Lettera di un europeista convinto, ma non acritico

Qualcuno ha scritto che “un’Europa realmente unita, non dovrebbe voltarsi dall’altra parte, ma avrebbe oggi il dovere di stringersi, con misure concrete, attorno all’Italia che soffre. Invece, purtroppo, si percepisce indifferenza e lontananza”. 

Si percepisce indifferenza e lontananza perché questa è la narrativa corrente, alimentata anche da certi media per rincorrere -forse con poco spirito di servizio- un’opinione pubblica scossa e disorientata, che appare scivolare, in questi tempi difficili, verso le facili certezze del qualunquismo e del risentimento verso presunti colpevoli esterni. Fattori che risultano poi il naturale alimento di sovranismo e populismo. Di destra e di sinistra. Tutti inclini, molti dei media e taluni degli abituali opinion leaders da studio televisivo – a stigmatizzare pensieri, parole, opere ed omissioni di Berlino, Parigi, Bruxelles e Francoforte. Forse perché il ricorso ai soliti rassicuranti luoghi comuni che distolgono l’attenzione dal quadro interno e dalle nostre responsabilità, risulta più pagante -e quindi scelta editorialmente più agevole- rispetto all’invocazione di un salutare esame di coscienza nazionale, non fazioso, non per cercare colpevoli, ma per trarre i giusti insegnamenti dagli errori passati e ripartire poi con “il piede giusto”.

Tutto ciò non implica comunque un’assoluzione per partners europei non certo “senza peccato”, né negazione delle fragilità di un’Unione Europea intergovernativa, all’insegna “dell’ognuno per sé, in ordine sparso”. Una UE che, così come oggi configurata, ha mostrato tutti i suoi limiti. A maggior ragione a fronte di una crisi epocale che postulerebbe invece un’Europa più integrata e coesa. Una UE meno lasciata agli equilibri di forza fra Governi e più comunitaria, in nome di una sovranità europea che consenta al Vecchio Continente di essere più funzionale e funzionante, Meglio in grado cioè di affrontare le odierne sfide. Quelle da coronavirus, ma ovviamente non solo. Ad esempio quelle geopolitico-strategiche, in un mondo sempre più globale. 

Ma, tutto ciò detto, per risollevarci dovremmo intanto cominciare da noi stessi. Nell’attesa (e con questa speranza) prevale invece un atteggiamento ancora “vecchio stile”, combustibile per un vittimismo sempre più diffuso. Proprio di un Paese pervaso (pur con non irrilevanti lodevoli, ma ancor minoritarie eccezioni) da una certa arretratezza culturale e da provinciale autoreferenzialità. È un’opinione pubblica, quella italiana, che guarda all’Europa con lo stesso atteggiamento assistenzialista con cui guarda allo Stato centrale a Roma. Pretendendo (talora a torto) che Bruxelles risolva problemi che invece sono di nostra esclusiva responsabilità.  E certo non aiuta che, il primo Stato membro dell’Unione Europea per popolazione e forza economico-finanziaria, la Germania, sia guidata da una donna spesso identificata (anche dai tedeschi, che non a caso la chiamano Mutti) come mamma rigorosa e severa. Inconsciamente una madre matrigna per molti italiani…

Di qui, dunque, lo sguardo “strabico” -o forse miope- verso l’Europa. Un’Unione Europea, che – va per inciso ricordato- non è per l’Italia un’entità “altro da sé”, essendo la nostra Repubblica parte integrante del club europeo e suo membro co-fondatore. Oltre a pretendere da esso di “stringersi, intorno all’Italia”, dovremmo intanto guardare a noi stessi. E farci un esame di coscienza spassionato. A volte dimentichi – o forse volutamente ignorando – come il coronavirus abbia messo drammaticamente a nudo molti dei nostri limiti. Ad esempio, quelli di un’architettura istituzionale ancor non ben “registrata” lungo l’asse Stato centrale/Regioni/Comuni. Come pure i limiti di un’economia reale in stagnazione da oltre 20 anni a causa di riforme strutturali mai effettuate. E, last but not least, i limiti di un debito pubblico che ci trasciniamo da metà anni “80, senza avere mai avuto il coraggio politico di ridurlo con scelte coraggiose, serie e credibili. Quelle che, esse sì, avrebbero ridotto o azzerato lo spread. Con ciò, facendo finta di ignorare quanto l’attuale indebitamento penalizzi l’economia reale e le “tasche degli italiani” in termini di livelli di tassazione.

