La direttiva UE sul copyright e i blog fuorilegge

Il 26 marzo scorso, il Parlamento Europeo ha approvato la Direttiva sul Diritto d’autore nel mercato unico digitale (testo in italiano qui, testo in inglese qui), che ha suscitato, e continuerà a suscitare, notevoli controversie. In realtà, anche se la nostra stampa ha dedicato uno spazio limitato alla vicenda, per mesi su questo argomento si sono scontrati importanti (e potenti) gruppi di interesse, con le grandi aziende editoriali sul fronte favorevole alla direttiva e i grandi service provider digitali su quello ostile. Purtroppo, sia l’uno che l’altro schieramento hanno utilizzato slogan più che argomentazioni, gli uni lamentando l’attuale impossibilità per chi produce contenuti di valore di ottenere un equo beneficio dai profitti che i “giganti del web” ottengono semplicemente dalla condivisione di quei contenuti, gli altri invocando la difesa della libertà di espressione minacciata da pericolose forme di censura.

Il problema è che slogan come questi quasi mai sono davvero pertinenti all’argomento di cui si discute, e questo caso non fa eccezione. Se è vero (e io penso che sia vero) che chi produce contenuti di qualità sostenendo costi, investendo risorse, eccetera, è oggi inadeguatamente compensato per il valore che quei contenuti generano per le piattaforme come Google o Facebook, è anche vero che questa considerazione non dimostra affatto che la Direttiva in questione risolva questo problema, o che non produca altre distorsioni. La direttiva va giudicata nel merito, ed è un merito complesso, perché, come tutte le direttive europee, dovrà poi essere recepita dai vari Stati sotto forma di legge, e a quel punto verranno probabilmente al pettine alcuni nodi di cui parleremo tra poco.

I punti su cui principalmente s’è appuntata l’attenzione dei commentatori sono due articoli della Direttiva: l’articolo 15 (in una numerazione precedente articolo 11, e la maggior parte dei commentatori fa riferimento appunto all’articolo 11) e l’articolo 17 (precedentemente articolo 13).

L’articolo 15 è quello che prevede la cosiddetta Link Tax, che poi come spesso accade non è una tassa e non si applica ai link. In pratica, esso dice che non si possono riportare titolo e un estratto di un articolo senza pagare i diritti a chi l’ha pubblicato. L’obiettivo dichiarato di questa norma sono i servizi come Google News, che aggregano riferimenti ad articoli accompagnandoli con i link alla pagina originale; dato che ovviamente Google con questo servizio ci guadagna e oggi non paga nulla agli editori, sembrerebbe una buona idea, no? Ma bisogna leggere il testo della Direttiva per capirne le implicazioni (uso la versione italiana, ma consiglio a chi conosca bene l’inglese di leggere quella):

“Gli Stati membri riconoscono agli editori di giornali stabiliti in uno Stato membro i diritti di cui all’articolo 2 e all’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2001/29/CE per l’utilizzo online delle loro pubblicazioni di carattere giornalistico da parte di prestatori di servizi della società dell’informazione.
I diritti di cui al primo comma non si applicano agli utilizzi privati o non commerciali delle pubblicazioni di carattere giornalistico da parte di singoli utilizzatori.
La protezione accordata a norma del primo comma non si applica ai collegamenti ipertestuali.
I diritti di cui al primo comma non si applicano all’utilizzo di singole parole o di estratti molto brevi di pubblicazioni di carattere giornalistico.”

Ora, qui il problema non è il fatto che una simile norma, adottata a livello nazionale, si sia già rivelata disastrosa in Germania e Spagna; il problema è che l’ambito di applicazione di questo articolo è contemporaneamente molto ampio e vago: ampio dal punto di vista dei soggetti obbligati, perché ne sono esclusi solo i singoli individui che ne facciano un uso privato o non commerciale; vago dal punto di vista dei contenuti, perché nessuno quando fa una citazione riporta solo il link a un articolo o “singole parole”, ma ne riporta magari qualche riga, per commentarlo, ad esempio. Non è un caso che Wikipedia sia insorta con particolare energia contro questo articolo, perché essa ospita “milioni” di riferimenti ad articoli e testi, e ai fini di questo specifico articolo la Direttiva non riconosce alle enciclopedie un’esenzione dall’obbligo di pagare gli editori:

A differenza dell’articolo 15, l’articolo 17 fa riferimento a prestatori di servizi di condivisione di contenuti online (in inglese online content-sharing service providers), da cui sono esplicitamente esclusi i soggetti come Wikipedia. Eppure anche questo articolo, il cui ragionevole scopo è evitare la libera diffusione di contenuti soggetti a copyright, presenta parecchi problemi. Vediamo il testo:

