ABC della comunicazione: fare qualcosa di ignobile, poi scusarsi

Serena Enardu (di cui non conoscevo neppure l’esistenza, poi ho scoperto essere una tronista, ho dovuto cercare su gugol cosa significasse ‘tronista’ e, insomma, è una vippina, vippetta, per personcine così…), questa Serena Enardu – dicevo – si è fatta fotografare con una svastica e ha provveduto a diffonderla in rete. Polemiche. Ritiro del post dai social e scuse (ridicole, ve le risparmio).

Alex Maggi (altro sconosciuto, ma nell’articolo si dice che è il fisioterapista della Lazio, un personaggione, un gigante…) ha apostrofato Gattuso con un “Terrone di merda!”. Articoli sui giornali, Gattuso che tira fuori tre metri di torace, e pronte le scuse vilissime: “Non mi era mai capitato di offendere nessuno. Chiedo scusa al mister”. Ferruccio Sansa, che la Wiki ci assicura essere un giornalista del Fatto Quotidiano nonché candidato alle regionali liguri per PD + 5 Stelle (tutto questo spiega molte cose, naturalmente), indossa una maglietta che vorrebbe essere spiritosa ma risulta offensivamente omofoba (tanto per dire quanto capiscono di comunicazione i giornalisti), e lui, naturalmente, si scusa; dopo. Aggiungete le scuse del teppista che ha ferito un carabiniere, ma lui almeno era un teppista e ci stava, e quelle del capo della protezione civile di Grado che invoca i forni crematori per i richiedenti asilo (“Uno sfogo senza pensare” sarebbero, secondo lui, le scuse), e poi mi sono stancato e vado avanti col discorso.

A parte i decerebrati cui scappano le parole dalla bocca, come già ben sapevano gli antichi, questa cosa di dire o fare cose ignobili cui far seguire le proprie scuse è un artificio noto e stancante. Era una costante del buon Borghezio, in epoca bossiana rampante (ora l’Uomo pare essersi calmato) che “si lasciava scappare” giudizi e affermazioni inaccettabili e senza appello, salvo “scusarsi” due giorni dopo quando le minacce di querela arrivavano al livello di guardia. Da quell’epoca in qua le cose sono degenerate grazie alla facilità con cui il vuoto dilaga nei social media. Per esserci, per segnalare la propria presenza, se sei una Enardu qualunque devi graffiare, stupire, sconcertare, e se non sai sconcertare inventando la macchina del tempo o il vaccino contro il Covid, o se non sei il nuovo genio della letteratura, il tuo sconcerto non può che essere programmato e gestito dai mezzucci che hai. Ecco allora le uscite assolutamente infelici, nell’inconsapevolezza totale e senza remissione del rispetto per gli altri. La Enardu (insisto con lei per lo stupore ingenerato dalla mia scoperta dei ‘tronisti’) cosa volete che faccia per mantenere il suo bacino di ammiratori (che sono soldi) non sapendo fare nulla (ho cercato la sua biografia in rete) salvo mostrare il suo faccino in TV? L’ideona è semplice: fai una grande cazzata e pubblicizzala. Il bacino già esistente di seguaci Facebook, Instagram e Twitter moltiplica immediatamente per 100 o per 1.000 il messaggio, incominciando lunghi e faticosi dibattiti (dal punto di vista mentale per loro deve essere uno sforzo non indifferente) e litigate sul fatto che quella svastica sia un atto orrendo, una scivolata veniale, un gioco o qualunque altra cosa. Subito a ruota i giornali scrivono un articolo, che attrae altra gente (come me) che non ne sapeva nulla fino a un’ora prima, e insomma, a costo zero, una pubblicità enorme.

Perché è pubblicità, anche se si parla male dell’autrice o dell’autore, e anche senza scomodare Oscar, per un meccanismo comunicativo piuttosto semplice da spiegare: sommersi da tonnellate di monnezza informativa, con in mezzo giusto qualche notizia importante, per l’utente medio il flusso diventa un pastone continuo, dove si passa dalla preoccupazione per il Covid all’indignazione per Enardu alla ricetta dell’amatriciana come in un continuum dove ogni elemento è funzionale a quello successivo, e tutti assieme sono funzionali a una sola cosa: tenere i fruitori dei social sui social, farli cliccare, farli omologare nella loro essenza di consumatori passivi. 

Questo meccanismo assomiglia molto a quello registrato, negli anni ’50, riguardo la fruizione della televisione; si rilevò che molti spettatori di livello culturale basso non distinguevano i telegiornali, i film e le pubblicità come programmi differenti, propositori di messaggi diversi, ma sostanzialmente come un continuum narrativo. Un fluire di immagini e parole dissociati dalla loro funzione originaria. Nelle forme certamente enormemente diverse del terzo millennio, la funzione dei social è analoga. Tutto scorre nelle time line, tutto è immediato e immediatamente fuggevole, molto viene intravisto, qualcosa visto, poco letto (oltre il titolo), pochissimo compreso, perché la comprensione richiede di fermarsi per ragionare, e questo non si fa più, semplicemente non è compatibile con le forme comunicative attuali (con una serie di conseguenze gravissime che lascio alla considerazione dei lettori). In questo pastone sgomitano centinaia, migliaia di aspiranti influencer, divi, “tronisti”, e se non vuoi essere un qualunque gatto nero in una notte senza Luna, cribbio!, devi renderti visibile in un qualche modo.

Dai social, dai giornali, dalla televisione, l’ignobiltà si è largamente diffusa nella politica, nella società civile, nel modo di essere quotidiano di molte persone che ritengono di essere legittimate a dire e fare qualunque cosa. Tanto poi ci si scusa: dell’offesa gratuita, dei graffiti sull’opera d’arte, della rissa, dell’apologia del nazismo, dell’antisemitismo come dell’omofobia, della notizia falsa dolosamente diffusa per ragioni solitamente meschine… Le scuse sono di regola vili, del tipo “Chi mi conosce sa che non sono così…”, “Non ero in me, io non penso davvero a queste cose…” fino ovviamente al classico “Non sapevo, ero lì per caso, è stato a mia insaputa” (questa va fortissimo fra i politici). Ecco: imbecillità e viltà. Concediamoci un minuto per riflettere su questa fantastica coppia  di demeriti, così sodali e uniti, così diffusi…