La democrazia fa male. Prove di democrexit di Jason Brennan

Credo -e non intendo usare iperboli- che gli stupidi e gli ignoranti siano eversori (…) Poiché non c’è speranza (la maggioranza è composta da stupidi e ignoranti, che mi piaccia o no) e non c’è modo di invertire le cose, mi chiedo perché dovrei essere guardingo, tollerante, accomodante, accogliente, comprensivo, addirittura pedagogico (il massimo della fesseria degli intellettuali snob: credere di educare il popolo). No, mi spiace. Il mio impegno per il 2018 e anni seguenti è allontanare da me gli eversori. Non voglio tra i piedi gli stupidi (Claudio Bezzi, Codice giallo. Parole sante, evidentemente; tuttavia, limitarsi a “non avere tra i piedi” gli eversori non impedirà loro di danneggiarci, fin quando il loro voto conterà come il “nostro”).

Su questo blog, così come su molti altri, da tempo si denunciano le malattie che affliggono in modo sempre più grave il dibattito pubblico e la democrazia, non solo italiana ma dell’occidente in generale: le Fake News, l’uso perverso dei Social Media, un certo giornalismo che si aggrappa al sensazionalismo e a leggi antistoriche per sopravvivere, l’analfabetismo funzionale di una quota enorme di cittadini etc.

Talvolta c’è chi avanza proposte per risolvere questi problemi. Proposte il più delle volte di assoluto buon senso, ma che si scontrano in modo drammatico con la realtà quotidiana. Dal mitologico “puntare-sulla-scuola” (panacea di tutti i mali, dai femminicidi all’alcolismo passando per gli incidenti stradali) ai tentativi di Google & Co. di inventare algoritmi miracolosi in grado di supplire all’umana idiozia. 

Tutti sforzi apprezzabili, ovviamente.

Ma che partono da due presupposti ben precisi: 

  1. Che la democrazia si possa salvare
  2. Che la democrazia si debba salvare

Ecco: e se fossero entrambi sbagliati?

Se quella per la democrazia fosse una causa non solo persa, ma anche sbagliata da perorare? 

Se il (cosiddetto) suffragio universale fosse, banalmente, un principio da sempre ingiusto e non più sostenibile nella società contemporanea?

Se il mondo contemporaneo fosse troppo complesso per sperare che la stragrande maggioranza delle persone riesca a comprenderlo?

Queste sono le domande a cui Jason Brennan, docente di filosofia alla Georgetown University, ha dato risposta nel suo ultimo lavoro,Contro la democrazia. Un’opera coraggiosa e spiazzante, che demolisce a colpi di logica tutta una serie di “dogmi” con cui siamo cresciuti. L’autore vuole dimostrare (e, per quello che può valere la mia opinione, ci riesce in pieno) che la democrazia non è affatto la forma di governo perfetta, per il semplice fatto che assegna uguale potere decisionale a tutti: ai dotti quanto agli ignoranti, ai bene informati quanto ai creduloni che scambiano per vere le bufale del web. 

Sarebbe dunque preferibile l’epistocrazia, ovvero il governo dei competenti (dal greco epìsteme, conoscenza “scientifica”): cioè, in concreto, sarebbe da riservare il diritto di voto a chi dimostra di possedere delle competenze minime su argomenti fondamentali (sulla definizione di questo termine tornerò più avanti, in questa serie di articoli), o quantomeno di far sì che il voto informato conti di più di quello disinformato. Insomma, l’esatto opposto di quell'”uno-vale-uno” che vaste greggi di nostri compatrioti continuano a ripetere, nella convinzione ormai diffusa che tutto sia questione di opinioni, compresa l’efficacia dei vaccini o la legge finanziaria.

Mi rendo conto che la reazione tipica a queste asserzioni è – di solito – uno sguardo tra l’esterrefatto e lo scandalizzato. L’idea di togliere il diritto di voto a qualcuno per ragioni diverse dall’essere delinquenti viene solitamente associata a classismo ed elitismo. 

Eppure è la stessa Costituzione italiana, all’articolo 48, a precisare che anche i “civilmente incapaci” e i “moralmente indegni” dovrebbero essere esclusi dall’esercizio di tale diritto, e che è la legge a stabilire chi è “civilmente incapace” e “moralmente indegno”. Il che, nel corso degli anni, ha dato vita a situazioni a dir poco irrazionali. 

Prima del 1978 esisteva una legge (n. 1058/1947 “Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali”) che recitava chiaro e tondo “non sono elettori gli interdetti e gli inabilitati per infermità di mente”; fu la legge Basaglia ad abrogare queste disposizioni.

