La Grande Guerra al virus, ovvero come combattere la guerra sbagliata nel modo sbagliato

L’indiscriminato ricorso a terminologie ed analogie di stampo bellico nella narrazione della crisi epidemiologica, economica e sociale che stiamo vivendo (“trincea”, “prima linea”, “guerra”, “potenza di fuoco” …) mi ha portato a sviluppare, lavorando sulla stessa marziale nota, delle considerazioni sul modo in cui questa lotta viene percepita e sullo “stile di comando” con cui viene condotta. 

Prima considerazione: quella contro il Coronavirus non è una guerra contro un avversario convenzionale. Non si tratta di confrontarsi con un nemico “regolare”, di cui armamento, organizzazione e procedimenti di impiego sono noti e le cui mosse, possibilità di azione e velocità di progressione possono essere pronosticati con relativa sicurezza. È piuttosto assimilabile a un movimento di insurrezione armata, che attacca, ha presa e si diffonde ove le condizioni sono a lui favorevoli e si ritira in clandestinità dove così non è, aspettando il momento opportuno per tornare allo scoperto e colpire ancora.  Secondo: di questo nemico si conosce poco, se non che – esattamente come un movimento insurrezionale che si rispetti – attecchisce, è più forte ed ha successo dove le condizioni demografiche, sociali ed economiche sono maggiormente favorevoli. Città versus campagna, aree industrializzate versus aree agricole, aree a alta densità abitativa versus aree meno fittamente popolate, presenza di situazioni diverse in aree poste a brevissima distanza l’una dall’altra se non contigue come nelle cosiddette Three Blocks Wars in cui una stessa unità si può trovare ad affrontare azioni di combattimento, condurre attività di peacekeeping e distribuire aiuti umanitari nell’ambito di tre isolati di una stessa area urbana: se appena ci si pensa, si vede come il paragone non sia azzardato.

Orbene, nel condurre una attività controinsurrezionale, in cui la distruzione del nemico passa ben più per la identificazione e la rimozione delle cause che hanno portato e favoriscono l’insurrezione che per la materiale distruzione delle cellule (una volta di più la similitudine ci sta tutta) avversarie vanno tenuti ben presenti tre concetti:

  • Primo: quello che ha funzionato bene qui oggi non è detto che funzioni altrettanto bene domani da un’altra parte;
  • Secondo: non sempre le decisioni più importanti vengono prese dai comandanti in capo. 

In sostanza, per sperare di avere successo in questo tipo di lotta, è necessario ricorrere ad una filosofia di comando basata sul principio della pianificazione centralizzata e dell’esecuzione decentralizzata, che promuova la massima libertà di azione e l’iniziativa individuale, garantendo ai subordinati, fino ai livelli più bassi, discrezionalità nell’assolvimento della missione assegnata, nell’ambito dell’intento del proprio comandante, nel rispetto dei vincoli da questi chiaramente fissati: anche per tutelare i propri dipendenti nella loro attività decisionale ed esecutiva, con chi comanda  deve dire chiaramente cosa vuole che sia fatto, cosa vuole ottenere, cosa NON deve essere fatto e  cosa NON vuole come effetti indesiderati. 

Va da sé che tutto questo (noto in ambito militare come Auftragstaktik o Mission Command ) non si improvvisa e che senza una formazione rigorosa che insegni come comportarsi, non funziona. Non si tratta di un allegro happening dove ognuno fa ciò che meglio crede, ma è la costante ricerca di equilibrio tra le disposizioni da eseguire e il modo di eseguirle in relazione alla situazione contingente. Non è nata da spiriti liberi e ansiosi di libertà, è la accettazione di un rischio calcolato sapendo che, lasciando una relativa libertà di esecuzione, si ottengono risultati migliori con minore fatica e danni.

Gli elementi principali che caratterizzano questa filosofia di comando sono l’illustrazione chiara del compito da assolvere e del fine da conseguire; l’incoraggiamento di una disciplinata iniziativa, a tutti i livelli; l’emanazione di disposizioni basate sulla missione anziché su dettagliate modalità esecutive; l’allocazione delle risorse necessarie all’esecuzione della missione e condivisione delle informazioni utili a una comprensione comune della situazione; l’accettazione di un rischio ponderato nella condotta delle attività; nonché la delega verso il basso dell’autorità a prendere determinate decisioni e la contemporanea assunzione verso l’alto (almeno al proprio livello) del rischio derivante dall’errore possibile del subordinato. 

