Mentre gli italiani si baloccavano godendosi l’oro olimpico nel curling, al palazzo della Consulta si discuteva dell’ammissibilità dei referendum, sui quali il prossimo 12 giugno si è chiamati a votare. Gli unici due quesiti che potevano fregiarsi dell’aggettivo popolare (eutanasia e cannabis) sono stati bocciati, come pure un altro (ennesimo) in materia di responsabilità dei magistrati, quindi si voterà su cinque quesiti (degli otto originariamente proposti) su temi tecnici, rispetto ai quali l’italiano medio non può formarsi un’opinione meditata sul patrimonio di cultura generale posseduta, né basata sull’adesione a valori o a principi, ma potrà tutt’al più adagiarsi supinamente alla versione epidermicamente più gradita, su argomenti dei quali conosce poco o nulla. Peccato che nessuno ne parli, salvo qualche timida tribuna elettorale, nemmeno il principale promotore, Salvini, che la scorsa estate mobilitò i suoi per raccogliere le firme, in una crociata per la riforma della giustizia i cui arditi navigatori sembrano essersi annegati sulla battigia.
Analogamente a molti altri quesiti andati in fumo in passato, anche questi referendum (ammesso che qualcuno vada a votare: ricordiamo che negli ultimi 25 anni solo una volta è stato raggiunto il quorum) per la giustizia non cambieranno assolutamente nulla, perché prima o dopo il referendum passerà la riforma Cartabia. Quand’anche si raggiungesse il quorum, il risultato non sarà quello auspicato dagli ormai letargici promotori, ma un vuoto normativo destinato a essere riempito da quella stessa riforma che, se approvata in tempo, ridurrà le schede da cinque a due, operando alcuni correttivi nel senso indicato dai promotori, ben lontani dall’ideale che sbandierano. Maggior fortuna non assisterà gli altri due quesiti, quello sull’abrogazione della legge Severino e quello sulla custodia cautelare, ma per questi sarà un bene, perché l’eventuale successo porterebbe il risultato contrario a quello auspicato.
In uno Stato minimamente civile, della legge Severino non ci sarebbe alcun bisogno, in quanto chi riveste cariche pubbliche, ovunque o quasi nel pianeta, se indagato per reati di qualunque genere (figuriamoci se condannato!) fa umilmente un passo indietro, per evitare che un successivo responso delle urne lo copra di ridicolo. In Italia, tra tangentopoli e berlusconismo, succede il contrario, per cui la carriera politica di molti si aggrappa disperatamente alla poltrona così, anche dopo la condanna, questi raccontano a tutti di essere perseguitati della giustizia per restare al proprio posto.
I promotori affermano che con la legge Severino si rischia di paralizzare l’operato delle amministrazioni locali, in quanto le condanne costringerebbero gli amministratori a dimettersi e l’ente a restare commissariato. In realtà la legge Severino tocca un nervo scoperto dell’italico costume: anche dopo condanne definitive (non dopo banali denunce destinate all’archiviazione, alle quali qualsiasi amministratore è fatalmente esposto per il ruolo che riveste) i nostrani amministratori non vogliono mollare l’osso: una norma di civiltà, secondo la quale chi rappresenta e amministra la cosa pubblica deve essere un modello specchiato al quale tendere, in Italia assume toni grotteschi, per cui neppure dopo una condanna definitiva i potenti e i potentucoli si rassegnano a farsi da parte.
Dai poveri amministratori tartassati, passiamo al buonismo dei poveri innocenti in carcere. L’obiettivo è abrogare uno dei presupposti applicavi delle misure cautelari (tutte, non solo quelle custodiali, ma questo i promotori subdolamente non lo dicono). I presupposti, attualmente, sono tre: inquinamento delle prove (se resto libero, riesco a corrompere testimoni, bruciare documenti, nascondere tracce che dimostrano il mio reato e tu non mi scoprirai mai), pericolo di fuga (riparo in un qualsiasi Stato senza trattato di estradizione con l’Italia e tanti saluti), reiterazione dei reati della stessa specie (mi accusi di qualcosa, se resto libero continuerò indisturbato a farlo).