L’attualità di questi difficili giorni ci offre purtroppo molti spunti di riflessione. Solo per fare un esempio, non dovremmo forse chiederci se l’evidenza di una sanità pubblica più efficiente e meno costosa nelle nostre Regioni del nord rispetto a quelle del sud, non sia da attribuire a nostre decennali responsabilità. O se la realtà di un’Italia non tutta in grado di lavorare in smart working perché non l’intero territorio è raggiunto dalla banda larga non sia da ricondurre alla nostra negligente debolezza infrastrutturale e non, viceversa, ai voleri di Bruxelles, Berlino, Parigi ed altri, quando richiamano la necessità del rispetto di un Patto di Stabilità anche da noi liberamente sottoscritto.

Capitali, quelle di cui sopra, da cui giustamente odiamo sentirci dire quello che inconsciamente tutti noi sappiamo e che dovremmo ricordare da soli, ma che ci fa comodo ignorare. E cioè, in primis, che la svendita della nostra sovranità nazionale risiede nell’entità del debito pubblico e non nei poteri (liberamente) trasferiti alla dimensione comunitaria. Lo dimentichiamo senza prendere reale coscienza di un corollario assai logico. Di come cioè, fintanto che l’indebitamento dello Stato permarrà di queste dimensioni, resteremo dipendenti dal “ben volere” o comunque subordinati alle priorità dei nostri creditori per sempre nuovi prestiti con cui estinguere i precedenti, pagarne gli interessi ed ottenere nuovi fondi per far fronte ai servizi pubblici indispensabili. 

Una spirale senza fine, che indebolisce il nostro peso specifico politico, quando non anche la nostra credibilità e la percezione esterna della nostra affidabilità. Nei confronti dei partners UE, delle istituzioni finanziarie internazionali ed europee e dei mercati finanziari. Che ben sanno come, a fronte di un debito pubblico elevato, altrettanto elevato in termini assoluti risulti in Italia il risparmio privato e la ricchezza detenuta da imprese e famiglie, a fronte peraltro di tassi di evasione ed elusione fiscale che rimangono purtroppo non meno importanti. E faticano quindi a comprendere la nostra incapacità ad affrontare e risolvere “in casa” un problema tutto italiano. Un messaggio, questo, anche per i sovranisti. Che osteggiano il MES e si oppongono alla sua riforma, temendone le condizionalità in termini di quegli obblighi di ristrutturazione del debito, che accompagnano l’eventuale accesso a tale strumento finanziario creato a supporto degli Stati in difficoltà. Se non vogliamo che, se un giorno con “l’acqua alla gola”, tale ristrutturazione ci venga imposta dai creditori o dalle grandi istituzioni finanziarie multilaterali, saggio sarebbe provvedere in piena autonomia- e con scelte virtuose, prima che sia troppo tardi- a riportare il livello di indebitamento su valori più sostenibili. Con misure inevitabilmente dolorose, ma comunque frutto di una nostra libera e sovrana determinazione. 

Un percorso, questo, che abbiamo sempre rinviato, quando non anche accantonato, perché elettoralmente penalizzante. Ma purtroppo inevitabile. E così il debito pubblico, resta un fardello che ci trasciniamo dietro da anni e ci condiziona in negativo, penalizzando i margini di manovra delle nostre manovre economiche, ma anche il peso della nostra voce a Bruxelles e l’incisività dell’interlocuzione con gli altri Stati membri della UE. Soprattutto sui dossier dalle forti implicazioni di carattere finanziario. Un fardello che, sul piano internazionale, rischia intanto di indurci a qualche scelta strategica “azzardata”, che forse altrimenti non compiremmo.

