Nel 2020 la popolazione italiana è diminuita di 405.000 persone, attestandosi a 59.236.213. Si tratta non solo di un cambio “contro natura” (nella stragrande maggioranza dei paesi gli abitanti aumentano) e assoluto (neanche l’arrivo di immigrati stranieri è riuscito a riequilibrare la bilancia), ma soprattutto epocale. Era dal 1918 che non si registrava un calo di questo tipo, e quell’anno si sommarono eventi come la Prima Guerra Mondiale e l’epidemia spagnola. Sui numeri ISTAT del 2020 ha sicuramente pesato l’effetto del Covid-19, non solo in termini di aumenti dei decessi (+15,6% rispetto alla media del quinquennio precedente) ma anche di mancate nascite (-15.000 nel 2020 rispetto all’anno prima, con fenomeno in accelerazione a partire da novembre). In Italia quest’ultimo effetto si è sentito relativamente poco mentre a livello mondiale la vera strage causata dal Covid è stata quella dei bambini non nati, sia perché non hanno ancora inventato la fecondazione via Zoom sia perché l’incertezza e il pessimismo hanno fatto finire nel congelatore i piani di procreazione. Comunque sia, la previsione dell’ISTAT è che nel 2030 ci saranno 58 milioni di italiani, per cui la tendenza sembra destinata a continuare, così come l’ulteriore invecchiamento della popolazione. Seconda la stessa ISTAT, nel 2050 per ogni cinque italiani in età lavorativa (15-64 anni) ci saranno tre pensionati (over 65). Quell’anno la popolazione italiana dovrebbe attestarsi sui 54 milioni.
Si conferma il dilemma che non fa dormire i vertici dell’INPS: chi manterrà un esercito di pensionati sempre più grande con sempre meno lavoratori attivi? Il dubbio rimane, soprattutto con un Parlamento che continua ad ignorarlo sfornando riformette annuali che finiscono per aggravare la situazione (Quota 100, 102… chi offre di più?). Però si sta ignorando un cambiamento potenzialmente generazionale del mercato del lavoro. E qui bisogna ricordare che il Covid ha avuto due grossi effetti immediati sul lavoro: il primo è che ha dimostrato a tutti che lo smart working è possibile, allentando il vincolo geografico tra impiegato e sede di lavoro; il secondo è che una quantità considerevole di persone con contratto indeterminato – 777.000 nei primi 10 mesi del 2021, +5,4% rispetto allo stesso periodo del 2019 – ha deciso di dimettersi, in buona parte scegliendo pascoli più verdi (v. questo documento della Banca d’Italia). Quest’ultimo fenomeno è ancora in parte misterioso, e bisognerà vedere se durerà più a lungo dei risparmi accumulati nei mesi di lockdown e della disponibilità di impieghi migliori. Ciononostante, l’effetto sul presente è concreto, tanto che negli Stati Uniti la quantità sproporzionata di dimissioni volontarie e la contemporanea difficoltà nell’assumere personale nuovo ha convinto le più grandi catene del paese (Amazon, McDonald’s etc.) ad aumentare volontariamente il salario minimo, cosa che fino al 2019 era tema di furiosi dibattitti politici e sociali.
Ricapitolando, il mercato del lavoro in Italia si trova soggetto a questi nuovi fenomeni: 1) una popolazione economicamente attiva che cala sempre più velocemente; 2) una mano d’opera più esigente in termini del tipo di impiego che è disposta ad accettare; 3) un serbatoio di potenziali candidati più ampio geograficamente grazie allo smart working (per esempio, un ingegnere di Napoli potrebbe lavorare per una ditta di Bergamo andando in ufficio una volta a settimana). I primi due elementi costituiscono una riduzione della mano d’opera disponibile, il terzo una specie di lubricante che potrebbe aumentare l’efficienza del mercato del lavoro, riducendo gli squilibri regionali tra domanda e offerta. Se uniamo tutti gli elementi, la conseguenza immediata dovrebbe essere un aumento degli stipendi, come successo negli USA, per lo meno in quei settori che stanno accusando problemi a conservare o sostituire il personale. Per l’Italia si tratta essenzialmente dell’industria, dove, secondo il documento della Banca d’Italia sopra citato, si è concentrato il 90% delle dimissioni volontarie già menzionate.
