Mi sembra che Giuseppe Colombo riassuma bene, con pochi tecnicismi e un linguaggio comprensibile, la natura del Recovery Fund e, soprattutto, le condizioni e vincoli cui siamo – ovviamente e giustamente – sottoposti.
Il riassunto del riassunto è questo, e non me ne vogliano i lettori più sofisticati:
- i soldi sono davvero tanti, non c’è nessun imbroglio come blatera la destra (ovviamente spiazzata da questo oggettivo successo di Conte), e fra soldi ricevuti e soldi in varie forme da restituire l’Italia resterà, per alcuni anni, beneficiaria netta dell’Unione;
- sì, è vero, ci sono delle condizioni che non solo non hanno nulla a che fare con scenari apocalittici stile Troika che strangola la Grecia, ma che sono talmente ragionevoli da dovere essere pretesi da ogni onesto cittadino italiano; queste condizioni si chiamano “riforme da fare” (i soldi sono vincolati alle riforme) e si chiamano “valutazione dell’efficacia” di tali riforme. Vale a dire: non possiamo usare quei soldi per ri-ri-ri-salvare Alitalia e portare in JumboJet le arance in Cina, e non possiamo neppure inventarci di avere fatto delle riforme senza che qualcuno pretenda di vedere se sono riforme vere, se funzionano davvero, e così via.
Poi, sì, è vero che ci sono dei possibili veti da parte di eventuali olandesi rompicoglioni, ma decenni di totale inaffidabilità hanno condotto a un compromesso accettabile e, attenzione!, se noi davvero faremo le riforme e se, miracolo!, fossero pure fatte bene, non vedo cosa ci sia da temere.
Il fatto è che ciascun italiano conosce i suoi polli (ovvero tutti gli altri italiani) e possiamo incominciare chi a dire le necessarie preghiere, chi ha far politica seriamente e chi semplicemente a scrivere un post su Hic Rhodus, perché adesso, veramente, si apre il più difficile momento dell’Italia.
Le riforme, in quattro parole, riguarderanno:
contrasto all’evasione, alla corruzione e al lavoro sommerso, ma anche riduzione dei tempi della giustizia e politiche attive per quanto riguarda il mondo del lavoro. Soprattutto c’è una riduzione della spesa pubblica che deve portare a una correzione strutturale (quindi a una manovra) pari allo 0,6% del Pil. E poi le entrate straordinarie devono andare ad abbattere il debito, ma è necessario anche tagliare le agevolazioni fiscali e “razionalizzare” le aliquote Iva. Tradotto: l’Italia deve fare una riforma della giustizia, ma anche una del fisco e una del lavoro. (fonte)
Chi ha un’età sentirà fischiargli le orecchie: contrasto all’evasione? Si ribadisce da decenni! Lotta alla corruzione? Da mani pulite in poi non si parla d’altro! Giustizia? Che abbiamo una delle peggiori giustizie del mondo occidentale è noto anche alle pietre dai tempi di Tortora e di Luttazzi! E le cosiddette politiche attive del lavoro? Qui è un settore che conosco benissimo e di prima mano; tante riforme fatte, quantità di soldi sprecati da risanare il bilancio di una nazione baltica, con risultati prossimi allo zero assoluto. E ora vogliamo parlare di spesa pubblica? Dopo che Cottarelli – per dirne una – è stato semplicemente fatto accomodare fuori dalla porta?
Queste riforme, cari concittadini, non solo non sono la Luna, non sono elucubrazioni germaniche, della terribile Troika, del perfido Soros, no, sono gli argomenti topici sui quali andiamo pestando acqua nel mortaio da molti decenni, addirittura prima dell’avvento di Berlusconi (per dire: proprio la preistoria, e non si può neppure buttare la colpa addosso all’ex cavaliere).
