La crisi politica che sta vivendo il Brasile è drammatica. Per farsene un’idea si può andare a vedere la nervosa cerimonia di giuramento dell’ex Presidente Lula (Luiz Inácio Lula da Silva) come nuovo ministro della Casa civile, lo scorso 17 marzo. La Presidente Dilma Rousseff chiude il suo breve discorso con una frase emblematica: “i golpe iniziano così”. Il riferimento è all’indagine “Lava jato” che vede coinvolto Lula in un gigantesco caso di corruzione e all’intercettazione di una telefonata nella quale Dilma dice a Lula che gli sta mandando l’atto (di ministro), aggiungendo: “usalo solo in caso di necessità”. Per l’opposizione è la prova che la designazione di Lula intende sottrarlo all’arresto, Dilma ha invece spiegato che la nomina risponde a criteri esclusivamente politici e che il documento della frase incriminata era l’atto ufficiale firmato dallo stesso Lula, da esibire in caso non potesse essere presente alla cerimonia di giuramento a causa del ricovero della moglie per problemi di salute.
Seguiremo la vicenda nelle prossime settimane ma il dato di fondo è la guerra politica che si è scatenata da tempo nel paese. La stabilità istituzionale è a rischio. Tre fattori che si intrecciano in questo scenario sono la recessione economica, il ritorno in primo piano della corruzione ed il profondo debilitamento del governo Rousseff. Pur non negando questi problemi, secondo molti è in corso una manovra antidemocratica delle oligarchie per sfrattare la sinistra (una sinistra moderata), al potere dal 2003, prima con Lula e poi con Dilma. Ne è un esempio, tra i tanti, la lettera internazionale di sostegno a Lula pubblicata dal famoso teologo della liberazione Leonardo Boff, nella quale si esprime “indignazione di fronte a gruppi provenienti dal vecchio ordine, [che cercano] di distruggere la leadership di Lula e distruggerlo come persona, in un tentativo di tornare a quel potere centrale che mai si è preoccupato del destino di milioni di cittadini relegati alla marginalità, alla povertà e alla morte prematura”.
Certamente il peggioramento della situazione economica esaspera la popolazione ed erode il consenso popolare. Nel 2015 la contrazione del PIL è stata del 3,7% (fonte), il peggior risultato in 25 anni, con una perdita di 1,5 milioni di posti di lavoro. Sono aumentati simultaneamente l’inflazione, il deficit fiscale ed il debito pubblico (65% del PIL nel periodo 2008-2015, il più alto dell’America Latina; fonte). Tende a diminuire la spesa pubblica (mentre cresce quella destinata al debito) e le entrate derivanti dalle imposte sui redditi (-6,1% nel 2015; fonte), in un paese con una pressione fiscale già elevata. La situazione attuale e le prospettive economiche sono motivo di preoccupazione per la pace sociale, tenuto conto anche delle forti diseguaglianze ancora esistenti (l’1% più ricco della popolazione detiene il 25% della ricchezza nazionale; fonte) e delle aspettative di avanzamento sociale di milioni di persone che proprio grazie alle politiche degli ultimi 15 anni sono uscite dalla povertà.
Il governo di Dilma Rousseff non ha saputo o non ha potuto fra fronte ai problemi dell’economia, complice (ma si tratta di una concausa) un contesto internazionale sfavorevole, con la caduta della domanda dei beni manifatturieri e dei prezzi delle materie prime (per un’analisi, vedi qui). Il clima politico avvelenato certamente contribuisce a generare il clima meno propizio per ricercare una via d’uscita alla crisi. La credibilità del governo e di tutte le forze politiche è ai minimi storici anche per l’inchiesta avviata nel 2014 sulle tangenti per migliaia di milioni di dollari versate dall’impresa statale Petrobras a imprenditori e politici, uno scandalo che non ha precedenti nel paese. Nessuno nega, a questo punto, il coinvolgimento di settori del partito di governo. Grandi manifestazioni popolari contro il governo, e qualcuna a favore, mostrano che la tensione ha raggiunto livelli altissimi. La stessa Presidente Dilma affronta un procedimento di impeachment per presunta alterazione del bilancio dello Stato. Qualche giorno fa si è insediata una commissione di 65 deputati che dovrà decidere se ci sono i presupposti giuridici per andare avanti con il processo. L’immissione di Lula nelle file della squadra ministeriale sembra a questo punto l’ultima carta per salvare il salvabile, per rinforzare le file della maggioranza e blindare Lula.