L’obiettivo dei promotori è quello di eliminare il terzo presupposto, cioè quello della reiterazione dei reati della stessa specie, presupposto utilizzato non solo per l’applicazione delle misure custodiali (carcere e arresti domiciliari), ma anche per misure indispensabili per tutelare vittime di reati seriali come, ad esempio, l’allontanamento dalla casa coniugale per le donne vittime di violenza. Va detto che fiumi di inchiostro e anni e anni di studio, sono stati spesi da fior di giuristi per aggiustare ed interpretare nel modo più corretto queste due tre paroline, che a prima vista sembrano scontrarsi con l’art. 27 della Costituzione, quello che dice “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” (che è cosa leggermente diversa dal pretendersi innocente fino a prova contraria, ma questo i lettori di Hic Rhodus lo sanno benissimo). Se sono innocente fino alla condanna, come fai a dire che posso commettere altri reati della stessa specie? Mica è certo che ho commesso il reato del quale mi stai accusando (visto che la condanna ancora non c’è)!
Ora, capiamoci, le misure cautelari sul presupposto della reiterazione si applicano quando siamo davanti a criminali seriali, a gente che campa di furti, rapine, truffe, spaccio, a chi picchia sistematicamente la propria moglie o compagna, a chi la fa oggetto di stalking perché non accetta che, come ogni cosa, anche l’amore possa conoscere la parola fine. Chi va in carcere perché ha ucciso la moglie, di certo non ci va sulla base della reiterazione. Però potrebbe cercare di inquinare le prove, di parlare con i testimoni per indurli a dichiarare cose contrarie al vero. Chi va in carcere per una bancarotta miliardaria, neppure: con le risorse nascoste, è probabile che cerchi di svignarsela. Chi campa di spaccio, di truffe, di furti, invece, può andare in carcere sulla base di un solo presupposto: la reiterazione dei reati. “Ma non sono ancora condannato in via definitiva!”, protesta il pusher/truffatore/ladro. Appunto, non ancora, perché magari la tua carriera criminale non è ancora abbastanza storicizzata, oppure perché, banalmente, l’hai sempre fatta franca.
Ancora. Chi picchia la moglie o perseguita la ex fidanzata, può essere allontanato dalla casa famigliare (non per forza andare in carcere, ma se passasse questo sciagurato referendum, non sarebbe nemmeno allontanato) per evitare che continui a farlo, anche se abbiamo solo dei referti del pronto soccorso e delle foto di volti tumefatti a dimostrarlo, e non una condanna definitiva. Può bastare per parlare di prevenzione della reiterazione?
Di separazione delle carriere si parla da molto tempo, talvolta in modo serio e documentato, insistendo sulla sua inevitabilità per l’attuazione del giusto processo di cui art. 111 Cost. o ricordando la raccomandazione europea di ormai vent’anni fa. Il passaggio di funzioni, da giudicante a requirente è attualmente possibile, ma con forti vincoli temporali, territoriali e funzionali. La bubbola secondo cui lo stesso magistrato possa, addirittura nello stesso processo, fare prima l’accusatore e poi il giudice non solo è vietato dalle norme attuali sull’ordinamento giudiziario relative al passaggio di funzioni, ma è escluso positivamente dal codice di rito: basta googlare art. 34 c.p.p. e leggere, ricordandosi che questo vincolo esiste da più di trent’anni, da molto prima, cioè, che intervenissero le attuali e più stringenti norme sul passaggio di funzioni.
La separazione totale delle carriere esporrebbe l’autonomia e l’indipendenza della magistratura al rischio di ingestioni governative, lasciando i Pubblici Ministeri in un limbo sospeso tra magistratura ed esecutivo, mentre semplicemente specializzando ulteriormente le figure professionali (e mantenendole ben salde nell’alveo magistratuale) e continuando a distinguere i magistrati solo per funzione, si risolverebbero quei residui timori di contiguità che, ricordiamoci, sono inevitabili in tutti gli ambiti di lavoro: i giudici non prendono il caffè solo con i Pubblici Ministeri, ma assai spesso anche con gli avvocati, quando non ne sono mariti o mogli.
Provate a entrare in un bar e a chiedere agli anziani seduti a leggere il giornale: “secondo voi è giusto che i laici votino in consiglio giudiziario?”. Con un po’ di fortuna, faranno finta di non avervi ascoltato.
