Esistono una verità scientifica e una verità giuridica?

Il 21 giugno scorso, la Corte di Giustizia europea ha emesso una sentenza relativamente a un interpello della Corte di Cassazione francese che deve esaminare un ricorso presentato dai familiari di un cittadino francese (indicato come il sig. W) colpito da Sclerosi Multipla e poi deceduto. Dato che questa sentenza ha avuto notevole risonanza (v. i relativi articoli su Repubblica, ANSA, Fatto Quotidiano, ecc.), e stabilisce un precedente che trovo estremamente rilevante, penso sia utile parlarne sia per chiarirne con precisione i termini (cosa che i nostri resoconti giornalistici a mio avviso non sempre fanno, tranne in qualche buon commento come questo su Repubblica), sia per discuterne le implicazioni.

I fatti: dopo diversi passaggi giudiziari, la Corte d’Appello francese aveva respinto la richiesta di risarcimento contro la Sanofi Pasteur, chiamata in causa perché alcuni mesi prima dell’insorgere della malattia il defunto era stato sottoposto a un ciclo di vaccinazioni contro l’epatite B, e i ricorrenti sostenevano che questa circostanza fosse stata la causa del male che aveva colpito il loro congiunto. La motivazione di questa sentenza (come riportata da quella della Corte europea) era che non c’era nessuna buona ragione scientifica per stabilire un rapporto di causa ed effetto:

[…] non vi era consenso scientifico a favore dell’esistenza di un nesso di causalità tra la vaccinazione contro l’epatite B e l’insorgenza della sclerosi multipla, e che l’insieme delle autorità sanitarie nazionali e internazionali ha escluso l’associazione tra la probabilità di essere colpiti da malattia demielinizzante centrale o periferica (caratteristica della sclerosi multipla) e tale vaccinazione. Esso ha affermato, in secondo luogo, che da molteplici studi medici emergeva che l’eziologia della sclerosi multipla è attualmente sconosciuta. In terzo luogo, una recente pubblicazione medica avrebbe concluso che, alla comparsa dei primi sintomi della sclerosi multipla, il processo fisiopatologico ha probabilmente avuto inizio diversi mesi, o addirittura diversi anni, prima. In quarto luogo, e da ultimo, detto giudice ha rilevato che studi epidemiologici indicavano come dal 92 al 95% delle persone colpite dalla suddetta malattia non avessero precedenti di tale tipo nelle loro famiglie. Alla luce di questi elementi, la cour d’appel de Paris (Corte d’appello di Parigi) ha concluso che i criteri della prossimità temporale tra la vaccinazione e i primi sintomi e della mancanza di precedenti personali e familiari fatti valere da W e a. non potevano costituire, insieme o separatamente, presunzioni gravi, precise e concordanti che consentivano di ravvisare la sussistenza di un nesso di causalità tra la vaccinazione e la malattia considerate.

Ebbene, la Corte europea, rispondendo alla richiesta della Corte di Cassazione francese ha stabilito che un giudice può, “nonostante la constatazione che la ricerca medica non stabilisce né esclude l’esistenza di un nesso tra la somministrazione del vaccino e l’insorgenza della malattia da cui è affetto il danneggiato”, valutare in autonomia se esistano “indizi gravi, precisi e concordanti i quali consentono di ravvisare la sussistenza di un difetto del vaccino e di un nesso di causalità tra detto difetto e tale malattia” e, in questo caso, deliberare la responsabilità della casa produttrice.

Una seconda, e non meno rilevante, valutazione contenuta nella sentenza è che, nello specifico caso in esame, le ragioni addotte dai familiari di W appaiono essere effettivamente basate su indizi rilevanti:

[…] elementi come quelli dedotti nella causa principale e legati alla prossimità temporale tra la somministrazione di un vaccino e l’insorgenza di una malattia nonché alla mancanza di precedenti personali e familiari correlati a tale malattia, così come l’esistenza di un numero significativo di casi repertoriati di comparsa di tale malattia a seguito di simili somministrazioni, sembrano a prima vista costituire indizi la cui compresenza potrebbe, eventualmente, indurre un giudice nazionale a ritenere che un danneggiato abbia assolto l’onere della prova su di lui gravante ai sensi dell’articolo 4 della direttiva 85/374. Così potrebbe essere, in particolare, nel caso in cui detti indizi conducano il giudice a ritenere, da un lato, che la somministrazione del vaccino costituisce la spiegazione più plausibile dell’insorgenza della malattia e, dall’altro, che tale vaccino non offre quindi, ai sensi dell’articolo 6 di tale direttiva, la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze, in quanto esso determina un danno anomalo e particolarmente grave al paziente

Ora, sgombriamo subito il campo dal “tema vaccini”: per quanto sicuramente decisivo nel porre questa sentenza sotto i riflettori dei media social e no, il fatto che l’evento preso in esame come possibile causa fosse una vaccinazione è irrilevante ai fini del ragionamento che ho intenzione di fare. Certo, personalmente sono convintamente dell’opinione che non esista criterio migliore per prendere delle decisioni in ambito sanitario che applicare le raccomandazioni dei migliori esperti dell’argomento e delle istituzioni che li raccolgono e coordinano; ma in questo caso la questione è altrove.