La situazione sembra essere sfuggita di mano ed il governo ha già perso pezzi importanti della sua compagine. Anche il principale alleato Partido del Movimiento Democrático Brasileño è vicino alla rottura. Il vicepresidente della Repubblica, esponente di questo partito, ha negato di star lavorando alla formazione di un nuovo governo, ma la smentita è già rivelatrice della possibilità di frantumazione della coalizione.
L’aggravamento dello scontro politico, se dovesse spostarsi nelle piazze, sarebbe lo scenario peggiore. Tuttavia il superamento della recessione economica ed il risanamento della politica sono processi che richiedono tempo. Ed il governo non ha tempo, mentre le opposizioni paiono decise ad approfittare del momento, dopo 4 sconfitte elettorali consecutive.
Al di là degli sbocchi della crisi, l’implicazione di Lula dello scandalo Petrobras, vera o costruita ad arte che sia, è l’immagine della fine di un’epoca in Brasile. Lula non è stato solo un brillante uomo di governo, Lula rappresenta una svolta storica del paese. E’ un simbolo nazionale ed internazionale come lo statista che per la prima volta ha messo i poveri al centro dell’agenda pubblica. Lo scorso settembre sono intervenuto ad un seminario in Paraguay inaugurato da Lula. Voglio ricordare alcune delle sue parole: “E’ vero che io potrei fare un ponte, una strada, ma tra occuparmi di 54 milioni di persone che stanno patendo la fame e fare una strada, una strada può aspettare che queste persone mangino, siano forti e aiutino a costruirla. Se facessi una strada, queste persone morirebbero di fame prima di vederla terminata. E’ molto difficile trovare qualcuno nel settore delle Finanze o del Tesoro che sia disposto a dare questo contributo a quelli che stanno sotto. Non è una politica di elemosine, di compensazione, è un diritto”.
Ecco, Lula ha tracciato il passaggio dalle politiche di abbandono degli esclusi alle politiche fondate sul diritto a condizioni dignitose di vita. Nel periodo tra il 2001 e il 2014 sono migliorati tutti gli indicatori sociali. L’incidenza della povertà è passata dal 37,5% al 16,5%, quella dell’indigenza dal 13,2% al 4,6% (fonte). Da qui la sua grande popolarità in Brasile e in tutta l’America Latina. Per questo sembra impensabile che si sia arricchito illecitamente. Tuttavia resta il fatto che il progetto progressista pro-eguaglianza sociale avviato da Lula ha perso slancio, ha perso consistenza, e non convince più le grandi masse popolari colpite dai pesanti effetti della crisi economica. Dilma ed il partito di Lula non godono più del sostegno che lo stesso Lula aveva lasciato in eredità dopo due mandati.
Siamo in presenza di un cambiamento di ciclo storico in Brasile, ma lo stesso sembra avvenire in altri paesi dell’America Latina. In Argentina le ultime elezioni hanno insediato al potere un governo de centrodestra dopo 12 anni di kirchnerismo. In Venezuela le opposizioni agglomerate nella Mesa de la Unidad Democrática hanno trionfato nelle elezioni legislative, segnando la prima sconfitta politica del regime bolivariano. Il referendum in Bolivia di febbraio ha negato al Presidente Evo Morales la possibilità di candidarsi per la quarta volta consecutiva. La Presidenta cilena Michelle Bachelet ha chiuso il 2015 con il più basso livello di consensi degli ultimi 9 anni.
