No, l’argomento di questo articolo non è un nuovo film dell’orrore che riprenda i fasti di qualche classico del genere; lo spunto in realtà mi viene da un evento culturale apparentemente innocuo di cui parla il sito della BBC: il Museo di Manchester è stato riaperto il mese scorso dopo lunghi lavori di ristrutturazione, e per l’occasione ha ripresentato al pubblico, in un nuovo allestimento, la sua preziosa collezione di mummie egiziane del periodo greco-romano che durante la chiusura era stata trasferita in prestito in diversi musei in Nord America e Cina. Anzi, forse dovrei parlare di una collezione di sarcofagi.
La novità della nuova esposizione (intitolata Golden Mummies, Le mummie d’oro) è costituita infatti dall’assenza di informazioni sul contenuto dei sarcofagi: niente immagini di radiografie o TAC dei corpi mummificati, niente ipotesi sull’età o sulle condizioni di salute riscontrate su di essi, insomma niente che non sia l’aspetto esterno di questi iconici reperti. Come dice l’articolo della BBC (qui e nel seguito la traduzione italiana è mia), lo scopo è «capovolgere la narrazione» sulle mummie: «Anziché includere ipotesi che si potrebbero definire voyeuristiche sui resti umani che contengono, Le mummie d’oro si concentra piuttosto sugli sbalorditivi contenitori che gli Egizi realizzarono perché i loro morti vi trascorressero l’eternità». Vale la pena di aggiungere che immagini e tabelle informative voyeuristiche erano presenti quando le mummie erano state esposte all’estero, e che quindi sono state deliberatamente eliminate dalla nuova mostra.
In parte, secondo la BBC, si tratta di una scelta dettata dai valori posti dalla nuova direttrice al centro dell’attività del museo: «inclusione, immaginazione e cura», cura che in questo caso si traduce nel «prendere atto che quello che c’è sotto l’involucro che avvolge le mummie non era destinato ai nostri occhi», e infatti il curatore della mostra sottolinea che «è perfettamente chiaro che gli antichi Egizi che producevano queste opere non volevano che il contenuto venisse alla luce». Una scelta di “rispetto” ancora più radicale è stata compiuta nel 2020 dal Museo Pitt Rivers di Oxford, che annunciò la decisione di nascondere al pubblico una mummia e altri resti umani, come alcune teste rimpicciolite, per «dimostrare il nostro rispetto verso le comunità di tutto il mondo con cui collaboriamo» e per il timore che al pubblico quei reperti trasmettessero l’idea che quelle lontane culture fossero primitive o crudeli. In altre parole, un museo dovrebbe esporre e far conoscere solo ciò che possa orientare il pubblico a pensare “bene”, mentre dovrebbe nascondere ciò che rischia di «rafforzare dei modi stereotipati di pensare che sono contrari ai valori attuali del museo», come comunicò appunto la direttrice del museo di Oxford. Andate pure al museo, insomma, purché ne usciate con pensieri in linea con i valori etici del museo.
Naturalmente, questa linea non è (per fortuna, aggiungerei) condivisa da altri grandi musei britannici, e in particolare dal British Museum, che ha al contrario messo in grande evidenza le conoscenze che le moderne tecniche di analisi non invasiva hanno permesso di ottenere su questi millenari capolavori dell’arte funeraria egizia (se l’argomento vi affascina, vi consiglio di guardare questo interessantissimo video pubblicato appunto dal British Museum). Grazie a esse, oggi sappiamo molte cose che non potremmo conoscere senza l’uso di queste tecnologie, e per chi la pensa come me si tratta di un arricchimento prezioso. Ma non c’è dubbio che nella ormai costante caccia ai comportamenti «non inclusivi» anche questo tipo di indagine storico-scientifica sia entrata nel mirino dei normalizzatori.
In altre parole, siamo di fronte a un altro, insolito, terreno di confronto tra il desiderio di conoscenza, la ricerca storica, l’analisi dei fatti da un lato, e l’inclusività e le cautele contro il “colonialismo culturale” dall’altro; non c’è da sorprendersi se ognuno di noi si ritrova quasi automaticamente a collocarsi da un lato o dall’altro rispetto a un’impostazione che, essendo fondamentalmente moralista, è perciò stesso divisiva (il moralismo è quella cosa che esprime giudizi che pretendono di valere erga omnes, basati su un sistema di valori “giusto”, e che divide i “buoni” dai “cattivi”). Se a me la sola idea che un museo possa occultare dei reperti storici per ragioni di “rispetto” fa venire la pelle d’oca, probabilmente lo stesso non vale per molti di voi, che attribuiscono un valore prioritario a non ferire altrui sensibilità, specie se di comunità storicamente “colonizzate”; se per me il valore essenziale, se non l’unico, che deve informare l’attività di un museo è la diffusione della conoscenza, per altri evidentemente è la presentazione selettiva di quella parte di conoscenza che non mette a rischio il “rispetto” (comunque definito) per ogni cultura, visto che prima della condivisione della conoscenza vengono «inclusione, immaginazione e cura» (anche qui, comunque le si voglia interpretare). A seconda dei periodi storici, potrà prevalere un atteggiamento o l’altro, e per fortuna quando le Piramidi sono state scoperte nessuno si preoccupava del fatto che con tutta evidenza gli antichi Egizi non desideravano che gli estranei vi entrassero, altrimenti oggi, per rispetto, le conosceremmo solo dall’esterno.
I tempi in cui viviamo sono questi, o meglio, queste ne sono le avvisaglie, e lascio a ciascuno di voi riflettere su dove collocarsi in questo momento in cui una “nuova morale”, ma potrei dire una qualsiasi morale, viene estesamente applicata in ambito pubblico. Dove si possa giungere seguendo la bandiera dell’inclusività resta da vedere, e, dati gli attuali rapporti di forza, penso che lo vedremo. In fondo, poche istituzioni sono più coloniali del British Museum; chissà che sorte lo attende.