Partiamo dalla prima valutazione che ho citato, e che poi è il vero contenuto “interpretativo” della sentenza: quando “la ricerca medica [ma nel caso generale scientifica, N.d.R.] non stabilisce né esclude l’esistenza di un nesso”, il giudice può formarsi un proprio convincimento autonomo in base a “indizi gravi, precisi e concordanti” e, quindi, stabilire ai fini giudiziari l’esistenza di quel legame causale su cui la scienza non si pronuncia. La Corte osserva che è vero che l’onere della prova spetta al ricorrente, ma che in sostanza non si può pretendere che tale prova consista necessariamente in una prova scientifica, che peraltro potrebbe non esserci. Insomma, “uno standard probatorio di tale grado, che finirebbe con l’escludere ogni modalità di prova diversa dalla prova certa tratta dalla ricerca medica, avrebbe l’effetto di rendere in un numero elevato di situazioni eccessivamente difficile o impossibile l’affermazione della responsabilità del produttore”. La responsabilità civile, insomma, non si basa solo sulla “prova certa”, quale potrebbe essere quella scientifica, ma anche su “indizi” che, non probanti per la scienza, possono invece essere sufficienti per il giudice. Altrimenti, si comprende, si finirebbe per delegare l’amministrazione della giustizia alla scienza, e, ove questa non emettesse il suo “verdetto”, ci sarebbero troppi danneggiati impossibili da risarcire.

Ha torto, la Corte? Può essere accusata di “sciamanesimo”, come riporta in un suo titolo il Foglio? La mia opinione, da persona più ricca di cultura scientifica che giuridica, è che questo parere sia ragionevole, ma:

  1. lo è solo quando la scienza non offre importanti evidenze a favore o contro il nesso causale ipotizzato;
  2. pone in carico al giudice una valutazione difficilissima, che implica comunque, di fatto, pronunciarsi su un’ipotesi di contenuto scientifico là dove gli scienziati non hanno preso posizione.

Ritengo che, proprio per questi motivi, paradossalmente una simile valutazione richieda al giudice una profonda cultura scientifica. E a dimostrarlo plasticamente giova la seconda valutazione che ho citato, e che strettamente parlando non ha valore dispositivo, ossia il fatto che nel caso in esame per la Corte europea sia almeno plausibile che il giudice possa decidere a favore dei ricorrenti, perché (sintetizzo) la medicina non dà risposte certe e gli indizi gravi e concordanti ci sono.

E invece è vero esattamente l’opposto: da un lato, la scienza medica dà risposte sufficienti a respingere l’ipotesi, e dall’altro gli indizi proposti a sostegno non sono né gravi, né precisi, né convergenti. E il fatto che la Corte, entrando nel merito, prenda una simile cantonata non è casuale, ma è il segno della mancanza di cultura scientifica dei giudici, che li rende incapaci di esprimere un giudizio corretto. Vediamo perché:

