Gli osservatori più attenti notano il pesante indebolimento di Draghi in seno al suo governo, minato da posizioni leghiste che si appuntano, in particolare, sull’annacquare e ritardare le misure anti Covid.
Alcune letture in merito:
- Massimo Giannini, Draghi supercandidato al Colle ‘prigioniero’ di Palazzo Chigi , “La Stampa”, 21 dic 2021;
- Piero Ignazi, Obbligo vaccinale e scontri interni, il governo Draghi è arrivato alla fine del suo percorso, “Domani”, 6 gen 2022;
- Sofia Ventura, Davanti a Draghi Due che nostalgia di Draghi Uno, “HuffPost”, 6 gen 2022;
- Simone Canettieri, Draghi e il governo usurato: strappi, mediazioni e rebus Quirinale, “il Foglio”, 7 gen 2022.
Le ragioni sono molteplici: l’avvicinarsi della convocazione per l’elezione del Presidente della Repubblica genera molteplici fibrillazioni, sia in merito al nome che si vorrebbe far prevalere, sia in merito al destino del Parlamento a partire dal giorno dopo l’elezione; e un desiderio di protagonismo di certi partiti sostanzialmente esautorati dalla figura di Draghi, che hanno bisogno di mostrare il loro dinamismo e la loro indipendenza. Tutto questo porta i leghisti (chi sperava in Giorgetti si sarà ora ricreduto) a mettersi di traverso e, nei fatti, logorare Draghi.
Questa storia può avere solo due esiti, ciascuno con conseguenze ipotetiche:
- Draghi va al Colle, non certo senza fatica e non alle prime votazioni; da quella posizione farà di tutto per pilotare un governo che non interrompa la legislatura e porti avanti il suo lavoro, e certamente in questo mantenimento avrà diversi alleati in un Parlamento di persone che sanno che andrebbero definitivamente a casa, e che assolutamente vogliono restare lì; questa soluzione sarà possibile solo se concordata a tavolino dalla maggioranza qualificata dei soci di governo, e poiché è una soluzione che offre diversi vantaggi (chi deve maturare la pensione riesce a farlo; Salvini può staccare la spina e andare all’opposizione per un magnifico anno di mani libere pre-elettorali), potrebbe anche riuscire;
- Draghi non la spunta, e i partiti più distanti da lui, quelli di destra, che semmai l’avranno avuta vinta sulla corsa al Quirinale, non sfiduciano Draghi, tanto deve durare solo un altro anno ed è bene che le pratiche del PNRR se le sbrighi lui, in un esecutivo con margini di manovra sempre più limitati; onestamente credo difficile che la destra faccia cadere il governo e – sospinto da un Presidente amico – corra alle elezioni anticipate (questo sarebbe un terzo scenario); a mio modesto parere, però, qui si fa il conto senza l’oste, vale a dire: ma chi glie la fa fare a Draghi di prendere bastonate fra il ludibrio della destra e il logoramento suo personale? Questo scenario è pericolosissimo perché, oltre il Quirinale alla destra, si potrebbe andare di corsa ad elezioni anticipate con Meloni e Salvini in posizione di forza. Se Draghi non la spunta, e se il nuovo presidente sarà espressione della destra, prevedo una brutta crisi che travolgerà tutti.
Io preferirei mille volte Draghi Presidente della Repubblica per sette anni, libero di esercitare il suo carisma e le sue capacità per aiutare il Paese nei tanti momenti difficili che dovremo attraversare (non pochi Presidenti – ultimo Mattarella – hanno avuto ruoli strategici in questo senso), anziché Draghi a Palazzo Chigi per un solo ultimo anno, sempre più messo in difficoltà da una maggioranza da Circo Barnum. Ma vedendo l’impantanamento della discussione sul prossimo inquilino del Colle, la riflessione da fare è davvero semplice: come valorizzare una risorsa tecnica, politica e morale come Draghi, senza sprecare l’ennesima occasione, senza tornare ai margini dell’Europa, senza sfruttare al meglio il PNRR eccetera?
