Sostegno ai redditi e politiche attive dopo il decreto Cura Italia

Se è vero che nelle fasi di crisi acuta si velocizzano e semplificano i processi decisionali, può essere utile cogliere alcuni segnali di trasformazione del welfare sollecitati dai provvedimenti del decreto Cura Italia. Tra altri punti, il decreto mette al centro dell’agenda politica la questione del sostegno ai redditi, che negli ultimi anni è stata dominata dalle discussioni e polemiche sul reddito di cittadinanza. L’emergenza ha però cambiato i termini tradizionali del problema perché ora non ci troviamo di fronte solo alla povertà, ma al rischio di impoverimento di una larga parte della popolazione.

Come è noto, il decreto ha previsto una serie di misure a difesa dell’occupazione, dei redditi e della capacità produttiva, in una fase di inibizione pressoché totale delle attività economiche che si è accettato e perseguito come conseguenza del lockdown, cioè della strategia individuata per contrastare e rallentare la diffusione del virus COVID-19 ed attrezzare nel frattempo il sistema sanitario ospedaliero, scongiurandone il collasso.

Si tratta di misure passive, basate sulla leva delle risorse finanziarie: da una parte trasferimenti da parte dello Stato, dall’altra la possibilità per famiglie e imprese di astenersi dallo spendere attraverso la sospensione di mutui, il congelamento di adempimenti fiscali e dei versamenti contributivi, ecc. e, infine, agevolando l’accesso al credito. La logica del decreto è chiara: contribuire a mantenere i redditi e garantire liquidità alle imprese per consentire al paese di resistere durante il passaggio della tempesta. 

Tra i contenuti del decreto ve ne sono alcuni che affrontano una stortura storica del nostro sistema di protezione sociale: i diversi gradi di protezione riservata ai cittadini secondo la categoria di appartenenza. Vi sono infatti novità positive, ancorché parziali, che vanno nella direzione di un maggior universalismo. La prima riguarda l’estensione dello strumento della Cassa Integrazione e dell’Assegno Ordinario gestito dai Fondi di solidarietà a tutti i lavoratori dipendenti del privato, senza più il limite della dimensione aziendale. Anche le microimprese possono quindi vedersi riconosciuta la cassa integrazione (in deroga).  Una seconda è il riconoscimento di un’indennità – anche se una tantum e di 600 euro – a una fascia tradizionalmente priva di garanzie nei periodi di disoccupazione, cioè ai lavoratori autonomi iscritti alle gestioni speciali dell’Ago e ai liberi professionisti con partita Iva non iscritti agli ordini professionali; bonus che si estende anche ai lavoratori in rapporti di collaborazione coordinata e continuativa iscritti alla Gestione separata (non titolari di pensione e non iscritti ad altre forme previdenziali), agli artigiani, commercianti, stagionali dei settori turismo, lavoratori dello spettacolo e ad alcuni altri settori. Per i professionisti iscritti alle casse di previdenza private è previsto invece un indennizzo specifico, chiamato reddito di ultima istanza, anch’esso di 600 euro e soggetto a soglie di reddito.

Se vi è quindi una salutare tendenza ad una maggiore inclusività, a ricomprendere tipologie di lavoratori senza garanzie, al tempo stesso le misure ricalcano l’impianto categorialista del nostro sistema di ammortizzatori sociali. Resta in questo modo escluso il settore del lavoro domestico, una mancanza poco comprensibile in una fase, oltre tutto, di particolare rischio per colf e badanti. Queste potranno probabilmente essere ricollocate tra i beneficiari del reddito di ultima istanza, il quale comunque risulta sottofinanziato. L’indennità di 600 euro contemplata per autonomi e professionisti, anche se sarà riproposta nei mesi successivi, è un semplice palliativo temporaneo che non compensa affatto la perdita di reddito di una platea di circa 5 milioni di persone, a fronte – ancora una volta – del maggior grado di protezione del lavoro dipendente standard, che ora opportunamente arriva a coprire anche il lavoratore della microimpresa. Oltre a ciò, il bonus viene riconosciuto a tutti indipendentemente dalle perdite subite, rinunciandosi a un criterio di equità che sarebbe stato importante introdurre. Ancora, invece della creazione di un nuovo istituto a supporto dei redditi – il reddito di ultima istanza –, ci si poteva avvalere del reddito di cittadinanza, uno strumento già esistente, potenziandolo e rivedendone i criteri d’accesso, anche se limitatamente al periodo dell’emergenza Covid-19. Il reddito di cittadinanza dovrebbe poter diventare prima o poi un dispositivo per garantire redditi sufficienti, senza più confonderlo con uno strumento di politiche per l’occupazione, di cui certamente vi è bisogno, e molto, ma che sono un’altra cosa. 