Ancor più sconcertante il fatto che, fino al 2006, l’esercizio di voto fosse precluso agli imprenditori falliti, per cinque anni dal fallimento (fonte).

Come si vede, dunque, l’espressione stessa “suffragio universale” è già di suo discutibile.

In questo articolo cercherò di convincere il lettore che la democrazia basata sul suffragio universale sia eticamente sbagliata e operativamente dannosa. 

Riassumerò quindi le principali argomentazioni di Brennan, aggiungendo occasionalmente qualcosa di mio.

Infine cercherò di avanzare proposte operative concrete per attuare forme di epistocrazia in Italia. 

Contro la democrazia è il primo libro tradotto in italiano di Jason Brennan, docente di filosofia alla Georgetown University nonché principale critico della democrazia e sostenitore dell’opportunità di sperimentare forme di governo epistocratico. 

Qui cercherò di riassumerne quelli che considero i punti salienti; tuttavia raccomando vivamente la lettura del libro per intero, perché credo che tutte le principali obiezioni che possono sorgere più o meno spontaneamente trovino lì risposta esaustiva.

Non partirò dall’inizio, bensì dall’argomentazione che trovo più convincente: perché – si chiede Brennan – nelle democrazie occidentali non permettiamo di votare ai bambini di sei anni?

Una delle possibili ragioni è l’incompetenza: si tende a dare per scontato che i bambini non ne sappiano abbastanza di politica.

Il che mi pare di buon senso; quello che non è altrettanto logico è dare per scontato che quella competenza che manca a sei anni la si acquisisca di sicuro a 18, e ancor più che la si conservi – o incrementi – a 40, 45 o 80. 

Forse il fatto che l’istruzione sia obbligatoria fino a una certa età, unitamente ad altri fattori più recenti (ad esempio la diffusione della Rete), ha portato a dare per scontato che, dopo “una certa età”, l’individuo diventi consapevole del mondo che lo circonda.

La situazione, ahimè, non è affatto questa. Gli autori e i lettori di questo blog lo sanno benissimo, ma poiché il libro di Brennan si rivolge potenzialmente a chiunque, l’autore ha scelto di dedicare due interi capitoli – i primi – a questo tema.

La democrazia è il governo degli Hobbit e degli Hooligan

Per Brennan la popolazione si divide in 3 categorie:

  1. sono perlopiù apatici e di politica non sanno nulla. Non hanno opinioni forti né inalterabili in merito. Spesso non hanno opinione alcuna. Hanno scarsa o nessuna nozione di scienze sociali; ignorano non soltanto l’attualità, ma anche le teorie della scienza sociale e i dati per capire e valutare quello che accade. Hanno una conoscenza sbrigativa delle cose importanti del mondo e della storia nazionale. Preferiscono vivere la loro vita quotidiana senza pensare troppo alla politica.
  2. cittadini molto informati e impegnati nei confronti della politica e della propria identità ideologica. Per loro, fare politica è come tifare per la squadra del cuore. Si informano di politica, ma in modo partigiano. Cercano informazioni che confermano le loro opinioni pregresse, mentre ignorano, sottovalutano o rifiutano senza pensarci due volte le prove che contraddicono o sconfessano le loro opinioni. 
  3. pensatori perfettamente razionali e molto informati, senza eccessiva lealtà per le proprie convinzioni. Le loro opinioni hanno solide basi di scienze sociali e filosofia. Sono consapevoli dei propri limiti, e le loro certezze non vanno mai al di là delle prove. Sono gli unici in grado di articolare il punto di vista diverso dal loro in un modo che chi lo sostiene troverebbe accettabile. 

La stragrande maggioranza degli aventi diritto al voto, dice Brennan, rientra nelle prime 2 categorie.

Nazionalisti ignoranti, irrazionali e male informati

Il secondo capitolo spiega perché è statisticamente corretto affermare che certe idee sono figlie di ignoranza, irrazionalità e disinformazione.

Ma cosa si intende, in questo caso, col termine “ignoranza”? Quali nozioni, nello specifico, vengono ritenute indispensabili per potersi orientare nel mondo della politica? Per Brennan la risposta include le basi minime del funzionamento dello Stato (chi sono gli eletti, quali sono le loro opinioni), nozioni generali di economia (a quanto ammonta la spesa pensionistica) e di funzionamento delle istituzioni (chi detiene quale potere, cosa recitano alcuni articoli fondamentali della Costituzione). 

