L’intellettuale, elitario e solitario

Qualche giorno fa Alfonso Berardinelli ha rilasciato una splendida intervista all’HuffPost che mi sollecita alcune riflessioni, non prima di avervi caldamente invitato a leggerla. Il tema del discorso riguarda gli intellettuali, l’essere intellettuale e il suo “senso”; ne abbiamo parlato molte volte su HR e consideriamo rilevante il tema in quanto politico. La funzione degli intellettuali, in una società moderna occidentale, è straordinariamente importante per il progresso di tutta la società, e non solo per lo specifico settore in cui l’intellettuale opera (un campo scientifico, la letteratura, la politica in senso stretto…). L’intellettuale che anche qui su HR abbiamo altre volte tratteggiato è sempre schierato, ma non schiacciato su una parte politica; è sempre critico, ma non per questo mainstream oppure anti-mainstream a prescindere; è anticonformista, ma non perché narcisista ed egocentrico; è intelligente e in qualche modo colto, ma non è necessariamente un professore, e Berardinelli cita esempi familiari (e antichi) di presenza intellettuale operaia, come io stesso scrissi – citando casi a me noti e cari – tempo fa su queste pagine.

Berardinelli dice molte cose e se la prende con diversi noti personaggi che sono acclamati come intellettuali ma lui giudica, per vie spicce, sostanzialmente poco intelligenti, ma queste parentesi di giudizio non sono affatto la parte interessante dell’intervista. Mi permetterete di stralciare i due o tre punti chiave che secondo me tagliano nella pietra un modello di intellettuale estremamente interessante e sul quale meditare.

Scrive – fra l’altro – Berardinelli:

Per me la politica è un tema letterario, nel senso che ascolto i personaggi che la interpretano perché mi interessa chiarire ciò che accade nella realtà e che spesso è sconosciuto anche a loro stessi. Non scrivo certo per influenzare la politica o per essere preso in considerazione. So bene che è impossibile, scrivendo, ottenere effetti pratici. Per questo mi fanno ridere i giornalisti politici, gli editorialisti, gli intellettuali che invece si illudono di contare politicamente.

Domanda: A lei basta essere letto?

Risposta: In realtà ambisco a essere letto solo dalle persone che possono capire quello che scrivo. Mi rendo conto che è un pubblico in costante diminuzione, ma lo preferisco comunque alla massa.

Questa visione del ruolo dell’intellettuale rispetto alla politica è paradigmatica; l’intellettuale non aspira al successo di massa (come intellettuali più “popolari”, per esempio Umberto Eco) ed è consapevole che anche il politico lo disdegna, non lo considera, semmai può usarlo per un momento ma i due mondi sono separati da una profonda diversità di linguaggio. L’intellettuale (come descritto da Berardinelli) è solo con la sua verità.

Le idee non possono mai essere separate dalle persone che le hanno, perché la verità non può essere detta da una persona che ama la menzogna e la pronuncia per mentire meglio.

Domanda: Nemmeno occasionalmente?

Risposta: No. Perché chi dice la verità conta quanto la verità stessa. La verità non è una formula verbale, è una presenza reale. Un testo medievale apocrifo riferisce questo dialogo. Ponzio Pilato domanda a Gesù: “Cos’è la verità?”. E Gesù risponde: “È l’uomo che ti sta davanti”. Questa risposta va intesa anche in senso laico.

La sovrapposizione fra persona e parola (“Le idee non possono mai essere separate dalle persone che le hanno”) è un concetto chiave che attraversa in più parti l’intervista di Berardinelli, per esempio quando racconta di suo padre, e la sua famiglia in genere, di operai antifascisti e, nel loro modo specifico, “intellettuali”, o quando spiega perché ha lasciato l’Università, non sentendosi a suo agio in quell’ambiente falsamente intellettuale:

All’università i professori fanno tutti parte della categoria degli intelligenti, anche se sono degli stupidi. Io credo che l’intelligenza debba essere giudicata di volta in volta, in base alle cose che si dicono e si scrivono. Non sopportavo di essere chiamato professore perché in generale non sopporto che l’autorità culturale venga certificata burocraticamente da un’istituzione. La mia, se c’è, voglio che venga soltanto da me stesso. Me ne prendo tutta la responsabilità.