Nel decreto si ravvisa anche l’assenza di riferimenti a due dispositivi che dovrebbero essere rafforzati, la NASPI, l’indennità di disoccupazione per lavoratori dipendenti e assimilati, e la DIS.COLL per i collaboratori co.co. Inoltre, anche se il decreto preclude, dal 17 marzo e per 60 giorni la possibilità di licenziare, è probabile che molte persone abbiano perso il lavoro nel contesto della crisi, soprattutto nella vasta area del precariato. In generale, rimane penalizzata tutta l’area del lavoro saltuario ed irregolare. 

Anche sul fronte degli aiuti alle famiglie – un ambito storicamente trascurato dal welfare italiano – accanto ad alcune azioni positive non si possono non rilevare i limiti dell’impostazione seguita. Vengono concessi congedi di 15 giorni per i genitori con figli fino a 12 anni (senza limite d’età nel caso di figli disabili), estendendo la misura anche agli autonomi iscritti alla gestione separata dell’Inps. In alternativa, è prevista la possibilità di usufruire di un bonus di 600 euro per l’acquisto di servizi di baby-sitting.  È un po’ poco, nel complesso, soprattutto in considerazione del confinamento forzato delle famiglie in casa. Donne sole con figli, famiglie numerose, famiglie costrette in spazi angusti, presenza di bambini o altre persone disabili, separazione dai nonni e da altre figure di riferimento, genitori separati con figli, isolamento e solitudine dei bambini e degli adolescenti, difficoltà del sistema educativo ad approntare forme sistematiche di didattica on line, sono molte le situazioni di disagio che si presentano nel periodo d’emergenza e che colpiscono in maniera diseguale la popolazione, a svantaggio dei più vulnerabili. Per tanti bambini disabili o in difficoltà e per quelli più a rischio di “povertà educativa” la mancanza di supporti finanziati ed organizzati può innescare processi di peggioramento.

Anche per la popolazione anziana valgono considerazioni simili, sia per quella autosufficiente sia per coloro che si trovano nei presidi socio-sanitari e socio-assistenziali. Oltre ad essere un gruppo particolarmente a rischio di contagio e morte da o per Civd-19 (senza contare il fatto che le strutture che ospitano anziani sono potenziali focolai, se non intervengono misure protettive ad hoc), nella congiuntura attuale gli anziani vedono aggravarsi tutti i fattori di vulnerabilità, soprattutto per l’impossibilità o difficoltà di interazione con i familiari.

Il decreto Cura Italia lascia intendere che sono le Regioni e i Comuni a doversi fare carico delle famiglie e degli anziani, in collaborazione con il terzo settore. Tuttavia la crisi legata all’emergenza epidemiologica è allo stesso tempo sanitaria, economica e sociale. Le tre dimensioni non possono essere disgiunte, meno che mai è possibile che il paese si muova in ordine sparso, riproducendo segmentazioni e disparità tra gruppi e tra territori. L’iniziativa locale semmai deve aggiungersi, non può sostituirsi ad un’azione centrale volta a mobilitare il sistema di welfare, e a riorientarlo, in modo da assicurare a tutti protezione, dando priorità e differenziando gli interventi a seconda dei bisogni. Così come nel settore sanitario in queste settimane si è assistito a un processo di centralizzazione, anche negli altri comparti del welfare, in particolare il lavoro e la famiglia, la crisi richiede indirizzi e misure di carattere nazionale. 

Tornando alla questione dei redditi, il decreto contiene una spinta oggettiva verso l’universalismo, a partire dal principio del nessuno sarà lasciato indietro. Riproduce però, come si è visto, l’assetto categoriale del sistema, e lascia fuori o con minori tutele gruppi tradizionalmente meno protetti. 

