Quanto vale una vita umana? Un post ad altissimo tasso di irritabilità (per i lettori)

Qui discuterò del valore di una vita umana. In termini assolutamente non etici, morali, religiosi o di qualunque ideale umano, umanistico e umanoide si possa assumere come a-priori. Discuterò di valore della vita umana senza a-priori, e quindi necessariamente in maniera arida e, sono certo, disumana. Conosco i miei cortesi lettori e so che una parte di loro si irriterà perché assume, invece, un a-priori (Dio, la Storia, la Legge Morale dentro di noi…). Vi prego di credere che questa discussione è rilevantissima per due ragioni:

  1. la prima, che tracceremo una riga sulla sabbia fra me, insensibile, anaffettivo, egoista, liberista, sorosiano, sul libro paga degli Illuminati, e tutti voi buoni, che date un valore a prescindere alla vita (io no, non l’ho ancora scritto ma era abbastanza chiaro dove volevo parare); già questo non è male, no? Io di qua, voi di là…
  2. la seconda, più difficile ma rilevante, perché questa discussione è in realtà un varco spazio-temporale. Ragionare sul valore della vita umana costringe a distaccarsi, obbliga ad abbandonare un cliché (buono e santo, per carità) per porsi delle domande, che è poi lo scopo originario di questo blog.

Poiché il tema è questo, con tali premesse, leggete a vostro rischio e pericolo.

Come probabilmente già sapete, l’idea che le vite degli individui abbiano valori (essenzialmente economici) differenti non è certo una novità: dalle polizze assicurative alla programmazione sanitaria, dall’Inps alle cause civili, si stabiliscono valori differenziati, tanto da condurre a scelte che implicano la vita e la morte delle persone, oppure un diverso riconoscimento di una morte. Investire e uccidere un anziano novantenne malandato “costa”, in risarcimenti civili alla famiglia, molto di meno che investire e uccidere un giovane uomo di successo con prole (si veda QUI). La ricerca scientifica sulle malattie rare è meno sviluppata rispetto ad altre perché riguarda poche persone e il costo pro-capite non è solo poco remunerativo per la diabolica Big Pharma ma anche poco praticabile, sotto il profilo costi benefici, per la programmazione sanitaria che, naturalmente, punta al massimo beneficio per il più alto numero di persone (fra le righe QUI). Questo ragionamento può diventare, invero, terribilmente astratto e basato su parametri discutibili quali il PIL:

Per l’economista William Viscusi dell’Università Vanderblit (Usa), in Italia la vita pesa 4,71 milioni di euro, molto meno rispetto alle Bermuda dove è calcolata in 15,5 milioni, ma sempre meglio che in Burundi, dove un uomo vale 45mila dollari (fonte).

Arido? certamente, ma se dobbiamo dare un risarcimento, per esempio alle vittime di reati violenti (Decreto 31 agosto 2017) non possiamo decidere a caso volta per volta ma, per un minimo di equità, stabilire sulla base di tabelle che dicano in termini univoci quanto pagare. Insomma, il problema ha una sua triste logica; sarà arido come vi pare, sarà una contabilità inquietante e sempre contestabile ma è necessaria e la si fa, nei termini più o meno detti.

Naturalmente io voglio andare oltre. Lasciate stare le tabelle e la contabilità finalizzata a indennizzi e cose simili e pensate ai sette miliardi e rotti di persone che ci sono al mondo. Sette-miliardi-e-rotti… Se fossero semplici lettere, per metterne su carta sette miliardi e rotti occorrerebbero 15-20.000 libri di media grandezza! Non ci basterebbe una vita (oops!) per leggerli. Adesso vi propongo un gioco, che avrà valore se lo giocherete onestamente: guardate la tabella qui sotto; considerate che voi che leggete valete 100 punti (punti astratti, non sono euro né altro; è solo un gioco); adesso dovreste mettere un valore in ogni cella, tenendo presente il vostro 100.

Per esempio un mio familiare – potreste dire – vale 200, perché la famiglia è tutto; certo, se scoprissi che mio figlio è omosessuale diciamo 150, ma non di meno. Invece il barbone africano, che non so neppure chi sia, vale 10, o 15, tanto tanto 18 ma non di più.