Non sempre, però, sussistono le condizioni per decentralizzare. Questa scelta, infatti, rimane una discrezionalità dei superiori che dovranno valutare il livello di rischio accettabile, anche nella considerazione che l’inesperienza dei subalterni potrebbe non consentire loro la cessione di un’ampia libertà d’azione. Sta a chi comanda trovare il delicato punto di equilibrio tra unitarietà degli sforzi e decentralizzazione assicurandosi che la libertà d’iniziativa non degeneri in frammentarietà delle azioni, in scarsa coordinazione o in errori tattici fatali.

E cominciamo a trarre delle conclusioni.

Capita che di fronte a emergenze o situazioni particolarmente difficili e rischiose non sia possibile mantenere a lungo una linea di azione che abbia come regola principale quella della prudenza perché essa provocherebbe effetti collaterali di notevole gravità. Vi sono situazioni in cui occorre rischiare e assumersi un rischio calcolato. In questo caso è necessario che l’autorità di vertice non cada nell’errore di voler decidere tutto e di dettare l’agenda nei più minuti dettagli. Ciò non è tecnicamente possibile perché i casi, le situazioni locali e particolari sono così tanti che non vi sarà mai disposizione dettagliata in grado di coprire compiutamente tutte le casistiche. In questo modo si rischia che molte opportunità siano mancate anche quando alcune di esse comportino bassi rischi. Si rischia anche che le pressioni da parte di chi voglia approfittare delle occasioni sfocino in comportamenti scomposti e dannosi.

Nel caso della pandemia di COVID 19 le disposizioni date a livello centrale dovrebbero accettare che ciò che è indispensabile per la provincia “A” possa essere largamente ridondante per la provincia “B” e magari controproducente in altri casi. 

A questo punto le misure (i “vincoli”) dovrebbero riguardare la monitorizzazione e la mappatura totale della popolazione per sapere il numero dell’andamento dei contagi, il distanziamento, l’uso dei sistemi protettivi e le procedure da seguire per chi dovesse contagiarsi o venisse in contatto con personale infetto: in sostanza, le condizioni minime che devono essere assolutamente assicurate affinché si possa passare da una fase a quella successiva (nel nostro caso procedere alla ripresa delle varie attività) e in assenza delle quali, con buona pace di tutti si continua a lavorare finché non vengono conseguite.

Una volta stabiliti questi pochi vincoli, la gestione di aperture/chiusure/restrizioni/allentamenti andrebbero lasciate alle autorità locali a livello regionale e comunale che devono essere responsabilizzate per gestirle attenendosi strettamente al rispetto ed alla adesione ai requisiti fissati dal governo, senza che scadenze calendariali di alcuna natura, dall’approssimarsi delle prossime tornate elettorali all’avvicinarsi della data tradizionale di apertura della tale o talaltra “stagione” o evento vengano prese in considerazione ai fini della decisione: ci sono i requisiti? Bene; non ci sono? Si aspetta. La categorizzazione delle attività, e la loro apertura ripartita per blocchi temporali potrebbero danneggiare economicamente chi è già pronto, e mettere a rischio i cittadini se si riapre un’attività commerciale che non soddisfa i requisiti di sicurezza solo perché è previsto dal calendario. Inoltre, ed è un aspetto importante, l’autorità centrale si svincolerebbe da molte delle critiche di chi, essendo in una situazione di deresponsabilizzazione, la butta in politica talvolta con esternazioni almeno discutibili.