Il vento non sta più spirando a favore della sinistra, sia di quella socialdemocratica sia di quella populista. Anche perché si è esaurita la stagione in cui il positivo trend dell’economia e i maggiori investimenti nel sociale andavano di pari passo. Dal 2012 i progressi sociali della regione hanno subito una battuta d’arresto. L’economia, dopo un decennio d’oro di crescita ininterrotta, è stata colpita duramente dal rallentamento causato dal crollo della domanda e dei prezzi internazionali delle merci. La situazione attuale è molto più complessa di qualche anno fa. Nella regione si assiste ad un abbassamento delle entrate fiscali, sia per la decelerazione che per l’esigenza di contenere il deficit, che nel 2015 ha raggiunto il 3% del PIL (fonte). Nel 2014, ben 11 economie latinoamericane hanno visto una contrazione del gettito fiscale (fonte). Le previsioni per il 2016 parlano di una modesta crescita dello 0,2% dell’America Latina e i Caraibi (- 0,8% in America del Sud, + 4,3% in Centroamerica), non discostandosi significativamente dal risultato del 2015, con una contrazione dello 0,4% (fonte).
Ma le difficoltà di rindirizzare l’economia non spiegano tutto. L’altro ingrediente che si amalgama generando una miscela esplosiva è la corruzione, e gran parte della popolazione non è più disposta a tollerarla, anche perché i progressi sociali non hanno comunque ridotto significativamente le diseguaglianze. Non che il fenomeno della corruzione sia nuovo. La differenza sta che in tempi di bonanza economica vi era maggiore sopportazione, maggiore accondiscendenza. Tornando al Brasile, il discredito della classe politica (al governo e all’opposizione) e delle istituzioni fa parte di questa miscela esplosiva. La vicinanza ad un partito è la più bassa dell’America Latina (fonte) e soltanto il 20% della popolazione si dice soddisfatta del funzionamento della democrazia. Solo il 16,6% ritiene che lo Stato sia molto (2,2%) o un po’ (14,4%) trasparente, ma un altro dato allarmante riguarda la fiducia interpersonale (7%), la più bassa in tutta l’America Latina (17%).
In Brasile la crisi è economica, politica, istituzionale, sociale, civile e morale. Scrive un noto latinoamericanista italiano che “Da un paio d’anni, il Brasile fiero e vincente, che aveva ottenuto in un sol colpo la Coppa del Mondo di calcio e le Olimpiadi, è praticamente scomparso. […] un paese «benedetto da Dio per la sua natura» […], paga ancora un elevato prezzo alla storia coloniale, durante la quale si formarono i ceti sociali, la struttura della proprietà e i poteri che continuano a dettare legge in uno Stato ricchissimo eppure maledettamente pieno di poveri. […] In Brasile è in atto una guerra tra poteri, ma il dato di fondo è vero: il sistema brasiliano è profondamente inquinato da connivenze illegali e la maggiore sconfitta del presidente-operaio [Lula] è stata quella di non essere riuscito, o di non avere voluto, voltare pagina con le urgenti riforme di cui ha bisogno un paese eterno candidato a far parte del ristretto club delle potenze globali.”
Intanto, mentre chiudo questo post, leggo sulla stampa il discorso pronunciato ieri (22 marzo) da Dilma Roussef ribadendo che non rinuncerà mai al mandato: “Pode-se descrever um golpe de Estado com muitos nomes, mas ele sempre será o que é, a ruptura da legalidade, um atentado à democracia, não importa se a arma do golpe é o fuzil, a vingança ou vontade de alguns de chegar mais rápido ao poder”.
Questa parola – golpe – doveva appartenere alla storia: il momento è drammatico, come ho scritto all’inizio. Sono però convinto che il Brasile lo supererà, pure se non in modo indolore. Prima o poi il Brasile riuscirà a diventare anche quella potenza globale che aspira da sempre ad essere, quasi fosse una vocazione naturale. A noi interessa il suo destino per diverse ragioni, tra cui i legami storici con l’Italia, non da ultimo perché le sue dimensioni e la sua collocazione geostrategica lo rendono un paese fondamentale per la futura governance regionale e mondiale.
Contributo scritto per Hic Rhodus da Francesco Maria Chiodi Esperto di politiche sociali e del lavoro. Lavora presso l’Istituto Italo Latinoamericano