Questo “gioco” prevede solo due soluzioni:

  1. date a tutti i riquadri lo stesso valore; se il parametro è 100, bene: tutti valgono 100;
  2. date almeno alcuni valori differenti, più alti o più bassi; anche uno solo…

Il caso 1 – se non è stato dato un po’ ipocritamente, imbrogliando – riguarda due generi di persone, religiose o non religiose, che comunque credono veramente e fermamente nella fraternità (ho un amico comunista che ci crede, quindi non riguarda solo i veri cristiani). Il caso 2 è quello che io stimo come vero (in senso sociologico, vale a dire: la norma, la stragrande maggioranza dei comportamenti umani).

Poiché non devo convincere nessuno di queste mie tesi, rinuncio a discutere il caso 1; non lo reputo sociologicamente vero ma ne prendo atto e farò come se lo fosse e non ne voglio discutere. Mi soffermerò invece sul caso 2.

Esempio provocatorio n.1: scoppia un incendio devastante nel vostro appartamento e avete pochissimi secondi per afferrare un familiare; chi scegliete? Oppure: la madre incinta sta male e si deve scegliere se salvare lei o il bimbo; chi scegliere? Arriva un’onda anomala che travolge vostro figlio e il gentile signore vicino di ombrellone, chi cercate di salvare per primo? Eccetera: non esiste la non risposta; se vi immedesimate nelle situazioni proposte – come in un gioco di ruolo – vedrete che nella vostra mente appaiono delle scelte. Non amiamo allo stesso modo i nostri figli, ai quali comunque diamo la priorità rispetto ai gentili vicini di ombrellone… Ciò che i sostenitori della fraternità cercano di non vedere (cristiani o no) è che tutta la vita, l’educazione, la socializzazione, la cultura locale eccetera, ci porta a delle scelte. Noi viviamo in un denso tessuto relazionale fatto di innumerevoli legami di varia natura: amiamo tantissimo qualcuno (forse familiari, ma non necessariamente) e ignoriamo moltissimi altri (le persone “solo buongiorno e buonasera”, per intenderci) e, in alcuni casi, possiamo addirittura odiare determinate persone. Quindi diamo, assolutamente diamo, un “valore alle persone”.

Esempio provocatorio n. 2: siete al Cairo e andate a vedere le piramidi; l’immancabile nugolo di ragazzini cenciosi si affolla attorna a voi per ricevere qualche soldo. Che fate? Glie li date? Bravi: ora ditemi se li date (sempre, ogni giorno) anche all’egiziano o al subsahariano che staziona davanti al supermercato… No? E se invece di essere un giovane mendicante nero fosse il polacco che lava il vetro? Se fosse un anziano buttato in un angolo, male in arnese, con lo sguardo ormai vuoto di chi non ha speranza? E il punkabbestia coi cagnolini tristi immobili ai suoi piedi? E quello col cartello “Ho fame”? E gli zingarelli? E invece a quelli di Save the Children che cercano di convincervi a fare una donazione? Se avete detto di “Sì” a tutti allora siete ricchi sfondati e anche un pochino fessi. Impossibile fare la carità a tutti, impossibile fare, con una concretezza differente e più incisiva, del bene a tutti. Anche perché non siamo sicuri se dare la moneta al punkabbestia o allo zingarello sia, propriamente, “fare del bene”…

Esempio provocatorio n. 3: i tedeschi sono pedanti, gli inglesi puntigliosi, i francesi cazzoni, i russi violenti, i polacchi ubriaconi, i rumeni ladri, i greci peracottai, i cinesi traffichini, gli egiziani infidi, gli americani prepotenti, i neri puzzano, i messicani sono sanguinari, gli svedesi cornuti, i giapponesi gentili ma non scopano, i musulmani sono sessuofobi, i vegetariani sono fanatici, i cacciatori dovrebbero morire tutti, i comunisti sono delle zecche e i fascisti dei topi di fogna, i finocchi mi fanno schifo tranne le lesbiche, Fedez fai cacare, Asia hai rotto i coglioni, la Boldrini è una [censura], laziali nei forni, doveetee moriire!

La nostra fraternità (il caso 1 sopra) rischia veramente di andare in crisi nella pratica. Si può obiettare – credo – che il sentimento interiore di fratellanza si possa scontrare con la pratica quotidiana senza necessariamente creare un corto circuito logico, in quanto valore verso il quale dirigersi nell’imperfezione umana. Ma allora quella tensione etica, quell’orizzonte fraterno assume una logica molto più mondana e limitata. Molto più sociologicamente determinata dalle circostasnze, momenti, compagnie e mal di pancia temporanei. Il bambino morto annegato con la foto sul Corriere ci riempie di dolore, ma i cento, i mille bambini nel frattempo morti di guerra e di stenti nel mondo ci sono sconosciuti, o conosciuti in una forma talmente astratta da poter commuovere solo un santo, e di santi – così a me pare – non se ne fabbricano più tanti. Il povero nero che muore sotto il sole raccogliendo pomodori a Caserta ci fa scoppiare il cuore di rabbia, ma le migliaia di neri che in quel momento muoiono altrove, anonimi, senza un nome e un volto, non riescono a commuoverci. È così e, mi spiace dirlo, è “normale” che sia così.