Sono queste le aree di incompetenza dei cittadini. Brennan cita alcuni risultati di test a titolo d’esempio:

  • Durante l’anno delle elezioni, la maggior parte dei cittadini non sa identificare nessun candidato al Congresso nei propri distretti
  • Il 73% degli americani non capisce quali fossero i motivi della Guerra Fredda
  • La maggior parte degli americani non sa, nemmeno approssimativamente, quanto si spende per il sistema pensionistico, né a quale percentuale del budget federale corrisponda quella spesa.

Tuttavia il problema non è solo l’ignoranza: è anche la disinformazione. Quest’ultima va intesa non solo e non tanto come proliferazione di Fake News, ma piuttosto come tendenza diffusa a processare le informazioni politiche in maniera distorta.

Si tratta dei c.d. bias cognitivi, ossia (pre)giudizi che ci portano ad interpretare le informazioni ricevute in maniera non oggettiva.

Il più noto è il Bias di conferma e disconferma: tendiamo a cercare e ad accettare acriticamente le prove in favore delle nostre opinioni attuali, e a ignorare, rifiutare e trovare noiose o sospette le prove che rendono le nostre convinzioni più deboli. [Giova qui ricordare che il funzionamento tecnico dei principali colossi del web favorisce il bias di conferma, con le c.d. “bolle di filtraggio”: i motori di ricerca e i Social Network selezionano i contenuti sulla base delle nostre preferenze espresse in precedenza, a suon di “mi piace” o di semplici ricerche]. 

L’informazione cambia le preferenze di policy

Chiave di volta dell’intero ragionamento è la constatazione -anche in questo caso scientificamente dimostrata- che l’informazione cambia le preferenze politiche, e che c’è un rapporto diretto tra progressismo e quantità/qualità di informazione ricevuta.

Lo scienziato Martin Gilens ha notato che i democratici con alti livelli di informazione hanno preferenze di policy sistematicamente differenti da quelle dei democratici con livelli di informazione scarsa. I democratici ricchi tendono ad avere un alto livello di conoscenze politiche, mentre i poveri tendono ad essere ignoranti o male informati. Nel 2003 i democratici poveri erano più favorevoli all’invasione dell’Iraq, al Patriot Act, alle limitazioni delle libertà civili, alla tortura, al protezionismo e al restringere il diritto di aborto e l’accesso agli anticoncezionali. (…) I democratici con un alto livello di informazione politica hanno preferenze opposte. (…) 

Qui qualcuno potrebbe obiettare: “ma perché pensare che dipenda dalla disinformazione? Non è che, semplicemente, ricchi e poveri hanno preferenze di policy opposte perché hanno interessi opposti da difendere?”. 

Sembrerebbe di no. 

Brennan cita i dati del questionario ANES, che ha tenuto conto anche di fattori come etnia, reddito e genere. (S. Althaus, Collective preferences in Democratic Politics). La conclusione è che, indipendetemente da questi e altri fattori, quando le persone diventano più informate tendono a preferire politiche più progressiste. Viceversa, quando sono meno informate 

diventano più aggressive in politica estera, difendono il protezionismo, le restrizioni all’aborto, pene più severe contro il crimine, un atteggiamento passivo verso la riduzione del debito etc. 

Perché molte persone non si informano

Non si tratta di stupidità, ma di “ignoranza razionale”, un fenomeno – a detta di Brennan – ben noto agli economisti, e spiegabile con la microeconomia.

Supponiamo che ci sia un milione di dollari seppellito da qualche parte nella vostra città, pronto per essere preso. Ora supponiamo che le istruzioni per trovare quel denaro siano inserite nelle 1200 pagine di Guerra e Pace. Probabilmente sareste disposti a leggerlo tutto per trovare quel milione. Ma supponiamo invece che le istruzioni siano nascoste in uno a caso dei 17 milioni di libri dell’Università di Harvard. Nonostante trovare il testo valga un milione, non vale più il tempo che dovreste utilizzare per trovarlo. 

Per Brennan votare in modo informato è più o meno la stessa cosa. Informarsi su temi complessi come la politica costa tempo e fatica, e non c’è garanzia alcuna che serva a qualcosa: le nostre idee potrebbero risultare in minoranza. 

Inoltre c’è il fatto che l’imprudenza, in cabina elettorale, non comporta grandi conseguenze, a differenza che nella vita quotidiana.

