Ebbene sì: qualche giorno fa ho ingaggiato una garbata ma radicale polemica linguistica con la dottoressa Vera Gheno, docente a contratto presso l’Università di Firenze e ricercatrice presso l’Accademia della Crusca, di cui gestisce l’account Twitter. Direte voi: la presunzione di Ottonieri ha raggiunto l’impensabile, e potreste aver ragione: a che titolo mi sono imbarcato in una simile diatriba? Ecco, è appunto questo che penso possa essere interessante raccontare, non tanto relativamente alla questione linguistica di cui si parlava, ma a proposito del ruolo dell’Accademia e, in generale, delle élite intellettuali in Italia.
Andiamo con ordine. L’antefatto è una recente visita della Presidente della Camera Laura Boldrini alla sede dell’Accademia della Crusca, occasione nella quale la terza carica dello Stato ha ovviamente ribadito la sua nota pretesa di dettare le regole per l’uso dei termini che indicano le cariche pubbliche quando rivestite da una donna: “Perché è difficile dire ‘ministra’? Noi donne vogliamo rispetto anche nel linguaggio”. Cioè: secondo la Boldrini, non è la storia della lingua, ma lo status delle donne a dover determinare quali parole si debbano usare.
Non imprevedibilmente, nessuna obiezione a questa pretesa è giunta dagli Accademici padroni di casa. Obiezioni piuttosto pepate devono invece essere pervenute da comuni cittadini, se appunto la professoressa Gheno, qualche giorno dopo, ha pubblicato un post su Facebook nel quale ha stigmatizzato l’“infuriare di una polemica” con toni “assurdamente violenti”. Nel merito, però, il post della professoressa non entrava: come nelle parole della Boldrini, la grande assente delle sue considerazioni era la lingua italiana. Questa è stata la ragione per cui, leggendo casualmente il post, l’ho commentato, dissentendo non già dalla valutazione sull’inaccettabilità di certi commenti (che do ovviamente per scontata senza bisogno di averli letti direttamente) bensì per chiedere che almeno da parte della Crusca quando si ragiona di questioni linguistiche si ricorra ad argomenti linguistici e non a considerazioni di “correttezza politica”. Ho aggiunto la mia opinione, e cioè che nei casi in cui per indicare una carica o una professione non esista nell’uso una doppia forma (come professore/professoressa), il genere del sostantivo che si usa non implichi alcunché circa il sesso della persona che il sostantivo indica, come potrebbero testimoniare guardie giurate o guide alpine maschi, che non hanno mai preteso di essere chiamati, che so, ‘guardiani giurati’ o ‘conduttori alpini’. E meno male.
Ora, mi direte, la professoressa con cui discutevi, data la disparità delle vostre conoscenze in materia, ti avrà garbatamente annientato a colpi di grammatiche dal Seicento a oggi. E invece no (sebbene anch’io sappia che ministra è attestato ecc. ecc.): la professoressa Gheno, sempre molto cortesemente, mi ha risposto che lei stava parlando di costume (la rissosità dei commentatori) e non di analisi linguistica; e mi ha rinviato a un altro suo postun po’ più “linguistico”. Da esso prelevo un passaggio emblematico:
Esiste una manciata di casi di nomi professionali al femminile anche per referenti di genere maschile: guardia, sentinella, vedetta. Anche qui, ci sono dietro ragioni storiche. Ma soprattutto, dubito che qualche guardia di sesso maschile si sia mai sentita discriminata perché definita da un nome di genere femminile: anche in questo caso, il sistema non è, appunto, perfettamente simmetrico. Ma sono pochi casi, che non inficiano il discorso fatto sopra. Soprattutto, rivendicazioni in tale senso non avrebbero, alla fine, niente a che fare con la questione inversa: il problema della posizione delle donne nel mondo del lavoro c’è ed è inutile far finta che non ci sia.
Come si vede, e il resto del post non è molto diverso, anche qui non si fa alcuna considerazione linguistica: il vero criterio invocato per stabilire alla fin fine quale sia la lezione preferibile è politico (in senso lato, ovviamente). Dato che le ‘guardie’ di sesso maschile non si sentono discriminate, e i Ministri di sesso femminile sì (e qui glissiamo per senso delle istituzioni), ‘guardia’ per un uomo va bene, e ‘Ministro’ per una donna non va bene.