Anche qui, mi pare, il ragionamento è semplice, dicotomico:
- soluzione numero 1: quel che resta del centrosinistra (Letta, LeU) riesce a convincere una quota significativa dei 5 Stelle e tutti convergono esplicitamente su Draghi. Dichiarare oggi che tutto questo schieramento, cui si accoderebbe gran parte del centro riformista e liberale, voterà Draghi, darebbe un vero impulso alla sua candidatura; la destra, dopo i primi doverosi turni a maggioranza qualificata su Berlusconi, nei turni a maggioranza semplice potrebbe vedere delle falle, delle assenze strategiche (che credo probabili, in questa ipotesi), e Draghi potrebbe spuntarla. Questa sarebbe la mia soluzione preferita, ma gli ostacoli non sono poca cosa: i 5 Stelle hanno messo in piazza la loro assoluta mancanza di idee (e la loro diffidenza verso Draghi), battendo di poco i confusissimi democratici, che a quanto pare oltre a balbettare (Orfini) che si potrebbe obbligare Mattarella a fare il bis, al momento non sanno che pesci prendere. Poi, per carità, c’è ancora tempo, ma una presa di posizione di spessore e con qualche possibilità di spuntarla deve essere dichiarata presto, pubblicamente, con la dovuta enfasi, anche per lanciare un messaggio a quella destra moderata (i liberali di Forza Italia, i ragionevoli della Lega) che dopo avere sbrigato la pratica Berlusconi appoggerebbero volentieri Draghi;
- soluzione numero 2: i democratici (mi spiace, la responsabilità principale resta loro, non vorrete mica sperare in Conte?) rinunciano a Draghi al Colle e lavorano perché sia il candidato premier di tutta l’area riformista e liberale, da Leu ai centristi di Renzi e Calenda, e ai grillini meno esaltati. Draghi leader non di un partito, quindi, ma di una coalizione repubblicana, di un patto strategico per l’Italia. Questa coalizione, se Renzi non fa una botta da matto, se LeU manda giù “il banchiere”, etc., potrebbe realmente essere competitiva, e regalarci una legislatura di riforme, senza le ubbie leghiste. La battaglia per il Quirinale, a quel punto, si sarebbe liberata del macigno ingombrante di Draghi, e vinca il o la migliore. Ma avere dichiarato la coalizione draghiana avrebbe conseguenze psicologiche e politiche interessanti; il governo non cadrebbe, e anche (auspicabilmente) con la Lega fuori, avrebbe una prospettiva futura di ampio respiro, sarebbe apprezzata in Europa e potrebbe attirare diversi elettori che oggi, semmai, faticano a riconoscersi nel PD, sono stanchi di Renzi, non hanno simpatie per Calenda, ma voterebbero uno qualunque di questi partiti perché, in sostanza, voterebbero Draghi, che non avrebbe la necessità di un partito personale (come fece Monti) né di dichiararsi espressamente per uno o l’altro dei suoi sostenitori.
Siamo chiari: occorre una consapevolezza politica, una visione; poi serve una qualità rara nei politici: quella di esporsi, di giocarsi la faccia, di usare il proprio carisma, dentro la propria organizzazione, poi con alleati più o meno sinceri. È dura. Ma dovrebbe essere il compito del politico, quella di avere una visione, di mettersi in prima linea; no?
Se qualcosa del genere avverrà, la corsa al Quirinale sarà privata del pathos che sta emergendo, sarà liberata da incrostazioni, e anche i cittadini potranno vedere una strada, quella dei partiti protagonisti, capaci di “usare” un uomo come Draghi senza perdere il loro ruolo centrale di rappresentanti del corpo elettorale. E se qualcuno dovesse tirare fuori il logoro e sciocco slogan del premier “non eletto dal popolo”, basterà guardarlo con compatimento e tirare diritto.