Una persona normale attraversa la strada solo se crede che non ci siano macchine in arrivo. Essa ha tutti i motivi per guardare da entrambi i lati, e per creare razionalmente le proprie convinzioni in merito al fatto che la strada sia sicura. Se vede correre nella sua direzione qualcosa che assomiglia a un tir, non indulgerà di certo nell’ipotesi che sia solo un’illusione ottica. Dopotutto, se la sua convinzione si rivelerà sbagliata, morirà. Ora, supponiamo che questa stessa persona stia per votare. Cosa succede se indulge, ad esempio, in una teoria cospiratoria, o compie un errore in buona fede? Sfortunatamente, niente di che. Le probabilità che il singolo voto possa comportare una differenza di alcun tipo sono quasi nulle.

Contro le ragioni semiotiche a difesa della democrazia 

Qui l’autore prende di mira le c.d. argomentazioni semiotiche a difesa della democrazia: quelle, cioè, che considerano il suffragio universale una sorta di patente di dignità per l’essere umano. Esempi di argomentazioni semiotiche sono:

  • la democrazia serve a esprimere che tutti i cittadini sono eguali
  • la democrazia è necessaria quale base sociale del rispetto di sé e degli altri
  • le strutture non democratiche, che siano ben governate o meno, sono un affronto alla dignità dei cittadini

Anche in questo caso, è abbastanza intuitivo capire perché si sia giunti a queste convinzioni: in passato il diritto di voto è stato negato selettivamente a determinate categorie di persone (ad esempio le donne) con criteri del tutto irrazionali, e l’averlo esteso a tutti è oggi considerato un prerequisito indispensabile per definire “civile” un Paese. 

Ma per Brennan i sistemi di governo non vanno giudicati su base semiotica, ma funzionale. Se il martello migliore è quello che picchia meglio sul chiodo, nella scelta di un sistema dovremmo chiederci quale assicuri ai cittadini i maggiori vantaggi. Da questo punto di vista, la monarchia assoluta ereditaria per Brennan non è sbagliata in quanto “immorale” o poco “etica”: è irrazionale, perché assegnare tutto il potere a qualcuno solo perché è nato “nell’utero giusto” è come assegnarlo a caso al primo suddito che passa. In linea teorica può anche capitare che il Re sia, per coincidenza, un individuo di competenze e saggezza spropositata e assai superiore a quella dei suoi sudditi: ma è poco probabile, così come è improbabile che un medico azzecchi la diagnosi lanciando sul tavolo pezzi di carta a forma di lettera e leggendo il primo nome di malattia che scorge. 

Dunque, per Brennan assegnare a tutti una uguale quota di potere decisionale, indipendentemente da competenza e preparazione, è altrettanto irrazionale. 

Le libertà politiche non sono come le altre

Concludo la sintesi di Brennan con quella che mi pare l’ultima e fondamentale considerazione: il giusto inquadramento delle libertà politiche.

Queste, spiega l’autore, non possono essere considerate alla stregua delle libertà individuali o i diritti umani.

Supponiamo che Tizio – un uomo single e senza figli, sulla ventina – si comporti in modo imprudente: mangia troppo, fa poco esercizio, spende troppi soldi. Per quanto discutibili possano essere le sue scelte, non sta facendo male a nessuno se non a sé stesso. Lasciamo che viva come gli pare. Molte persone pensano che così come Tizio ha il diritto di mangiare fino a farsi venire un infarto, una democrazia ha il diritto di governare sé stessa fino a provocare una crisi economica. L’analogia non regge. Un elettorato non è un individuo, ma un insieme di persone con scopi, comportamenti e credenziali intellettuali diverse. In un elettorato ci sono persone che impongono le loro decisioni ad altre. Se la maggior parte degli elettori agisce con stupidità non fa male solo a sé stessa, ma anche ad elettori meglio informati e più razionali. 

Il libro, anche a detta di Raffaele De Mucci, che ne ha curato l’introduzione, non si spinge molto in avanti nella pars construens, cioè non illustra altrettanto puntualmente in che modo si potrebbe operativamente implementare l’epistocrazia nei Paesi occidentali. Compito in effetti arduo, e, se perfino Brennan si è ben guardato dallo scriverne estensivamente, mi rendo conto che un tentativo in tal senso da parte mia possa far sorridere. Tuttavia, quelli che descriverò di seguito vogliono essere spunti di discussione, e niente più.

L’epistocrazia nei Referendum

Trovo utile procedere “in ordine crescente di difficoltà”, ossia partendo dal caso in cui – a mio avviso – sarebbe più facile implementare forme epistocratiche (i Referendum appunto), per poi arrivare al più difficile (le elezioni politiche).

