Magari per le prime pagine dei giornali è già roba vecchia, ma i mercati hanno memoria più lunga: da quando il “caso Cambridge Analytica” è venuto alla luce, le azioni di Facebook hanno continuato a perdere valore, tanto vertiginosamente quanto erano salite fino allo scorso febbraio. Guardate questo grafico, preso da un articolo del New York Times: dai valori massimi raggiunti appunto a febbraio, la capitalizzazione di Borsa di Facebook è calata di circa 100 miliardi di dollari. Mica noccioline, no?
Ma cominciamo, come nelle migliori tradizioni, con un riassunto delle puntate precedenti. Sebbene fossero circolati sospetti e ipotesi di manipolazione delle elezioni USA fin da praticamente subito dopo la vittoria di Trump, la vera “bomba” è esplosa quando Christopher Wylie, un analista dati ex collaboratore di Cambridge Analytica (che abbrevierò in CA), ha svelato il modo in cui la sua ex azienda (un’agenzia di consulenza politica all’epoca guidata da Steve Bannon, il noto esperto di comunicazione politica e consigliere di Donald Trump) aveva raccolto tramite Facebook i dati personali di 50 milioni di americani per poi usarli per una campagna politica “personalizzata” a favore di Trump. Cambridge Analytica era già stata indicata come “responsabile” (nel bene o nel male) di aver influenzato gli elettori impiegando le più avanzate tecnologie di intelligenza artificiale e Big Data per individuare esattamente quale messaggio far arrivare a quale elettore, e di aver usato Facebook sia per raccogliere informazioni per profilarne gli utenti, sia come canale per raggiungere ciascuno di essi con un messaggio il più possibile personalizzato.
Intendiamoci: si tratta esattamente delle stesse tecniche che i più moderni approcci di marketing impiegano per convincerci a comprare questo o quel prodotto, e anche per questo la cosa aveva suscitato interesse ma non propriamente scandalo, e sia Facebook che Cambridge Analytica non avevano subito conseguenze negative, a parte dover discutere i probabili coinvolgimenti della Russia nelle campagne a favore di Trump. La situazione per Facebook è precipitata appunto con le rivelazioni di Wylie, che ha reso noto che CA aveva usato un “test di personalità” su Facebook per raccogliere informazioni non solo su chi lo aveva usato, ma anche su tutta la rete di “amici” di ciascun utente, arrivando appunto a 50 milioni di profili. E, aggiungiamo, è importante essere consapevoli che, usando appunto le tecniche a cui accennavo sopra, si stima che bastino poche decine di like (a pagine, prodotti, ecc.) per costruire un profilo piuttosto attendibile di ciascuno di noi, anche relativamente a preferenze, come quelle politiche, che non sono esplicitamente incluse nei like analizzati. Insomma, questo affaire è un intreccio tra ricercatori, imprenditori, politici e governi di cui una parziale sintesi è riportata in questa infografica del Guardian:
Il problema è che a essere profilati sono stati in prevalenza utenti che non avevano espresso alcun consenso, anzi, che non avevano neanche usato l’applicazione incriminata. Questo ha posto Facebook sul banco degli imputati per aver consentito e anzi facilitato questo “rastrellamento” di dati, e molti personaggi (a partire da Jim Cook, il capo di Apple) e aziende hanno espresso pubblicamente critiche o si sono cancellati da Facebook, sventolando la bandiera di #DeleteFacebook. Le azioni di Borsa del più popolare social del mondo sono crollate, e Mark Zuckerberg è stato costretto a un post pubblico in cui, oltre a elencare i motivi per cui gli utenti dovrebbero continuare a nutrire fiducia in Facebook, ammette anche che la sua società ha commesso “errori” e fa ammenda. Fin qui, i fatti; vediamo ora di sottolineare alcuni punti importanti, per poi arrivare alle nostre personali conclusioni.