I Consigli Giudiziari sono i referenti distrettuali del Consiglio Superiore della Magistratura; sono composti in maggioranza da magistrati (come il CSM) e, in misura minore, da rappresentanti dell’avvocatura e dell’università (come il CSM) e si occupano, fra le altre cose, delle valutazioni di professionalità dei magistrati. I promotori si dolgono del fatto che i componenti laici (docenti universitari e avvocati) non votino (mentre al CSM, invece, votano) sulle valutazioni di professionalità dei magistrati, che perciò non sarebbero eque.
La valutazione di professionalità, con i vincoli e la regolarità prevista per i magistrati, non è prevista per altri professionisti e nessuno pare dolersene. Non è prevista per i medici, per gli insegnanti, non è prevista per gli autisti di autobus, per i poliziotti, per i pubblici dipendenti in generale. Si tratta di sbarramenti al proprio futuro professionale, incluso l’aspetto economico. Consentire alla classe forense locale di esprimere valutazioni sulla carriera dei magistrati che incontra più o meno spesso, non è per niente equo, è invece molto rischioso, perché i componenti non togati non sono gli stakeholders dei magistrati, ma i loro diretti antagonisti.
Né vale l’affermazione secondo cui, essendo i giudizi per lo più positivi, la valutazione in realtà è un pro forma nel quale tutti si salvano e si applaudono tra di loro: Il Consiglio Giudiziario deve esprimersi sul periodo da valutare, e il CSM poi decide (e non è affatto detto che se il primo si è espresso in un senso, il secondo si adegui de plano). Esistono parametri valutativi precisi, che non includono il fatto di aver dato torto o ragione al proprio cliente. L’idea della “logica corporativa” si scontra frontalmente con la dialettica insita nel rapporto magistratura/classe forense, tanto più evidente a livello distrettuale, dove la possibilità di conoscere direttamente il magistrato in valutazione è assai elevata, ragione fondamentale per cui, in sede distrettuale, i laici non votano.
Il pietoso tentativo di eliminare le correnti per portare il CSM ad una situazione idilliaca, dove il magistrato si può candidare forte del suo solo prestigio personale, è – per essere molto generosi – piuttosto ingenuo. Si vuol fare credere che, eliminando il vincolo delle 25/50 firme e dell’adesione dichiarata ad una corrente, improvvisamente, i magistrati cesseranno di avere opinioni e di manifestarle. Come se costoro non votassero, non avessero idee, non comunicassero tra di loro condividendo, scambiando e sviluppando il proprio pensiero, in più pensieri comuni e condivisi.
Il CSM del dopo Palamara è diviso fra tentativi di riforma e desiderio di dimostrare che un organo di autogoverno può e deve potersi autoproclamare, avendo eliminato le “mele marce” e lasciando emergere solo i giusti. La riforma in discussione spera di risolvere il problema cambiando il sistema elettorale. I promotori spingono nell’illusoria convinzione che, togliendo le etichette, magicamente, verranno a mutare le cose. Bene: le cose non muteranno abolendo il vincolo delle firme e non muteranno modificando da proporzionale a maggioritario il sistema elettorale del CSM. Abolire un vincolo di lista dichiarata non fa altro che aprire la strada alle liste non dichiarate: candidature di apparenti singoli, ovviamente sostenute da gruppi, che anziché palesarsi si muovono dietro le quinte, alimentando ancor di più il clima di sfiducia attuale.
Quanto al metodo maggioritario, quello previsto nella riforma Cartabia, mi meraviglio che ancora si riesca a far credere che serva a rendere più rappresentativo il risultato elettorale, quando semmai è esattamente il contrario. Chi si ricorda dei referendum di Mario Segni dei primi anni ’90? Voleva ottenere maggiore stabilità passando da proporzionale a maggioritario, e chi gli dava contro si doleva della diminuita rappresentatività del metodo maggioritario (tanto è vero che con il porcellum siamo tornati al proporzionale per salvare la rappresentatività, con vari correttivi per salvare la governabilità, che non è comunque detto che ci sia, come la recente storia insegna).
Mettiamoci l’anima in pace: il probo Cincinnato, che si immola per il bene comune e torna a zappare l’orto, non esiste.