Naturalmente, non vi sorprenderà sapere che ho garbatamente insistito che simili considerazioni sono linguisticamente irrilevanti, e che tali dovrebbero apparire innanzitutto alla Crusca. Senza perdere la pazienza con questo seccatore, la professoressa mi ha ricordato che quel post era “linguistico” tra virgolette, e (sintetizzo) mi ha rinviato ad altre fonti: i vocabolari, e lo Zingarelli in particolare, che recepiscono i termini femminili come ingegnera e ministra; una nota pubblicata nel 2013 sul sito della Crusca a firma della professoressa Cecilia Robustelli (a cui ironicamente una pagina dell’Università di Modena e Reggio Emilia attribuisce la qualifica di Professore Associato); un documento, Donne, grammatica e media, sempre a firma della Robustelli, tutto dedicato a quest’argomento e impreziosito dalla prefazione di Nicoletta Maraschio, presidente onoraria dell’Accademia.
Ora, leggiamo un passo della nota della professoressa Robustelli:
In Italia numerosi studi […] hanno messo in evidenza che la figura femminile viene spesso svilita dall’uso di un linguaggio stereotipato che ne dà un’immagine negativa, o quanto meno subalterna rispetto all’uomo. Inoltre, in italiano […] la donna risulta spesso nascosta “dentro” il genere grammaticale maschile, che viene usato in riferimento a donne e uomini (gli spettatori, i cittadini, ecc.). Frequentissimo è anche l’uso della forma maschile anziché femminile per i titoli professionali e per i ruoli istituzionali riferiti alle donne: sindaco e non sindaca, chirurgo e non chirurga, ingegnere e non ingegnera.
Quindi, il punto non è che nella lingua italiana non si dica correttamente ‘sindaco’ o ‘chirurgo’ anche per indicare una donna: la professoressa non solo lo sa, ma lo sottolinea! Il punto è che è una cosa negativa, che ostacola le pari opportunità. La professoressa Robustelli, infatti, è così poco persuasa delle sue ragioni da utilizzare l’espediente di screditare eticamente le obiezioni altrui, che “sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale [una cultura insidiosamente sessista e retriva, intendiamo, N.d.R.]; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso, fondatamente linguistiche” (frase che è facile tradurre in “dato che non ho buoni argomenti linguistici, rivendico una superiorità etica della cultura che rappresento con la mia opinione”). Ecco quindi che, di fronte a queste “resistenze ad adattare il linguaggio alla nuova realtà sociale” (sic), si evoca la proposta di “avviare percorsi formativi sulla cultura di genere come presupposto per attuare una politica di promozione delle pari opportunità”. Rieduchiamo, insomma, costoro che hanno la pretesa di parlare italiano per amore dell’italiano, anziché accettare di considerare la nostra lingua un utile strumento per promuovere le pari opportunità. E, per non essere troppo prolisso, evito di riportare qui brani della citata prefazione di Nicoletta Maraschio, tutta dedicata all’auspicio che l’italiano finalmente cessi di “trasmettere una visione del mondo superata” e anzi contribuisca ad “accelerare il cambiamento in senso migliorativo”. Nientemeno.
Ora, tutto ciò non mi avrebbe certo indotto a scrivere un post, se queste considerazioni tutte politiche (in senso ampio) non venissero dall’Accademia della Crusca. La stessa Accademia che, come mi ha ricordato la stessa Gheno, “studia, osserva, consiglia, ma non ha nessun ruolo di guida”, o non più che le grammatiche e i vocabolari. E, altrove, la professoressa, oltre a sollevare virtualmente il sopracciglio quando ho parlato di “difendere” l’integrità della lingua (inorridiamo al pensiero), aveva scritto, finalmente tranchant: “la bruttezza non è un concetto linguistico”. Insomma: la Crusca non “difende” la lingua (Dio ne scampi), considera irrilevanti le considerazioni sulla sua bellezza ed eleganza, ricusa il ruolo di guida in materia di uso della lingua, perché “la norma viene modificata dall’uso e non viceversa”, e, infine, si guarda bene dall’opporre alle ragioni della politica quelle della lingua; anzi, se mai è disposta ad abbandonare questa pretesa di neutralità per sposare una causa, è proprio per quella che dovrebbe osteggiare: piegare la lingua alle convenienze sociopolitiche, eufemisticamente definite “culturali”. Ma allora, che il dio della linguistica mi perdoni, a che diavolo serve questa benedetta Accademia della Crusca?
