In un post precedente, parlando di bullismo, ho fatto mie le riflessioni di Serra su una presunta correlazione fra bullismo e classe sociale. Poiché mi è stato gentilmente chiesto di argomentare questa riflessione, che a Serra è costata una salva di insulti, ci provo a partire da un piccolo ragionamento preliminare di natura metodologica.
Un conto è dire: A è causa di B; ogni volta che si dà A si può osservare B.
Altra cosa è dire: quando c’è C, si osservano sia A che B.
La prima è una correlazione chiara, causale, mentre la seconda si chiama correlazione spuria.
E’ una correlazione dire: i poveri sono cattivi (è un fatto genetico; l’ha voluto Belzebù; …)
E’ una correlazione spuria dire: la mancanza di istruzione, la vita in periferia, il destino cinico e baro conducono (sovente) sia alla povertà che alla criminalità.
E’ del tutto evidente che ciò di cui parliamo è prevalentemente, ma non esclusivamente, il secondo caso. E deve essere altrettanto chiaro che si parla di tassi percentuali maggiori e minori, e che la maggioranza delle persone, povere o ricche, sono brave persone; semplicemente la minoranza dei mascalzoni è maggiormente presente fra i poveri che fra i benestanti e i ricchi.
I poveri sono cattivi. L’associazione Etica ed Economia ha scritto:
Povertà ed esclusione sociale alimentano l’illegalità diffusa e la criminalità organizzata che a loro volta rendono difficile combattere la povertà e sostenere i processi di sviluppo e inclusione sociale (fonte).
Un’opinione analoga l’ha espressa don Ciotti:
L’illegalità diffusa, la corruzione e le mafie affondano le radici nella debolezza del tessuto morale di una società e questa debolezza ha un nome preciso: disuguaglianza (fonte).
Opinioni di questo genere, da parte di specialisti – a vario titolo – ci instrada già verso la direzione richiesta: sì, probabilmente i poveri sono cattivi con tassi maggiori rispetto ai non poveri (una cattiveria relativa, ovviamente, non assoluta) per ragioni che esploreremo più avanti. Di ricerche e indicatori ce ne sono a bizzeffe: una bella ricerca di Ludovica Ioppolo, realizzata come tesi di laurea con la brava metodologa Maria Stella Agnoli, arriva a queste conclusioni (dopo un’indagine molto accurata e sofisticata in termini di metodo):
Con grande evidenza empirica emerge, innanzitutto, una forte associazione tra criminalità violenta e organizzata, con particolare riferimento al contesto delle regioni meridionali. Questo tipo di criminalità risulta associata alla dimensione economica, nel senso di deprivazione assoluta, e alla dimensione sociale, in termini di assenza di senso civico, confermando così le nostre ipotesi di partenza […]. Per quanto riguarda le dimensioni economica e culturale possiamo dire che le nostre ipotesi di partenza sono confermate: la criminalità economica e predatoria sono, infatti, associate a contesti caratterizzati da forti diseguaglianze sociali (p. 110-112).
Con un approccio diverso (dati di secondo livello), Fabio Clementi, Francesco Schettino ed Enzo Valentini hanno raggiunto analoghe conclusioni:
Facendo leva su una cospicua disponibilità di dati sul reddito delle famiglie ita- liane (fonte Banca d’Italia) e sui crimini commessi e denunciati (fonte ISTAT), i risultati individuati sono riassumibili nel fatto che tutte le variabili relative al crimine presentano, specialmente per le regioni del Sud e le isole maggiori, una correlazione positiva con gli squilibri distributivi del reddito (disuguaglianza e polarizzazione) (fonte, con molti riferimenti bibliografici).
Gli autori, con un lavoro sintetico ma decisamente ben argomentato, concludono scrivendo:
I temi degli squilibri distributivi, della povertà e della criminalità sono senza dubbio fenomeni vincolati. Nel passato, molta letteratura, a livello internazionale, ha ampiamente provato ad analizzare da un punto di vista sia statistico che teorico le relazioni esistenti tra le variabili che le interpretano, individuando, a seconda del caso, correlazioni oppure veri e propri nessi causali più o meno robusti. Il caso del- l’Italia, da questo punto di vista, è di straordinario rilievo, data l’illegalità diffusa nella nostra società ad ogni livello e considerata anche la presenza all’interno del nostro territorio di tre tra le più importanti organizzazioni criminali a livello mondiale (Camorra, ’Ndrangheta e Mafia) […]. I risultati più interessanti che abbiamo individuato sono riassumibili nel fatto che tutte le variabili relative al crimine presentano, specialmente per le regioni del Sud e le isole maggiori, una correlazione positiva con gli squilibri distributivi (disuguaglianza e polarizzazione): peggiore è la distribuzione del reddito, maggiore è l’incidenza di fatti criminali (p. 14).