Quello che invece vedo è tutto il contrario di quanto detto sopra. Da parte del Governo (che peraltro ha la simpatia che riservo a chi si trova in una posizione lose-lose; se allenta sulle aperture si trova addossati i possibili nuovi contagi, se stringe gli verranno rimproverati i danni all’economia) noto la preferenza per il ricorso a direttive, disposizioni ed ordini dettagliati, che si ritiene possano e debbano trovare applicazione integrale, granitica, senza bisogno di adattamento dalle Alpi al Lilibeo e da Ventimiglia a Muggia, tendendo a  “ingessare” gli enti locali  e a renderli dei passivi esecutori. Tutto ciò senza pensare che tali “invasioni di campo” nella sfera di responsabilità degli Enti locali comporta l’irritazione e la tendenza a “mettersi di traverso” di chi la subisce. È la situazione tipica che si verifica quando chi gestisce un’operazione e chi la deve eseguire hanno poca conoscenza e / o fiducia reciproche.  

Da parte degli Enti locali, invece, riscontro la generalizzata tendenza ad ascoltare le “istanze del territorio” e a non voler tenere conto delle direttive che arrivano da Roma in quanto tali, in quanto per definizione lesive di autonomie, prerogative e migliori conoscenze delle realtà locali che rischiano di portare a buttare via il bambino insieme allo sporco, nonché ad assumere iniziative scomposte e a volte al limite della legalità, dal ritenere di poter fare come ci piace in quanto regione o provincia autonoma o semplicemente perché così ci piace, buttando nello stesso calderone possibili oggettive favorevoli situazioni locali, bulimia mediatica con sindrome da “ghe pensi mi” (declinata in ciascuno delle 23 lingue di minoranza e dialetti parlati nella Repubblica) e veri e propri abusi di autorità quali quello del Sindaco di Messina, quello di «Blocco io gli sbarchi, arrestatemi» e delle diffide annunciate nei confronti del Governo e dei prefetti di Messina e Reggio Calabria. 

Concludendo: la campagna contro il Coronavirus viene concepita dall’Alto Comando come una guerra convenzionale da condursi, perché sembra più facile, decidendo da Palazzo Chigi cosa debba fare la pattuglia dei vigili di Pirimpilla a Mare e cosa debba rimanere chiuso a Montealto di Sopra in Val Tomazza, perché quel che va bene nell’una oggi deve andare bene anche nell’altra domani. Non è concezione centralizzata ed esecuzione decentralizzata e non è nemmeno direttività di stampo sovietico, considerato che troppo spesso decisioni granitiche ed irrevocabili vengono adattate e ammorbidite in corso d’opera dopo abboccamenti vari fra le parti interessate, il che al netto di ogni altra considerazione non è che aiuti a mantenere un’immagine di autorevolezza basata sulla solidità delle ragioni poste a base dei provvedimenti. Le unità dipendenti, gli Enti Locali, si comportano come i generali di Chiang-Kai-Schek ai tempi della lotta contro Mao, agendo in ordine sparso e accomunate pressoché solo dall’esigenza di dimostrare che “se dipendesse da loro” tutto sarebbe già stato risolto da tempo e meglio, distinguono respingono e rigettano, salvo (come nel caso del presidente del Consiglio Regionale della Lombardia un paio di settimane fa) chiedere regole precise alle quale richiamarsi per… per cosa? Forse per poter evitare di dover decidere e soprattutto di doversi assumere la responsabilità delle loro decisioni? Alcune decisioni indubbiamente sono dettate da spirito di iniziativa locale ma, se non sono realmente integrate in un piano comune, se non sono combinate in un’unica direzione non si arriva da nessuna parte e anzi, per rimanere sulla nota marziale che contraddistingue finora la narrazione del confronto con il coronavirus, offre all’avversario la possibilità di trovarsi di fronte un fronte disunito da attaccare a piacimento e in successione, un successo dopo l’altro, dove è piú debole. 

Il Coronavirus ha reso ancora più evidente, a livello governativo e direttivo centrale e locale, la carenza di competenza professionale diffusa e l’assenza di una visione comune, gli ingredienti indispensabili affinché persone diverse poste in una situazione di confusione e di pericolo e in possesso di informazioni parziali e incomplete possano fare la cosa giusta.

In questo cocktail di situazioni e comportamenti degni dell’alto comando dell’Impero Romano d’Occidente nel V Secolo d.C., di Baratieri e dei suoi subordinati ad Adua in cui, come se non bastasse, tutti emettono ordinanze e danno ordini, tanti ordini con l’unico risultato (e non può essere diversamente) di aumentare il disordine no, non credo proprio che in questa guerra andrà tutto bene. 

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