Perché, capiamoci, sui femminili delle cariche pubbliche e delle professioni le posizioni che ho citato non sono certo folli, anche se, ripeto, sono, come ho cercato di illustrare, a mio avviso sbagliate e dettate esclusivamente da preferenze extralinguistiche; il vero problema è che la Crusca rifiuta recisamente di essere l’unica cosa che ne giustifica (o ne giustificherebbe) l’esistenza agli occhi dei cittadini: non già un ennesimo Dipartimento di Linguistica, ma un’autorità, se non l’Autorità, sulla lingua italiana, che operi attivamente tra l’altro anche per custodirne e arricchirne il valore e il pregio, favorirne la conoscenza autentica, evitarne l’abuso e il maltrattamento che oggi sono ahimè così diffusi. In una parola volutamente enfatica: la paladina della Bellezza della nostra lingua, ossia proprio di quella irrilevante caratteristica che per la professoressa Gheno non fa conto prendere neanche in considerazione. In fondo, lo Statuto della Crusca ne individua il “compito essenziale” nel “sostenere la lingua italiana, nel suo valore storico di fondamento dell’identità nazionale, e promuoverne lo studio e la conoscenza in Italia e all’estero”. “Sostenere”, non “osservare, studiare, catalogare…”, verbi da timidi notai e non da paladini. “Promuoverne” lo studio, non “attenersi” allo studio. E certamente non “asservire alla correttezza politica”, che è tra i peggiori nemici della nostra lingua e produce continuamente espressioni “diversamente belle”. E peraltro, se parliamo di promuovere lo studio dell’italiano, non ignorano certo gli Accademici che se un numero sorprendentemente alto di persone nel mondo studia la nostra lingua non è perché sia utile, o espressione di una cultura politicamente corretta: ma perché è bella. Come riporta uno degli articoli online sul perché la nostra sia la quarta lingua più studiata al mondo, l’italiano, come l’Italia in generale, è un simbolo di bellezza:
“What’s the point of learning Italian? What’s the point of watching the sun set over the Ponte Vecchio? What’s the point of admiring Michelangelo’s works of art? What is the point of love? What is the point of breathing? What is the point of living?”
[A che serve imparare l’italiano? A che serve contemplare un tramonto su Ponte Vecchio? A che serve ammirare l’arte di Michelangelo? A che serve l’amore? A che serve respirare? A che serve vivere?]
Vorrei dunque di nuovo una Crusca come quella d’un tempo, criticata anche dai nostri maggiori poeti, che tentava di ingessare una lingua allora solo letteraria ancorandola agli esempi dei maestri dell’aureo Trecento fiorentino? No, ovviamente: vorrei una Crusca che, con mezzi e sensibilità moderni, si ponesse però l’obiettivo di essere un punto di riferimento con la finalità, infine, di far sì che l’italiano che usiamo sia più integro, corretto, appropriato e, ebbene sì, belloche se l’Accademia non esistesse.
Se è vero (ed è vero) che noi cittadini comuni ci attenderemmo questo, non così intende il suo ruolo l’Accademia: solo per fare un esempio qualsiasi tra mille, quando al servizio di Consulenza linguistica della Crusca giunge una richiesta di chiarimento su “quale sia il verbo per indicare l’operazione di acquisizione di immagini con uno scanner”, la risposta, in sintesi, è: è attestato l’uso di “scandire, scannare, scannerare, scannerizzare, e anche eseguire una scansione e scansionare”, e, quindi, “massima libertà di scelta”. Ora, io so benissimo che questa “non normatività” è parte della definizione stessa della Linguistica contemporanea (prendendone una a caso: “La Linguistica è una disciplina non normativa ma descrittiva, lo studio scientifico del linguaggio”); ma è mai possibile, santi numi, che la Crusca non tenti minimamente di convincere i suoi lettori a non dire, e soprattutto scrivere, ‘scannerizzare’ o addirittura ‘scannare’ (!!!), quando ‘scandire’ ha, originariamente, esattamente il significato desiderato?
Ebbene, se le cose stanno così, liberiamoci dell’Accademia. I pochi spiccioli che essa costa allo Stato vadano nell’acquisto di vocabolari e grammatiche per le scuole, giacché a essi i neghittosi Accademici delegano l’ultima linea di difesa dell’italiano dalla barbarie. Che le stanze del nobile palazzo che l’ospita restino vuote, precluse così almeno alle intrusioni dei politici che vogliono strumentalizzare la nostra lingua ai loro scopi, con l’applauso degli Accademici stessi. Se “deregolamentazione” ha da essere, se la risposta a un quesito sulla lingua si ottiene contando i risultati di Google Search, se anche in questo campo si vuole adottare il principio per cui “uno vale uno”, che almeno ci si liberi da simili notai, pusillanimi e tifosi del politically correct. Di un’élite intellettuale abbiamo bisogno come il pane, a patto però che s’assuma la responsabilità di leadership che le compete, anche nei confronti della politica.