La lotta per la fraternità, che è un bellissimo ideale, mi convince solo se è astratta. Se ci si commuove per Josefa, e non per le donne stuprate in India, uccise in Cina, infibulate in africa, umiliate in Perù, trafficate da Boko Haram, uccise nella guerra del Medio Oriente, massacrate di botte anche qui da noi, ecco… la commozione per Josefa mi sembra buona per un flame su Facebook e poco più. Se teniamo alta la nostra attenzione sui morti nel Mediterraneo, diciamolo chiaramente, è grazie a Salvini, perché altrimenti non ce ne fregherebbe nulla, e solo una frazione degli indignati è consapevole dell’odissea prima dell’imbarco, delle condizioni nei paesi d’origine, di quello da cui fuggono veramente. E pochissimo consapevole anche delle conseguenze economiche e sociali dello stupido “accogliamoli tutti”.

Ora, qui divento tristo e miserabile. Il problema non è quasi mai – nelle nostre vite quotidiane, almeno – morire o vivere, chi scegliere di far vivere e altre questioni così drammatiche, ma, semplicemente, come e quanto “affratellarsi”. Posso accettare di non far morire nessuno in mare (ma certo!), posso commuovermi per un dramma personale ben raccontato sui giornali, ma posso, voglio e debbo accettare decine di migliaia (in prospettiva centinaia di migliaia) di immigrati di cui non so che fare? Lasciate stare la storia del PIL e che ci pagano le pensioni. La stragrande maggioranza dei migranti è dequalificata e finisce schiava di racket del caporalato agricolo, o di gang malavitose, o disperata a non sapere che fare della propria vita. Non accetto lo slogan “accogliamoli” senza un piano, senza una strategia, senza una soluzione, perché altrimenti, scusate, no, non li voglio. E la soluzione non può essere fumosa: “dobbiamo chiedere all’Europa…” L’Europa ci ha già abbondantemente risposto: arrangiatevi. Allora una politica per l’immigrazione deve prevedere un cambio di rotta Europea prima di aprire le porte; dei centri di accoglienza decenti, delle risorse allocate in maniera intelligente… ‘Risorse’… siamo disposti a pagare una tassa extra pro-migranti (oltre ai fondi europei)? Per sostenere dignitosamente il loro alloggio, la loro riqualificazione professionale e l’invio al lavoro? Io personalmente , perché questo è fare politica, mentre l’indignazione su Facebook è un narcisistico sfogo prepolitico.

Ma torniamo alla fratellanza. Vogliamo contribuire a risolvere i problemi dei nostri fratelli in Africa, in Medio Oriente ma anche Estremo, centro e sud America e via discorrendo? Ma se il popolo italiano manco sa quel che accade oggi in Venezuela, o in Messico, o in Nigeria, o in Laos, o in Sud Sudan, o in Filippine! Quei “fratelli” là che fine devono fare? La fratellanza per i migranti che arrivano coi barconi ci fa mettere le magliette rosse il martedì, ma fino all’ora dell’aperitivo. E poi mercoledì abbiamo già altro cui pensare, altro che fratellanza! I problemi del mondo non si risolvono con la fratellanza delle magliette rosse ma con un contributo che può essere, volta per volta, diplomatico, di peace-keeping, umanitario o anche di testimonianza. Impariamo, leggiamo, testimoniamo; chiediamo una politica estera decente dell’Italia e lavoriamo per una politica estera europea. Ma sempre senza ipocrisie.

Noi continueremo a essere, prima di tutto, la nostra famiglia, clan, tribù, nazione; continueremo a vedere i cinesi come venditori di carabattole tossiche, i neri come vucumprà, le peruviane come badanti. Un po’ accettati, un po’ disprezzati.

La genesi umana è sviluppo culturale. E’ continua lotta emancipativa, un lasciarsi indietro gli orrori delle streghe accettando le diversità, lasciarsi alle spalle il colonialismo accettando la multiculturalità, e così via. Ma non siamo, necessariamente, tutti fratelli, se non come astrazione, e dobbiamo, ogni giorno, fare delle scelte.

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