Il punto che voglio fare è che se allarghiamo l’orizzonte temporale, potremmo trovarci di fronte a un cambiamento epocale del mercato del lavoro, per lo meno in paesi come l’Italia in cui la popolazione diminuisce. Il ragionamento è semplice: dato che nei prossimi decenni le persone che si pensioneranno aumenteranno sempre di più – almeno fino al 2070 secondo le previsioni ISTAT – se rimarrà stabile il numero di impieghi, per i giovani ci saranno più opportunità di lavoro. In altre parole, se i posti di lavoro rimarranno gli stessi ma la popolazione economicamente attiva diminuirà, parte di coloro che oggi non riescono/vogliono trovare un lavoro dovranno essere riassorbiti dal mercato del lavoro, grazie a migliori salari e/o condizioni, o grazie allo smart working. Potremmo quindi stare entrando in un’epoca in cui competere per un posto di lavoro sarà più facile che nel passato. Gradualmente, con l’accelerazione dei pensionamenti (che avverrà, con o senza riforme del Parlamento), parte dei giovani oggi disoccupati, sottooccupati o scoraggiati saranno riassorbiti dal mercato del lavoro, fino a quando il tasso di disoccupazione scenderà a un livello più vicino a quello frizionale. In pratica, non sarà più necessario una gran quantità di nuovi posti di lavoro per raggiungere la piena occupazione, restando in parte sufficiente riassegnare i posti lasciati liberi ai giovani disponibili. Un po’ lo stesso discorso del settore immobiliare: con una popolazione che diminuisce non sarà necessario costruire nuove case, ma riassegnare o ristrutturare quelle esistenti (al netto dei fortunati che si possono permettere una seconda casa). La vera competizione sarà per accaparrarsi i posti di lavoro migliori.
Probabilmente un cambio di questo tipo avrebbe un effetto deprimente sul PIL, ma non necessariamente sul PIL pro capite. Anzi, come indicato anteriormente, di fronte a una mano d’opera in diminuzione, le imprese si potrebbero vedere costrette ad aumentare gli stipendi (vedi la legge della domanda e dell’offerta), come successo negli Stati Uniti. Ovviamente ci sarebbero differenze forti tra un settore e l’altro, dipendendo delle qualificazioni necessarie. E rimane nel mazzo il jolly dell’immigrazione. Se si procedesse ad aprire le frontiere a più lavoratori stranieri, l’equazione che ci dà la popolazione economicamente attiva potrebbe cambiare sostanzialmente, al netto delle qualificazioni professionali dei nuovi arrivati. Lo stesso discorso vale per nuove tecnologie che permettano l’automatizzazione di una quantità significativa di impieghi.
Quindi, potremmo vedere il capitalismo entrare in una nuova fase della sua esistenza: senza più la necessità di mercati e imprese di espandersi costantemente – con buona pace di Marx – e caratterizzata da bassi tassi di crescita ma piena occupazione. Nel passato, la prospettiva di invecchiamento della popolazione era vista come una sciagura dagli economisti, perché gli anziani spendevano molto meno dei giovani (pensiamo a vestiti, viaggi e divertimento, per esempio). Ma gli anziani di oggi e soprattutto quelli di domani non sono come i nostri nonni: sono più sani, vivono più a lungo e soprattutto, non oberati da tanti figli e nipoti, mantengono uno stile di vita molto più attivo e giovanile. Con il vantaggio che non dovendo lavorare hanno tutto il giorno per realizzare attività. Quello che sicuramente succederà è che si richiederanno più servizi medici, già che in buona parte questi sono diretti agli anziani. Per cui, in termini occupazionali, sarà prioritario convincere i giovani a intraprendere carriere mediche o paramediche, invece di continuare ad assumere infermiere e badanti straniere. Così facendo si amplierebbe una involontaria politica di redistribuzione del reddito tra una generazione e quelle successive. Ovvio, sempre che prima di pensionarsi la gente paghi tasse sufficienti da coprire le cure del futuro.
Siamo all’alba di una nuova epoca per il lavoratore. Questa volta potrebbe essere d’oro.