice. Mai, in nessunissimo caso, chi commette queste violazioni effettivamente subisce la conseguenza brandita dai politici che ne hanno reclamato l’introduzione come risolutiva: “in carcere chi non rispetta le norme di prevenzione infortuni sul lavoro” “in galera chi inquina” “in prigione i clandestini”. Datevi pace: nessuno di costoro vedrà mai il carcere; ma per ciascuno di questi fatti va aperto un fascicolo, scritti verbali, fatte notifiche, richiesti ed emessi provvedimenti: fiumi di risorse umane e materiali sottratte a fatti più gravi che, per forza, si muovono più lentamente.

Sorprendentemente, questo argomento è stato sollevato dalla Ministra in alcuni interventi ma, altrettanto sorprendentemente, non nel senso che sarebbe più logico: rendere amministrative violazioni che, quando scoperte, hanno sempre, solo ed esclusivamente una conseguenza patrimoniale sul loro autore. Sul tema delle sanzioni alternative c’è materia per un separato articolo, ma, in due parole: perché consentire un iter procedurale identico a quello di qualsiasi altro reato al netto dei riti alternativi, che si svolgono sempre all’interno del circuito giudiziario? Con una certa malizia si potrebbe dire: meno fascicoli, meno processi, meno giudici. E torniamo al punto di partenza: il problema non lo si vuole risolvere.

Contributo scritto da Chiara Plazzi

Romagnola, burocrate inside. Svolge quotidianamente compiti di cesello e bulino su pratiche di varia burocrazia, da un numero di anni che una signora preferisce non rivelare, pagata a tal fine dagli onesti contribuenti.