  1. “la ricerca medica non stabilisce né esclude un nesso”: come fa la Corte ad asserire questo? La medicina considera la SM una malattia a eziologia multifattoriale, il che significa che ci sono diverse cause concomitanti, non necessariamente tutte note, ma tra queste non ci sono i vaccini. E allora come fa la Corte a sbagliarsi così grossolanamente? Perché evidentemente ritiene che un’indicazione certa la scienza possa offrirla solo quando abbia ricostruito incontrovertibilmente tutti i rapporti di causa ed effetto che riguardano un fenomeno, e che solo così si possa escludere con sicurezza che A sia causa di B.
    Ma quest’idea rispecchia una concezione della “verità scientifica” radicalmente errata; come sa chi comprende la scienza moderna, la verità scientifica è sempre e comunque una verità statistica, che lascia sempre un margine di possibile errore. La scienza non dirà mai che la probabilità che un vaccino provochi la SM sia zero; sulla base di numerose osservazioni, potrà dire che è, poniamo, inferiore all’ 1%. Tutte le “verità scientifiche” sono di questo tipo, e se gli scienziati le accettano non vuol dire che non sappiano che si tratta di una scelta probabilistica. Nel caso in questione, il “consenso scientifico” esiste, ed è che i vaccini non causano la SM; ma questo non significa che la probabilità che questo accada sia zero. Non può essere zero, e se lo fosse noi non potremmo mai stabilirlo.
  2. “gli indizi sono gravi, precisi e concordanti”: ma quali sono gli indizi? In primo luogo, l'”eccellente stato di salute” del sig. W prima dell’insorgere della SM; in secondo luogo, il fatto che nessun suo familiare sia o sia stato affetto dalla malattia; in terzo luogo, la “prossimità temporale” tra la somministrazione del vaccino e la malattia. Ma sono davvero indizi degni di attenzione, questi? Per rispondere mi aiuterò con informazioni prelevate dal sito dell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla.
  • Quanto allo stato di salute prima dell’insorgere della malattia, mi sentirei di dire che questo non ha nessuna rilevanza. Ne avrebbe se esistesse una correlazione causale tra altre malattie e la SM, ma non è così. È possibile che tra le concause della SM vi siano anche alcune infezioni virali, ma queste possono essere asintomatiche e verificarsi anche anni prima che si manifestino i sintomi della SM, anzi addirittura nei primi anni di vita. Quindi dire che prima di vaccinarsi, e poi di mostrare sintomi di SM, il signor W stava bene non significa assolutamente niente.
  • Quanto all’assenza di familiarità, anche questo è un indicatore molto poco significativo. È vero che i familiari di un ammalato di SM hanno una probabilità di ammalarsi più alta degli altri, ma la differenza è molto ridotta: è normalissimo che un malato non abbia nessun altro caso in famiglia.
  • Quanto alla prossimità temporale, vale la pena di osservare che la vaccinazione in questione è stata somministrata in tre dosi, tra il dicembre 1998 e i primi di luglio del 1999; il sig. W avrebbe cominciato a mostrare sintomi poco chiari ad agosto 1999, mentre la SM gli fu diagnosticata nel novembre 2000. Ora, anche considerato che i tempi di insorgenza della SM sono lunghi e variabili, a me pare chiaro che una consequenzialità temporale “precisa” non c’è, a meno di dare già per assodato quello che si dovrebbe dimostrare, e cioè il rapporto causale.

Insomma: la Corte, con le sue considerazioni, esemplifica con chiarezza i pericoli generati dalla sua stessa sentenza.  Per capirli ancora meglio, vorrei proporvi una storiella.

Immaginiamo che un vostro conoscente in apparente perfetta salute venga a trovarvi a casa, e che voi gli offriate un tè; chiacchierate del più e del meno e vi salutate, ma dopo un paio d’ore il vostro ospite viene colpito da un infarto e muore. La vedova vi fa causa per danni, sostenendo che l’infarto del marito sia stato provocato dal vostro tè.

È possibile escludere matematicamente che sia così? Ora, noi sappiamo che la scienza medica non attribuisce al tè la proprietà di provocare l’infarto, ma siamo sicuri che sia impossibile che quel tè abbia provocato quell‘infarto? Ovviamente no; dato che il tè è una bevanda comune, esistono studi statistici sui suoi effetti, ma una certezza non è possibile averla. D’altra parte esiste una generica correlazione temporale (ma cos’altro ha fatto il vostro conoscente prima e dopo avervi fatto visita?), e, ipotizziamo, il fatto che quel signore non aveva alcun precedente di sofferenza cardiaca, né personale né familiare. Essenzialmente gli stessi indizi “gravi e concordanti” che vedevamo prima.
Ora, io credo che nessun giudice vi condannerebbe. Diverso sarebbe, forse, se voi coltivaste una pianta rara in giardino, e al visitatore aveste offerto un infuso di quella pianta. In quel caso, probabilmente davvero non avremmo nessun dato scientifico sugli effetti di quell’infuso, e allora il giudice dovrebbe effettivamente formarsi un’opinione partendo dai fatti disponibili.

Ma se dovessimo ragionare come nella sentenza della Corte europea, allora per voi sarebbero guai, perché certamente non conosciamo tutte le possibili cause d’infarto, e non possiamo attribuire univocamente ogni attacco cardiaco a una di esse; vi trovereste nella stessa situazione descritta sopra. Quindi, mi spiace, ma fintanto che ci sono giudici come quelli della Corte, conviene che facciate attenzione a chi invitate a prendere un tè.