In seguito all’arresto di Domenico Lucano, Shu Aiello e Catherine Catella, registe del film documentario “Un Paese di Calabria”, ambientato a Riace, hanno condiviso la loro opera gratuitamente in streaming per 48 ore, sabato 6 e domenica 7 ottobre.
La visione del film, interessante e poetico, rivela aspetti che il dibattito attuale, incentrato soprattutto sui presunti illeciti commessi dal sindaco, sembra aver trascurato.
Credo che per la maggior parte concordiamo, a meno di posizioni estreme, sulla buona fede di Lucano e sulla fondamentale positività del suo operato, e al tempo stesso sulla necessità di indagine e controllo su chi, anche a fin di bene, abbia la tendenza ad allargarsi rispetto alla legge, nonché sulle conseguenze di questo atteggiamento “anarchico” nel momento in cui da eccezione diventasse norma generale.
Lasciando però ora da parte gli illeciti, invero veniali, commessi da Lucano, e concentrandosi sulla sostanza di ciò che ha fatto a Riace, il film fa emergere un altro aspetto interessante, cioè la distanza tra il suo modello d’integrazione, da tutti i pro-immigrazione ora osannato, e il modello multiculturale che la maggior parte di quegli stessi pro-immigrazione spesso promuove.
Se nel film appare evidente, nella sua realtà e anche nella sua bellezza, la multirazzialità di Riace, non altrettanto si può dire per quanto riguarda la multiculturalità.
A Riace l’integrazione avviene in un contesto antico, rurale, fatto di lavori manuali, di semplicità, di contatto con la natura, ma soprattutto di religiosità cristiana. Il film ci manda immagini di battesimi, madonne, processioni, feste dei santi: il futuro sembra dover arrivare attraverso il passato.
Vediamo ragazze e ragazzi neri cantare a scuola l’inno di Mameli, cosa che nelle scuole italiane non avviene più da tempo, divertirsi alle più classiche feste parrocchiali, pregare tutti insieme nella chiesa del paese. Si vede qualche ragazza velata, ma sono poche eccezioni.
Emblematica è una scena del film in cui il parroco, durante la funzione, introduce una famiglia di nuovi arrivati dall’Africa, dicendo “E’ una famiglia musulmana. Loro pregheranno lo stesso Dio, nostro e loro, nella loro lingua”. E infatti il ragazzo musulmano pregherà, nella sua lingua, al microfono offertogli dal parroco, ma in una chiesa cristiana, con le modalità cristiane. Non in una moschea, non accovacciato, non su un tappeto rivolto a La Mecca. Pregherà come un cristiano.
Sono molto lontane da Riace le istanze multiculturali di certa sinistra, che promuove la costruzione di sempre nuove moschee, che difende come fossero diritti civili certi estremismi, quali il velo integrale e il burkini, la segregazione dei sessi e la macellazione halal.
A Riace gli immigrati diventano italiani davvero, anzi, di più. Diventano italiani cristiani e patriottici. Diventano italiani di almeno cinquant’anni fa.
E lo diventano senza particolari imposizioni, con naturalezza, con gratitudine. Senza pretese. Forse proprio grazie al ruolo di Lucano, un po’ pater familias bonario e un po’ signore feudale. Forse perché incontrano una cultura che, rispetto a quella da cui provengono, appare come una versione “buona” e non troppo distante, e questo rende il passaggio più graduale. Forse perché a volte trovarsi di fronte meno alternative rende le cose più facili.
Fatto sta che a Riace e nei paesini analoghi, piccoli, familiari e in qualche modo assimilanti, le cose sembrano funzionare, più che nelle grandi città. E’ questa la strada giusta? Se è giusto ciò che funziona, parrebbe di sì.
Certo per chi come me sostiene la laicità tra i primi valori, ammettere che la forma più valida di integrazione passi per la religione, per le madonne, le processioni e le immagini di Padre Pio, è una sonora sconfitta, davvero dura da accettare. D’altra parte, ragionando in modo concreto – e Mimmo Lucano è un grande esempio, prima ancora che di umanità, di concretezza e di orientamento al risultato – bisogna ammettere che questa trasformazione della religiosità in senso cristiano appare efficace.
Ora ci si può chiedere, cosa accadrà quando questi ragazzi cresceranno? Cosa accadrà alla seconda, terza generazione? Vorranno ancora rimanere a Riace, o come i loro coetanei italiani decideranno di andarsene? E a quel punto, come si domanda giustamente la brava maestra del film, saranno pronti ad affrontare la realtà molto diversa delle grandi città?
Ma soprattutto, questa loro religiosità trasformata, evolverà verso il riconoscimento di una società laica, oppure finirà per regredire nella superstizione?
Non possiamo saperlo, ma per ora il modello sembra essere il più potente e il più pacifico, e di questo è giusto tener conto, facendone anche occasione di autocritica. Se fosse questa la prova che il melting pot, la multiculturalità spinta, la retorica della diversità sempre e comunque positiva, la pretesa di preservare, in Europa, quegli aspetti culturali e religiosi portatori delle stesse violenze da cui gli immigrati fuggono, costituiscono in realtà uno schema destinato al fallimento? E che funziona meglio, invece, un modello di inclusione delicatamente assimilazionista?
Per ora teniamoci strette queste domande, e il sorriso dei ragazzi di Riace, che in arabo pregano un unico Dio, in una chiesa cristiana, e poi portano i santi in processione.
Contributo scritto per Hic Rhodus da Viviana Viviani. Lavora come consulente aziendale ed è giornalista pubblicista. Ha pubblicato nel 2011 il romanzo Il canto dell'anatroccolo con Corbo editore e ha pubblicato racconti sulle antologie "A Bologna piace Giallo" e "Fino alla fine" di Damster. E' ideatrice, insieme al collettivo di scrittura Gruppo Lizard, del progetto letterario "Penitenziagite! Un cadavere nella rete", la prima Social Network Novel, in rete da aprile 2018.