Credo che il caso dei Referendum sia “più facile” per il seguente motivo: l’elettore è chiamato ad esprimersi su un argomento specifico (l’abrogazione di una determinata legge o la modifica di alcuni articoli della Costituzione), pertanto è più facile definire il concetto di competenza: sarà considerabile “competente” l’elettore che dimostri di conoscere: 

a) i contenuti delle leggi oggetto del quesito referendario

b) le conseguenze di un eventuale esito positivo del referendum stesso.

Un esempio di come potrebbe apparire un test della competenza dell’elettore lo si può trovare sul sito Termometro Politico: nel 2016 fu messo online un quiz di 15 domande relative al Referendum costituzionale. Le domande erano di questo tenore:

Se venisse approvata la Riforma, essa eliminerebbe dalla Costituzione…

  • ogni riferimento alle province, ma istituirebbe il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro
  • il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro e ogni riferimento alle province, eccetto quelle autonome di Trento e Bolzano
  • il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro
  • le province ed ogni riferimento al Senato

La domanda da un milione di euro, tuttavia, è un’altra: come, quando e con che modalità “somministrare” il test?

Personalmente credo che la chiave di volta sia la tecnologia.

L’idea sarebbe quella di far trovare al cittadino, nelle cabine elettorali, un dispositivo elettronico touch-screen che permetta al votante, su base volontaria, di effettuare il test prima del voto. Nel caso in cui l’utente scelga di non sottoporsi al test, il suo voto verrà conteggiato con valore 1; nel caso in cui sostenga il test, il suo voto conterà 1+ “qualcosa”, laddove quel “qualcosa” sarebbe proporzionale alla quantità di risposte esatte date nel test. 

Il software attingerebbe da un database contenente un numero possibilmente grande di domande, e ne selezionerebbe una decina in modo randomico (analogamente a quello che già avviene per gli esami teorici della patente); questo per limitare il fatto che, dopo un’ora di apertura dei seggi, online si troverebbero già domande e risposte. 

Per non rallentare troppo le procedure di voto, si potrebbe far sì che il tempo di riflessione per ogni domanda non superi i 30 secondi; trascorsi i quali, se il votante non ha risposto, il software considererebbe sbagliata la risposta.

Tra l’altro, poiché le operazioni di spoglio verrebbero fatte in automatico dal software, il tempo impiegato per permettere agli elettori di sostenere il test potrebbe essere recuperato. I seggi potrebbero restare aperti due giorni, anziché uno.

L’epistocrazia nelle elezioni amministrative/politiche/europee

Se sul piano operativo lo scenario potrebbe essere il medesimo (tablet, spoglio automatico), per le elezioni politiche il problema grosso è definire quali siano le discipline “fondamentali” per determinare se un cittadino è competente o meno. Negli Stati Uniti c’è chi propone di utilizzare le stesse domande affrontate dagli stranieri che vogliono ottenere la cittadinanza. 

Personalmente mi azzarderei a definire “fondamentale”:

  • sapere “chi può fare cosa”, cioè quali sono i poteri del PdR, del Presidente del Consiglio, dei vari Ministri, del CSM etc.
  • conoscere, anche solo in termini percentuali, alcuni dati macro-economici del Paese (o del Comune, o dell’Unione Europea, a seconda del tipo di elezione): PIL, debito, spesa pensionistica. 
  • conoscere i programmi elettorali dei partiti (domande del tipo “Il partito X propone di fare Y: vero/falso). Questi andrebbero obbligatoriamente pubblicati su apposito sito web ministeriale entro data definita per legge, pena esclusione dalle elezioni.

Come si può constatare, si tratta di argomenti che rientrano nell’ambito dell’oggettività, non coinvolgono le opinioni e sulla cui importanza mi pare francamente difficile dubitare. 

Bibliografia:

  • Jason Brennan, Contro la democrazia, LUISS University Press, 2018.
  • Francesco Dalla Balla, Come vota il civilmente incapace? (PDF), in Forum di Quaderni costituzionali, nº 9, 2014, ISSN 2281-2113 (WC · ACNP).
Articolo scritto per Hic Rhodus da Leonardo Zampi.
30 anni, laureato in archeologia ma faccio tutt'altro nella vita. Politicamente mi definisco liberale (e anche un po' libertario) e progressista. Dal 2015 sono attivista del Partito Pirata. Amo la satira (meglio se intrisa di black humor) in ogni sua forma, e io stesso ogni tanto mi cimento nella scrittura di racconti satirici ambientati nell'Italia contemporanea (che di spunti, ahimé, ne offre molti).