All’estero, e specialmente negli Stati Uniti, la letteratura su questo stesso tema è pressoché sterminata (qualcosa segnalo nelle Risorse finali, cercando fra approcci differenti, ma la letteratura in argomento è immensa).
Ovviamente a questo punto dobbiamo chiederci perché mai i poveri debbano per forza essere anche cattivi. La risposta comincia ad apparire chiara con una ricerca svedese riassunta dall’Economist, dal quale riprendiamo:
[Il ricercatore…] scoprì, senza sorprese, che gli adolescenti cresciuti in famiglie i cui guadagni erano nel quintile più basso, avevano sette volte più probabilità di essere condannati per crimini violenti, e il doppio delle probabilità di essere condannati per reati di droga, rispetto a quelli di famiglie i cui redditi erano nel quintile superiore.
Ciò che lo sorprese fu che quando guardava le famiglie che da povere avevano cominciato a diventare più ricche, i bambini più piccoli – quelli nati in un relativo benessere – avevano le stesse probabilità di comportarsi male quando erano adolescenti come i loro fratelli maggiori. Il reddito familiare non era, di per sé, il fattore determinante.
Ciò suggerisce due possibilità, non reciprocamente esclusive. Una è che la cultura di una famiglia, una volta stabilita, sia “appiccicosa” – che detta in maniera cruda significa portare il bambino fuori dal quartiere, ma non il quartiere fuori dal ragazzo. Dato, ad esempio, la propensione dei bambini a emulare i fratelli maggiori che ammirano, sembra perfettamente plausibile. L’altra possibilità è che i geni che predispongono al comportamento criminale (diversi studi suggeriscono che tali geni esistano) sono più comuni nella parte inferiore della società che nella parte superiore, forse perché la mancanza di controllo degli impulsi che generano tende anche a ridurre la capacità di guadagno di qualcuno.
Intendo disinteressarmi alla seconda ipotesi e concentrarmi sulla prima, perché introduce alla complessità di fattori che rendono sempre spuria la correlazione fin qui trattata. L’ambiente familiare rende i figli maggiormente propensi a delinquere anche se arrichitosi; la correlazione suggerita, è quindi la seguente:
Vale a dire: le condizioni socio-economiche deprivate (un termine ovviamente troppo generico) concernono una quantità di fattori diversi che agiscono sistemicamente e possono produrre, fra l’altro, una propensione a delinquere. Il mio personale punto di vista è che fra i diversi fattori quello culturale sia il prevalente, ma non l’unico e non il solo.
Perché prevalente? Qui occorre introdurre vari elementi a cavallo fra linguistica, psicologia e antropologia. In breve, noi agiamo secondo i concetti posseduti, che costituiscono i nostri schemi mentali e il modo di ragionare, immaginare, desiderare; se non possediamo il concetto di “cavallo” non sapremo pensarlo, né volerlo, e la prima volta che ne vedremo uno potremmo scambiarlo per una mucca, semmai! I concetti sono separati dal linguaggio ma ne dipendono; il concetto di cavallo si associa alla parola ‘cavallo’ e in conclusione siamo ciò che possiamo dire. L’educazione in senso lato (scuola, letture, viaggi, “buone compagnie”) sviluppa il linguaggio e spazia fra concetti, anche astratti, consentendo una vita più ricca, una più profonda capacità argomentativa, l’approdo a pensieri inferenziali anche complessi, fra i quali le questioni etiche, le implicazioni della socialità e molte altre cose che ci allontanano dal desiderio di depredare il prossimo. Ecco perché nascere in una famiglia povera rende più propensi a delinquere, e anche se la famiglia si arricchisce quella propensione resta, così come i miei lettori, precipitando nell’indigenza o approdando a una schifosa ricchezza resterebbero (più o meno) gli stessi.
Risorse:
- Guido de Blasio e Giorgio Nuzzo, Capitale sociale e disuguaglianza in Italia, Banca d’Italia, “Questioni di Economia e Finanza”, 116, 2012;
- Patrick Sharkey, Max Besbris, and Michael Friedson, Poverty and Crime, “The Oxford Handbook of the Social Science of Poverty”, 2016;
- Jed Feldman, The Statistical Correlation between Crime and Poverty;
- Haiyun Zhao, Zhilan Feng, Carlos Castillo-Ch´avez, The Dynamics of Poverty and Crime, 2002;
- Colin Webster and Sarah Kingston, Poverty and Crime Review, Joseph Rowntree Foundation, Maggio 2014.
(In copertina: Brutti, sporchi e cattivi, di Ettore Scola)