Va comunque da sé che tutto ciò non dovrebbe fungere da alibi ed esentarci da un approccio nei rapporti esterni più presente ed assertivo, da grande Paese consapevole della propria statura. Ed in questo senso, dovremmo forse focalizzarci meno su mascherine e ventilatori, di cui neanche gli altri dispongono a sufficienza e che noi ora giustamente abbiamo iniziato a produrci in proprio (in precedenza dimenticati che siamo l’ottava maggiore potenza economica mondiale, ai primi posti per manifattura). Ed esercitare invece quel ruolo che ci compete (come gli altri partners europei da noi si aspetterebbero) in virtù, appunto, della nostra dimensione, della forza (malgrado tutto) della nostra economia e dell’entità del nostro apporto al bilancio UE.  Quel ruolo di primo piano che invece spesso abbiamo esercitato con troppa timidezza, salvo poi lamentarci del prevalere di altrui interessi o di nostre esclusioni dai consessi che veramente contano. 

Dopo i primi provvedimenti governativi anti-Covid19 non avremmo, ad esempio, dovuto rivolgerci agli altri Stati membri con un unico messaggio forte, sostanzialmente dicendo loro: “adottate e fin da subito le stesse misure che ha adottato l’Italia. Il coronavirus non è un problema italiano, ma mondiale e prima o poi raggiungerà purtroppo anche voi. Traete le giuste conclusioni dal modello italiano, anche dai suoi errori per non ripeterli, ma fate in fretta prima che sia troppo tardi”? Non ne avremmo forse guadagnato in prestigio, credibilità e peso specifico presso Paesi che oggi si avviano comunque a seguire il nostro esempio? Forse sì. Essi avrebbero ancor prima ed ancor più apprezzato gli sforzi italiani e forse meglio preso coscienza della propria sottovalutazione della situazione. Nostra e loro.

Sarebbe stato, questo, un atteggiamento certamente più costruttivo che non lo sterile confronto contabile fra i dati del contagio italiani e tedeschi basati sul diverso numero dei tamponi effettuati. O della maniacale attenzione alle mosse di Berlino, con l’obiettivo di sempre nuove occasioni per stigmatizzarne i comportamenti. Un’occasione persa, su cui riflettere. Siamo invece sempre in tempo a riflettere con onestà su noi stessi come Paese. Sarebbe testimonianza di forza, maturità ed auto-consapevolezza, non certo di debolezza.  Ma sarebbe comunque una riflessione difficile e forse dolorosa, certamente meno foriera di facili consensi rispetto alla solita litania del “ce l’hanno tutti con noi, ci hanno ancora una volta abbandonato”. A parte la mistificazione informativa (è un falso ideologico), questo atteggiamento riflette un vittimismo (con il corollario di risentimenti verso ben identificate Capitali) che nasconde un nostro inconscio e mai superato atavico complesso di inferiorità (ugualmente rinvenibile nell’opposto ed altrettanto deprecabile compiaciuto atteggiamento di auto-denigrazione nazionale, soprattutto verso l’esterno). Complesso in parte figlio della nostra storia ed in parte di un complesso di fattori. Non ultima, probabilmente, la circostanza per cui, come Nazione, non abbiamo conosciuto una vera e diffusa rivoluzione industriale (con il relativo portato culturale) e mai perso dunque l’originaria anima contadina. 

Cresceremo mai? Forse quando smetteremo di essere un “popolo di cialtroni ed eroi” (come ha scritto qualcuno in Italia) per diventare invece semplicemente normali. Un’aurea mediocritas, nel senso latino del termine. Se così ora fosse, il coronavirus avrebbe almeno portato con sé una palingenesi del Paese ed una sua modernizzazione. Non sarebbe davvero poco.

Articolo scritto per Hic Rhodus da Valerio Paggi
Analista politico, esperto di relazioni internazionali, spirito libero e blogger per diletto