Apocalisse

Una serie cult, visto che da 2500 anni se ne scrive (prima) e se ne filma (ora). L’apocalisse in senso moderno, non più teologico, è una grande metafora della morte, non di quella del pianeta, o dell’intera umanità, ma proprio la nostra, la mia, tua. Essendo la morte un tema escluso dall’edonistica inconsapevolezza contemporanea, la visione spettacolare della morte di massa in Walking Dead o in altre serie televisive, o in 2012, L’esercito delle 12 scimmie, i tanti film su asteroidi, maremoti, disastri inenarrabili, permette di identificarsi nell’eroe che combatte e sopravvive. Perché l’importante è che muoiano tutti gli altri, ma noi evitiamo l’annullamento insito nella condizione umana. La metafora, quindi, è più sottile, e non riguarda l’esorcizzazione della morte fisica quanto il supereroismo infantile che avvolge la cultura contemporanea. L’idea è assieme drammatica ed esaltante; tutto va in malora ma io, noi, la famiglia, quattro amici, cammineremo sulle macerie verso l’incerto futuro, buio, crepuscolare, ignoto, senza Storia, e per questo così coincidente con l’attualità. In questo crepuscolo sopravvivono molti lupi e pochi agnelli, che sembrano condannati, ma essendo supereroi postmarvel, di quelli che hanno visto tutte le puntate di Y – L’ultimo uomo, di quelli che sono cresciuti a Doom e giochi di ruolo, ecco, il loro riscatto costerà sangue e sudore e miseria e morte (per alcuni, per altri), ma il premio sarà grandioso: il riscatto immaginario dell’uomo medio.