In primo luogo, CA, usando in questo modo i dati raccolti da Facebook, ha violato le regole fissate da Facebook stesso per limitare appunto abusi delle informazioni sugli utenti. In secondo luogo, è esperienza comune che quasi tutti gli utenti di Facebook utilizzano con leggerezza giochi o applicazioni del tipo “scopri che personaggio dei fumetti sei”, concedendo l’autorizzazione all’accesso ai propri dati senza sapere a chi, né se davvero l’uso di quei dati sarà conforme allo scopo dichiarato dell’applicazione. Infine, è vero che nel corso degli anni Facebook ha applicato maggiori controlli e restrizioni, per cui oggi lo stesso tipo di abuso sarebbe più difficile e meno efficace. Insomma, una posizione certamente ragionevole è: bisogna essere utenti consapevoli; Facebook ha delle regole e offre degli strumenti per gestire la propria privacy, ma se non siamo in primo luogo noi a proteggere i nostri dati, c’è poco da fare. Una linea di pensiero di questo tipo è illustrata ad esempio dall’ottimo Matteo Flora, un esperto di Internet e comunicazione che da tempo sottolinea i rischi di un uso superficiale e inconsapevole dei social, nel video qui sotto:
Come al solito, le considerazioni proposte da Matteo Flora sono ineccepibili, e seguire le sue raccomandazioni è sicuramente un’ottima cosa da fare. Eppure, stavolta sono convinto che alle parole di Flora sia necessario aggiungere qualcosa.
Come abbiamo scritto già anni fa, l’oro di Internet siamo noi. La ricchezza di Mark Zuckerberg, e di tutti gli azionisti dei social network, è sostanzialmente data dal valore dei dati che gestiscono, ossia dei nostri dati. Facebook non vende, in pratica, altro; e il valore di questi dati è, inevitabilmente, proporzionale al profitto che altri possono ricavarne (e, per inciso: ovviamente non è certo solo Facebook a far soldi con i nostri dati. Potete leggere questo interessante articolo su Valigia Blu per saperne di più). Facebook ha certamente un interesse a rispettare formalmente le regole e ad apparire preoccupato di proteggere la nostra privacy, ma in realtà se la proteggesse troppo efficacemente si darebbe la zappa sui piedi. Il vero interesse di Facebook è che i nostri dati possano essere usati per proporci la pubblicità più efficace possibile, perché questo è ciò che più di tutto aumenta il valore di Facebook stesso. Quindi, se è vero che CA ha violato le regole di Facebook, è anche vero che a Facebook conviene che ci sia chi le viola, perché queste violazioni creano valore per Facebook.
Quando Matteo Flora dice che Facebook interviene solo quando episodi come questo attirano l’attenzione dei media e la perdita di reputazione diventa un danno economico, dice la verità, ma la ragione non è una “colpevole leggerezza”. La ragione è che questi abusi sono in ultima analisi nell’interesse di Facebook, salvo quando, come in questo caso, diventano così visibili ed eclatanti da danneggiarlo. Quindi, ricapitoliamo:
- È senz’altro importante conoscere sia gli strumenti che Facebook mette a nostra disposizione per controllare l’accesso ai nostri dati, sia gli effetti del nostro comportamento quotidiano. Andate a dare un’occhiata alle vostre impostazioni di privacy!
- Evitiamo di utilizzare indiscriminatamente applicazioni e giochini, di autorizzarli a raccogliere anche informazioni che nulla hanno a che fare con il loro contenuto, ed evitiamo di mantenerle autorizzate anche mesi o anni dopo aver smesso di usarle.
- Ricordiamo però che, per quanto attenti siamo, non riusciremo mai a controllare del tutto la circolazione delle nostre informazioni, perché se ne fossimo davvero capaci per Facebook non varremmo niente. Per parafrasare un vecchio detto, l’unico dato che nessuno potrà mai estrarre dal nostro profilo Facebook è quello che non ci mettiamo.
Ah, un’ultima cosa: come si è appurato, oltre alle Presidenziali USA Cambridge Analytica, o altre agenzie ad essa collegate, hanno lavorato per influenzare (non necessariamente e non sempre illegalmente, intendiamoci) molti altri appuntamenti elettorali, a partire dal referendum per la Brexit. Potremmo chiederci: sono intervenute anche nelle nostre ultime elezioni politiche? Su questo, limitiamoci per ora a osservare l’interessante coincidenza per cui Steve Bannon in occasione delle nostre elezioni si trovava in Italia, per poi commentare entusiasticamente i risultati, e ricordiamoci che, come consumatori e come elettori, la miglior difesa che abbiamo contro la propaganda è ragionare con la nostra testa.