Commentando uno dei miei ultimi articoli, qualcuno dei lettori abituali e amichevoli di Hic Rhodus ha osservato che a volte sembriamo pretendere di poter giudicare senza incertezze anche questioni complesse e in cui è evidente che torti e ragioni non sono divisi con l’accetta. Per quanto io creda che formarsi un giudizio su qualsiasi argomento non banale comporti sempre una scelta che alla fine riconosca le ragioni prevalenti e giustifichi in ultima analisi le decisioni pratiche che ne conseguono, ci sono situazioni in cui non è facile limitarsi a registrare questa prevalenza.
Un caso recente in cui la “soluzione” di un dilemma in realtà lascia molto di insoluto è quello che ho incontrato sfogliando il sito della BBC: il 25 novembre scorso, la sezione civile della Corte d’Appello britannica ha respinto il ricorso presentato da Heidi Crowter e Maire Lea-Wilson per conto del figlio minorenne Aidan, che sostenevano che la legge sull’aborto vigente nel Regno Unito (l’Abortion Act del 1967) viola la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo in quanto lederebbe il diritto al rispetto della vita privata e familiare garantito dall’articolo 8 e quello alla non discriminazione garantito dall’articolo 14 della Convenzione. Questo perché l’Abortion Act, consentendo l’aborto oltre il limite altrimenti fissato di 24 settimane nel caso di gravi anomalie fisiche o mentali del feto, costituirebbe «un implicito insulto all’identità e alla dignità umana» delle persone disabili. Sia la ventisettenne Heidi Crowter, un’energica attivista per i diritti dei disabili, che Aidan Wilson, infatti, sono affetti dalla Sindrome di Down.
La tesi degli appellanti, in sostanza, è che la legge, considerando che la probabilità di una seria disabilità futura del nascituro dia alla madre il diritto di abortire anche oltre il limite di tempo ordinariamente consentito, leda gravemente sia i diritti del nascituro stesso che quelli più generali delle persone disabili, che si vedono così classificati per legge come persone la cui vita ha un valore inferiore e che rappresentano un peso di cui è lecito volersi liberare.
E in effetti questo è quanto accade nella grande maggioranza dei casi. Secondo il testo della stessa sentenza, nel Regno Unito oltre il 52% delle gestanti che ricevono una diagnosi di Sindrome di Down per il feto decidono di abortire; in molti altri paesi europei, questa percentuale è anche più elevata, e le nuove modalità di screening precoce hanno aumentato sia la capacità di riconoscere i casi a rischio, sia ovviamente la possibilità per le gestanti di decidere di abortire. Secondo un articolo del 2020, nel periodo tra il 2011 e il 2015 in Europa gli aborti selettivi hanno impedito complessivamente il 54% delle nascite di bambini Down, mentre in Italia questa cifra è stata pari al 71%, e dal 2015 tutte queste percentuali sono sensibilmente cresciute. Il ricorso all’aborto ha condotto a un calo delle nascite Down sul totale dei nuovi nati, mentre in assenza di esso sarebbe accaduto esattamente il contrario, presumibilmente per la tendenza delle donne ad avere gravidanze in età relativamente più avanzata (in Italia, di nuovo, questo fenomeno è particolarmente accentuato).
La possibilità di scelta offerta dalle tecniche diagnostiche prenatali e dalle leggi sull’aborto, che sono abbastanza simili nei vari paesi, stanno rendendo realistica la prospettiva di un mondo senza Sindrome di Down, o più esattamente senza neonati Down, perché naturalmente non c’è modo di impedire il verificarsi dell’anomalia genetica negli embrioni. Sempre la BBC ha mandato in onda un documentario dal titolo A World without Down Syndrome, realizzato da una giornalista madre di un ragazzo Down, nel quale si esplora la possibilità che in Europa la libertà di scelta individuale conduca a un numero di nuovi nati Down virtualmente zero. Ovviamente la giornalista non considera suo figlio e i ragazzi come lui semplicemente come un peso per la propria famiglia e per la società, ma una ricchezza, eppure è facile osservare che quello che prova lei, decisamente benestante e con un figlio i cui sintomi sono evidentemente nella fascia meno grave delle casistiche associate alla sindrome, può essere molto diverso da quello che sperimenterebbe una madre in condizioni disagiate e con un figlio in condizioni più gravi.