Allo stesso modo, e seguendo la stessa logica, Berardinelli si scaglia contro la borghesia (non le persone borghesi, ma la borghesia come categoria sociale e culturale):

Domanda: Cosa c’è nella borghesia che la respinge?

Risposta: Direi il senso del denaro come privilegio e la tendenza a trattare gli esseri umani che svolgono lavori gerarchicamente inferiori come persone inferiori. Odio chi tratta male le donne di servizio e i camerieri, credendo che sia normale farlo e che anzi questo rafforzi la propria identità.

Domanda: Ci sono borghesi che, invece, li trattano molto bene.

Risposta: E infatti ci sono anche borghesi intelligenti. Non è meccanica la coincidenza tra l’individuo e la classe sociale d’appartenenza, altrimenti non avrei mai potuto fare una rivista come ‘Diario’ con Piergiorgio Bellocchio che viene da una famiglia integralmente borghese.

Domanda: Lei che cos’è?

Risposta: Io sono estraneo a entrambe le classi, perché non faccio più parte della mia classe di provenienza, quella operaia, né sono mai davvero entrato a far parte della classe sociale d’arrivo. Ho preferito non “fare carriera” e non diventare una “persona seria”.

Berardinelli non appartiene a una classe. Come non vi appartenne Pasolini, per dire. Appartenere a una classe, “sentirsi” parte di una classe, è proprio dei cosiddetti ‘intellettuali organici’ che sanno, che pensano, che criticano, ma con un’identità abbagliante, un mandato prioritario, una tesi (ideologica) di fondo da sostenere. 

Ciò di cui parla Berardinelli è la consapevolezza della prassi implicita del discorso, della volizione pragmatica ineliminabile in ciascun pensiero che si faccia parola. Parlare è azione di cambiamento sociale, sempre. Parlare con adeguata consapevolezza dell’implicito atto volitivo è proprio delle persone critiche, dei professori, dei politici, delle persone acculturate. Ma farlo sapendo governare tale atto, in maniera consapevole, è proprio degli intellettuali. Certo: quando più e quando meno; a volte con maggiore profondità e pertinenza e altre volte no. Ed è questo che rende l’intellettuale avulso dalla massa: quando Berardinelli (prima citazione, sopra) dice che “In realtà ambisco a essere letto solo dalle persone che possono capire quello che scrivo” si mostra elitario ed esclusivo in maniera definitiva, ma non snob. Perché di fronte all’intellettuale c’è un esercito di menzogne, pigrizie, ignoranze e opportunismi che l’intellettuale non può abbattere, perché non è suo compito, perché sarebbe compito impossibile. L’intellettuale può gridare contro quelle menzogne, criticare quelle pigrizie, stigmatizzare le ignoranze, ma viene da sé che non sarà ascoltato, e comunque non sarà capito, dai mentitori, pigri e opportunisti.

Ciò non di meno l’intellettuale resiste e afferma la sua verità:

[L’intellettuale] dice la verità. Cioè che lei è un peccatore e perché lo è. – Praticamente una confessione (incalza il giornalista) – Ma senza assoluzione, perché i preti non c’entrano.

Domanda: Allora chi c’entra?

C’entrano gli individui reali. […] Perché è questa la verità. Tutti abbiamo dei peccati! Anche se capirlo non è facile, anzi è la cosa più difficile.

Sembra dire – o almeno questo è ciò che credo di cogliere – che l’intellettuale vive la sua solitudine entro il flusso della storia, nella sua epoca, nella sua latitudine, nei suoi limiti (assolutamente nei suoi limiti, perché questo è il senso della verità) piuttosto indifferente alla comprensione altrui; un atteggiamento che viene confuso con l’arroganza ma è, semplicemente, la manifestazione della persona assorta e presa dalla sua ricerca, che si ferma volentieri a parlare con chi lo voglia ascoltare ma non si cruccia della folla che passa, catturata dall’inconsapevolezza.

Se l’intellettuale così descritto è solo, e isolato, qual è la sua funzione sociale, se non la testimonianza, per chi di tale testimonianza ha bisogno?