Perché queste riforme, ovvie, facili da comprendere, sulla cui necessità c’è un consenso che un tempo si sarebbe detto bulgaro, non si riusciranno a fare? Lo sappiamo tutti, proprio perché noi nuotiamo in questo stagno. Perché in Italia, per una serie di condizioni storiche più volte trattare sul blog (si vedano i testi raccolti sotto la categoria “antropologia italica”), i particolarismi hanno da tempo, e di gran lunga, vinto sopra e contro l’interesse generale. Punto, potremmo chiudere così l’articolo.
Riforma della scuola (di destra, di sinistra, fatta bene, fatta male…)? Insegnanti in piazza.
Riforma della giustizia (di destra, di sinistra, fatta bene, fatta male…)? Giudici in piazza, o avvocati in piazza, o comunque qualcuno in piazza, a seconda di chi sono gli attori toccati, anche di striscio, dalla riforma.
Sanità riformata, impiego pubblico riformato, polizia riformata, quello che vi pare riformato? Gente in piazza, così come – altro discorso – per la Tav, Tap o altre opere locali.
Quando stampavamo carta straccia (lire) e ci arrangiavamo entro un mondo limitato, era facile comperare pace sociale in cambio di lavoro, rigorosamente di scarsa qualità, che dava reddito alle famiglie; centinai di migliaia (milioni, alla fine) di uomini (all’epoca le donne assai di meno, stavano a casa a preparare il pranzetto) imbucati nelle Poste, nelle Ferrovie (perché “pubblico” è meglio, no? Un’opinione che sta riprendendo quota), nei Ministeri, e poi nelle Regioni. A fare poco quando andava bene, a fare male quando andava peggio. Tutti costoro sono tutt’ora percettori di pensione (è la mia generazione, e quelle limitrofe, non stiamo parlando del Medioevo). L’idea di comperare consenso in cambio di soldi pubblici è una costante del pensiero politico italiano, e l’Alitalia, l’Ilva, ma anche la vicenda Autostrade sono lì a dimostrarlo ancora oggi, dove con salti mortali bizantini (per esempio utilizzare la Cassa Depositi e Prestiti così, ufficialmente, non sarebbe aiuto di Stato) buttiamo soldi dalla finestra per imprese improduttive, oppure mandiamo a fondo quelle produttive. Sono lì a dimostrarlo le nefaste quote 100 e i pessimi redditi di cittadinanza.
Il che ci porta all’ultima questione, la più spinosa.
Fare delle riforme, qualunque delle riforme richieste, imporrà di toccare gli interessi di qualcuno. Riformare significa cambiare, modificare lo status quo, distribuire diversamente oneri e benefici, e coloro ai quali ne dovrai sottrarre una parte non saranno contenti. Toccare le pensioni? E come faranno, i poveri vecchietti? Razionalizzare la spesa pubblica? E come faranno le centinaia di famiglie che mangiano e bevono nella “cresta” di spesa improduttiva (ma lecita)? Lotta all’evasione? Col cavolo, le tasse le pagano i gonzi (un’affermazione fatta più volte, apertis verbis, da importantissimi leader politici).
Ma il nostro governo, l’argine delle destre, quello in cui Zingaretti e Di Maio si trovano a loro agio, è strutturalmente un governo populista, e quindi statalista; è il governo che ha, nel DNA del suo maggiore azionista, tutto – nulla escluso – ciò che va in senso opposto a quanto dovremo fare. L’esempio eclatante più immediato che mi viene in mente è quel figuro che sta a capo dell’agenzia per il lavoro (Anpal), messo lì da Di Maio, intoccabile malgrado l’evidente disastro. Né si troverà una sponda in quel che resta della sinistra, che oltre all’idea di una finanziaria non va, che per il resto è parimenti statalista e, da qualche tempo e in linea col peggior populismo, anche giustizialista e financo antieuropeista.
Ecco quindi il paradosso. Sono decenni che sappiamo di avere bisogno di queste riforme, e le vorremmo pure, purché a riformarsi fossero gli altri. Adesso abbiamo anche i soldi per farle. Ma non abbiamo un esecutivo forte, coerente, compatto, capace di guardare negli occhi gli italiani e dire loro: per una volta pensiamo, tutti assieme, al bene del Paese, al suo futuro.