Salvini, libero Ministro di uno Stato illiberale

In un certo senso, questo è un post largamente tardivo. S’è detto e scritto di tutto sul comportamento del Ministro Matteo Salvini nella vicenda della nave Diciotti, dipingendolo con tinte che vanno dal rosso-Satana al tricolore-eroedellapatria. Allo stesso modo, è ormai inutile aggiungersi a chi ha commentato l’insolita procedura adottata dai senatori del M5S per decidere cosa votare alla richiesta di autorizzazione a procedere, l’affidabilità della piattaforma Rousseau, eccetera. Su tutto questo ho naturalmente le mie opinioni, ma ne avrete già lette di molto simili e vi sarete ormai formati le vostre.

Quello che invece non mi pare sia stato osservato da nessuno è qualcosa che a me sembra anche più importante dell’episodio stesso, perché è un segno molto chiaro dei rischi che corriamo in questa nostra Italia dove la transizione di ispirazione platonica da democrazia a demagogia si può considerare compiuta. Questo segno è solo secondariamente determinato dalle caratteristiche delle forze politiche oggi al governo in Italia, o dal loro “contratto di governo” che personalmente considero un autentico pactum sceleris: l’insidia viene da più lontano, anche se il fatto che si sia manifestata ora dipende certo anche dal fatto che Ministro dell’Interno sia Salvini e non San Francesco.

Innanzitutto, è necessario ricordare che l’attuale legge sulla responsabilità penale dei Ministri, in base alla quale è stata sottoposta al Senato la richiesta di autorizzazione a procedere, risale al 1989. Fino allora, un Ministro accusato di un reato commesso nell’esercizio delle sue funzioni poteva essere giudicato solo dalla Corte Costituzionale, se messo in stato di accusa dal Parlamento stesso. Dal 1989, a giudicare i reati dei Ministri è il cosiddetto Tribunale dei Ministri, che poi è sostanzialmente una sezione speciale della Corte d’Appello di ciascun distretto giudiziario, di volta in volta ovviamente quello competente per territorio in base a dove il reato sarebbe stato commesso. Questa modifica al trattamento dei Ministri è, evidentemente, ispirata a un principio di maggiore parità di trattamento con i cittadini comuni, e non è certo in sé criticabile; il punto è che la legge prevede però che per poter procedere nei confronti di un Ministro, il Tribunale competente debba richiedere l’autorizzazione al competente ramo del Parlamento. Questa autorizzazione a procedere non deve essere confusa con quella che era in vigore per tutti i parlamentari fino al 1993 e che poi è stata abolita, rimanendo necessaria solo per procedere all’arresto o alle varie forme di intercettazione. La cosiddetta immunità parlamentare era stata pensata essenzialmente per proteggere i rappresentanti del popolo da una (vera o presunta) persecuzione giudiziaria che mirasse a “neutralizzarli” politicamente, ed è stato l’abuso che ne hanno fatto i nostri politici a farla ridimensionare. L’autorizzazione a procedere per i Ministri, invece, ha tutt’altro scopo: viene infatti negata quando l’inquisito

“Abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di
Governo”

Qui risiede il problema che quasi nessuno ha ritenuto di commentare. Non è un caso che tra i pochissimi ci sia un politico già magistrato e quindi ben consapevole delle implicazioni della legge come Luciano Violante che già da qualche settimana aveva dichiarato: “Sia chiaro: io non condivido le politiche sulla immigrazione di questo governo, però Salvini ha ragione: se non riconoscete questa giustificazione, non riconoscete le scelte politiche compiute dal governo. E questo ha delle conseguenze politiche inevitabili”, e, più avanti: “Un leader nella campagna elettorale può anche proporre la pena di morte. Questa impostazione mette in primo piano il tema della prevalenza della politica rispetto alle regole […] quello che io dico è giusto perché il popolo l’ha condiviso. Questo passaggio fa saltare il meccanismo dello Stato di diritto”.

Ecco il punto centrale, che vorrei sottolineare più di quanto abbia fatto lo stesso Violante, che sembra addebitarlo più a questo governo che alla legge. Immaginiamo che un Ministro, nell’esercizio delle sue funzioni (abusandone, ma nella sua veste ministeriale) commetta una grave violazione di un diritto costituzionale di un cittadino (che so, ordini a un suo sottoposto di compiere un arresto illegale, o di torturare un detenuto), e supponiamo che un Tribunale chieda l’autorizzazione a processarlo. I parlamentari che sostengono il Governo, in base alla legge che ho richiamato, possono legittimamente negare l’autorizzazione anche se convinti che il Ministro sia colpevole, a patto che giudichino che quell’atto sia nell’interesse pubblico. Non è necessario che pensino che lui sia innocente, che ci sia il cosiddetto fumus persecutionis: anche se sono convinti che il Ministro abbia commesso un reato, basta che condividano la “linea” in base alla quale ha operato. E, d’altronde, se il Ministro è espressione della maggioranza parlamentare, perché non dovrebbero condividerne le azioni? La legge, così com’è, sancisce di fatto l’impunità politica di un Ministro che sia, all’estremo, espressione di una coalizione di stampo totalitario. Se la maggioranza (dei parlamentari, ma anche degli elettori, perché no? Parliamo di un governo democraticamente eletto) ritiene che sia nell’interesse del Paese violare i diritti costituzionali di una minoranza, e un Ministro agisce contro la legge appunto in violazione di questi diritti, questo Ministro non è di fatto punibile, e non per un abuso ma per una logica interpretazione della legge sulla responsabilità penale dei Ministri. Si tratta, in ultima analisi, della perfetta via che conduce alla dittatura della maggioranza, e alla fine dello Stato di diritto.

Tutto questo, in linea di principio, non ha nulla a che vedere con questo governo e tantomeno con Matteo Salvini, che nel 1989 non aveva ancora sedici anni ed era fresco reduce dalla partecipazione a Doppio Slalom, il quiz condotto da Corrado Tedeschi su Canale 5. Se oggi queste considerazioni non sono puramente accademiche e ho voluto pubblicarle qui su Hic Rhodus, è però perché questa prospettiva della dittatura della maggioranza, qui e oggi, non mi pare, appunto, accademica; e, purtroppo, lo conferma il fatto che Lega e M5S abbiano consapevolmente usato la norma che ho illustrato per affermare nei fatti che la coerenza politica del Governo prevale sui diritti delle persone. Il cortocircuito tra un popolo attraversato da linee divisive di ostilità e rancore rivolte contro minoranze interne quanto contro “minacce” esterne, e una leadership politica che offra come ricetta lo smantellamento, o più facilmente lo svuotamento, delle garanzie costituzionali, è un pericolo reale. E dal passaggio dalla demagogia all’autocrazia, insegnava il greco Polibio, non si torna facilmente indietro.

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