“Gli Stati membri dispongono che il prestatore di servizi di condivisione di contenuti online effettua un atto di comunicazione al pubblico o un atto di messa a disposizione del pubblico ai fini della presente direttiva quando concede l’accesso al pubblico a opere protette dal diritto d’autore o altri materiali protetti caricati dai suoi utenti. Un prestatore di servizi di condivisione di contenuti online deve pertanto ottenere un’autorizzazione dai titolari dei diritti di cui all’articolo 3, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2001/29/CE, ad esempio mediante la conclusione di un accordo di licenza, al fine di comunicare al pubblico o rendere disponibili al pubblico opere o altri materiali. […]
Qualora non sia concessa alcuna autorizzazione, i prestatori di servizi di condivisione di contenuti online sono responsabili per atti non autorizzati di comunicazione al pubblico, compresa la messa a disposizione del pubblico, di opere e altri materiali protetti dal diritto d’autore, a meno che non dimostrino di: a)  aver compiuto i massimi sforzi per ottenere un’autorizzazione, e b)  aver compiuto, secondo elevati standard di diligenza professionale di settore, i massimi sforzi per assicurare che non siano disponibili opere e altri materiali specifici per i quali abbiano ricevuto le informazioni pertinenti e necessarie dai titolari dei diritti.

In pratica, si tratta di una norma che, in qualche misura, è già oggi applicata da YouTube: si presuppone che le piattaforme di condivisione siano responsabili del comportamento dei loro utenti, e che debbano preventivamente impedire loro di caricare contenuti soggetti a copyright. Per quanto la Direttiva non indichi specifiche soluzioni tecniche, e parli in sostanza di “best effort”, in concreto l’unico modo di applicare questa norma è che nelle piattaforme come Facebook siano incorporati dei filtri capaci di riconoscere, che so, un video della Disney e bloccarne il caricamento, a meno ovviamente che Facebook abbia fatto un accordo di licenza con la Disney. Questo può essere un fatto positivo, anche se comporta il rischio che provider più piccoli di Facebook abbiano difficoltà ad adeguarsi, e, d’altra parte, questi filtri non sono infallibili e possono sia lasciar “passare” contenuti coperti da copyright (ma in questo caso il provider potrà ragionevolmente dimostrare di aver erogato il suo “best effort”), sia bloccare contenuti legittimi, o magari commenti o parodie, eccetera. In ogni caso, le restrizioni saranno probabilmente notevoli, e la nostra esperienza di Internet cambierà, mentre mi sembra chiaro che solo gli editori più grandi otterranno che Facebook o altri stipulino con loro accordi di licenza.

A complicare il tutto, c’è l’ovvia considerazione che questa Direttiva dovrà essere tradotta in legge di ventotto (ventisette?) Stati nazionali, con la probabilità che le leggi risultino diverse. Ma quando è in gioco Internet, i confini degli Stati sono labili, ed è assurdo pensare che Google o Facebook decidano di applicare soluzioni tecniche diverse per Italia, Austria o Slovenia, per dire. Mi sembra realistico pensare che i provider globali finiranno per adottare per tutta l’UE una soluzione “cautelativa” allineata alle norme nazionali più restrittive, il che finirà per accentuare i caratteri discutibili di cui abbiamo parlato sopra. Mi sembra insomma che questa Direttiva, pur mirando ad affrontare un problema reale (l’enorme sbilanciamento tra i profitti di chi condivide i contenuti e quelli di chi li crea), non sia sufficientemente attenta a evitare danni superiori ai benefici che promette.

Infine: e noi? Non voglio, per carità, spaventare l’amico Claudio Bezzi, ma è tutt’altro che certo che questo nostro blog non diventi “fuorilegge”. Non tanto per i pochi casi, evitabilissimi, in cui riportiamo pari pari articoli di giornali online, pratica che a mio avviso porta loro più visite di quante ne sottragga, ma perché spesso quello che scriviamo consiste in approfondimenti di temi trattati dalla stampa o da altre pubblicazioni, da cui magari estraiamo passaggi, tabelle, infografiche. A meno di non poter dimostrare che noi operiamo in modo rigorosamente “non commerciale”, o che le nostre fonti rilascino licenze public domain per i loro contenuti, non escluderei che Hic Rhodus rientri tra i trasgressori dell’articolo 15 della Direttiva. Inoltre, noi pubblichiamo il nostro blog su WordPress.com, che può a ben diritto essere considerata una piattaforma di “condivisione di contenuti online”, e sarebbe quindi responsabile di nostre eventuali violazioni… o no?
Bisognerà attendere la conversione in legge nazionale della Direttiva, ferma restando la difficoltà di uniformare le diverse leggi nazionali. Chissà che stanno pensando gli amici di WordPress.com…

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