Dato che emergenza e ricostruzione saranno fasi intrecciate, un nuovo progetto deve essere pensato sin da ora collegandosi alla tendenza positiva marcata dal decreto, ma andando oltre il suo approccio: partire dalla nozione di bisogno, invece che dalle spettanze che competono alle categorie, dare risposte alla generalità delle persone e graduarle in base alle condizioni di bisogno di ciascuna, è probabilmente il passaggio coraggioso che può essere disegnato in questa fase. Decisioni che in altri tempi richiederebbero faticosissime e lunghissime mediazioni, oggi possono essere prese con maggior rapidità.  Ripeto le linee principali che la fase d’emergenza consente di mettere a fuoco più facilmente rispetto al passato, grazie anche alla maggiore legittimazione sociale dell’intervento pubblico a favore dei redditi: universalità della protezione dei redditi, ridefinizione delle misure di sostegno secondo il principio dei bisogni, loro calibratura in base alla specificità dei bisogni e, aggiungerei, semplificazione (anche per facilitare l’accesso alle misure). 

In questa direzione si stanno muovendo ad esempio il Forum Disuguaglianze e Diversità (ForumDD) e l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), con una proposta per “evitare da subito il diffondersi dell’impoverimento e l’acuirsi delle disuguaglianze con interventi organici, semplici, che arrivino a tutti. Ma [che] devono allo stesso tempo rappresentare il miglior punto di partenza per le azioni da compiere in seguito.”  Delle 4 misure che propongono, due sono già esistenti (NASPI e DIS.COL e Cassa Integrazione); una, il Sostegno di Emergenza per il Lavoro autonomo, è destinata ad ogni forma di lavoro autonomo, commisurando l’importo della prestazione alle condizioni economiche e alla perdita di guadagno; l’ultima, infine, il Reddito di Cittadinanza per l’Emergenza, è una versione temporanea del Reddito di Cittadinanza (RdC), modificato per agevolarne e promuoverne l’utilizzo e senza le condizionalità di quello (peraltro attualmente sospese dal Decreto Cura Italia).

Senza entrare nel merito delle singole misure, si apprezza la visione d’insieme che ne ispira il disegno, nonché il richiamo costante, forte, all’orientamento al futuro, a mettere subito in agenda la revisione del sistema del welfare. 

Rispetto alla tutela dei redditi, insieme ad un set di supporti economici strutturati in base alle linee suaccennate, è indispensabile tornare a mettere mano alle politiche attive, che in Italia non godono di buona salute. A differenza della sanità e degli aiuti pubblici ai redditi, divenuti temi popolari e di grande consenso in questa fase, le politiche attive continuano ad essere ignorate dalla cittadinanza. Eppure costituiscono l’altra faccia della medaglia delle prestazioni monetarie per chi ha perso il lavoro o non può lavorare. Come non operare da subito, per esempio, per fronteggiare il deterioramento delle competenze professionali in questa lunga transizione tra inattività coatta e ripresa? Del concetto di transizioni si parlava molto già prima dell’emergenza coronavirus per indicare una caratteristica strutturale degli odierni mercati del lavoro, dove sono sempre più improbabili carriere continue e lineari. Bisogna che nella gestione della crisi la preoccupazione per le politiche attive entri a pieno titolo nell’agenda di policy nazionale e si arrivi a predisporre un piano di riforme indirizzato a superare i nostri ritardi storici, dai quali tra l’altro discendono forti disuguaglianze sociali. Indico qui solo i titoli di quattro fronti: i divari digitali (infrastrutture e competenze); la formazione, tra cui la formazione continua (nel lavoro e nei periodi di non lavoro); l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro (di cui si occupano le agenzie dell’impiego); e la riconversione o riqualificazione di lavoratori ed aziende che, sempre più numerosi a causa degli effetti della crisi, non potranno più continuare a fare quello che facevano prima, o non più allo stesso modo (pensiamo ai viaggi di studio all’estero, al turismo, ecc.)

È giusto in conclusione che in questo momento lo Stato si faccia carico di tutti mediante la leva finanziaria, ma non basta. Il Decreto Cura Italia si preoccupa della messa in sicurezza nell’emergenza. Ci si attende a questo punto una strategia che vada oltre. Ridisegnare in senso universalista il sistema dei sostegni al reddito unitamente al rilancio e alla riforma delle politiche attive appare una priorità collettiva per attrezzare il nostro welfare ora che il paese sta per entrare in una nuova e forse devastante recessione.