Heidi Crowter ha certamente delle comprensibili ragioni per sentirsi giudicata “inferiore” dalla legge britannica, che considera la nascita di un figlio Down come una prospettiva che i genitori hanno il diritto di rifiutare. La sentenza che le ha dato torto riconosce la plausibile reazione che le norme sull’aborto possono suscitare nelle persone Down: «La Corte riconosce che molte persone con la Sindrome di Down e altre forme di disabilità possano essere sconvolte e offese dal fatto che una diagnosi di disabilità grave durante la gravidanza sia trattata dalla legge come una giustificazione per l’interruzione, e che essi possano considerarla come un’implicita affermazione che le loro vite abbiano un valore inferiore. Ma la Corte ritiene che la percezione che la legge implichi questo non sia di per sé sufficiente a dar luogo a una contraddizione con i diritti riconosciuti dall’articolo 8 [dall’Abortion Act]» (qui e altrove la traduzione è mia). Ed è su questo punto che tornerò nella mia riflessione conclusiva.
La sentenza, insomma, rigetta il ricorso su due basi: la prima, che riguarda la parte del ricorso basata sul diritto alla vita e a non essere sottoposti a trattamenti inumani o degradanti, è che il feto non è un soggetto titolare dei diritti riconosciuti dalla Convenzione; la seconda, che riguarda invece le persone Down in generale, consiste nello stabilire che «l’esistenza di un diritto legale non può dipendere solo dalla percezione soggettiva di qualcuno che si considera vittima». Mentre la prima delle due considerazioni è un punto ampiamente discusso relativamente all’aborto (l’esistenza di ipotetici diritti del nascituro), la seconda è molto meno dibattuta e a mio avviso, come anticipavo, di estremo rilievo nella nostra società di oggi.
Probabilmente lo stesso giudice estensore della sentenza ha avvertito la rilevanza e l’attualità di questo punto, perché ha dedicato un paragrafo a una digressione non immediatamente legata al caso, scrivendo tra l’altro: «La maggioranza delle persone appartiene a gruppi ed esserne membri è importante per il loro senso di identità. Esempi ovvi al di là di questo caso riguardano gruppi definiti dal genere, dall’etnia, dalla religione o dall’identità sessuale. Non è insolito che disposizioni o affermazioni che apparentemente non promuovono stereotipi negativi su questi gruppi possano ciononostante essere percepiti come dai loro membri come dotati di implicazioni svalutanti della loro identità o del loro valore. Ci sarebbe un pesante impatto sul processo decisionale pubblico e sul dibattito pubblico, inclusi i valori della libertà di parola, se percezioni di questo tipo fossero sufficienti per costituire un’interferenza con i diritti [di libertà garantiti dalla legge, sintetizzando l’originale]». Insomma: la percezione soggettiva di essere lesi da un comportamento o da parole altrui non costituisce base sufficiente per il diritto di impedire quel comportamento, se altrimenti legittimo.
In conclusione, e tornando alle considerazioni introduttive, mi sono formato un’opinione chiara su questo caso e sulle sue implicazioni? Ammetto volentieri che un’opinione ce l’ho, e che essa coincide con la decisione dei giudici. Anzi, mi sentirei di dire che le motivazioni che ho citato, e che ovviamente sono solo parte di quelle pubblicate dalla Corte, siano in linea con molti articoli che abbiamo pubblicato su Hic Rhodus. Se il modo in cui esercito la mia libertà ferisce la tua sensibilità, non è un motivo sufficiente per impedirmi di fare e dire quello che meglio credo; si tratta di un principio liberale irrinunciabile, violando il quale inevitabilmente si corre il rischio, come scrive il giudice britannico che ha redatto le motivazioni della sentenza, di paralizzare ogni comportamento pubblico. Nel caso specifico, il diritto di una coppia di scegliere se dare o meno alla luce un figlio Down non può dipendere dalle ripercussioni che questa scelta possa avere sulla sensibilità delle persone Down. Allo stesso modo, il riconoscimento dei pieni diritti umani e civili delle persone Down non cancella il fatto che la Sindrome di Down sia una patologia, con ricadute di gravità variabile su molti organi e sistemi, e non semplicemente una “variazione” rispetto alla normalità. Questa è la mia opinione, ma ho voluto scrivere questo articolo per proporre la questione al giudizio dei nostri lettori, che potrà ben essere diverso dal mio e da quello della Corte d’Appello.
E, pure, anche chi condividesse la mia opinione non può dimenticare che anche grazie agli enormi progressi che la medicina e il welfare hanno assicurato alle persone Down, la cui aspettativa di vita è oggi intorno ai sessant’anni, tutti noi abbiamo l’obbligo di riconoscere in esse non solo le prerogative tipiche di ragazzi da “gestire”, ma quelle di adulti capaci, come nel caso di Heidi Crowter, di studiare, lavorare, sposarsi e offrire alla società un contributo di cui forse fa parte il costringerci a riflettere come in questo caso. Le persone Down non sono solo oggetto di leggi ma soggetti partecipi dei processi per cui le leggi sono scritte e applicate.