Il 14 Ottobre 1980 si svolse a Torino la cosiddetta marcia dei 40.000, una manifestazione di quadri e impiegati (ma anche operai) che intese protestare contro il prolungato sciopero indetto dalla FLM (la vecchia sigla unitaria dei sindacati metalmeccanici) contro la Fiat. Lo sciopero comportò, fra l’altro, l’organizzazione di picchetti per impedire ai lavoratori di entrare in fabbrica, e questo atteggiamento fu una delle principali ragioni di protesta. Quella marcia, di così rilevanti e inattese proporzioni, indusse la FLM a chiudere precipitosamente la vertenza, sancì la nascita di un sindacalismo dei colletti bianchi e, più importante, evidenziò la miopia sindacale che non previde né seppe gestire questa manifestazione prepotentemente anti-sindacale, ovvero contro un certo atteggiamento esclusivo (operaistico), rigido (i picchetti, il blocco delle merci) e – secondo i manifestanti – antidemocratico. Al di là delle analisi partigiane del momento (sindacato e PCI si affrettarono a denigrare la manifestazione giudicandola un’iniziativa pilotata dalla Fiat), analisi accurate successive ci consegnano un quadro molto diverso e articolato che ci consente di ritenere questo come forse il primo significativo momento di scollamento fra il sindacato e la società, il sindacato e la sua capacità di proporsi come portatrice di valori del lavoro generali, se non proprio universali. Una grande sconfitta sindacale dopo anni di lotte vittoriose ed egemoni, e l’inizio di una nuova stagione di relazioni industriali.
Col rinnovarsi delle divisioni sindacali, nel decennio successivo troviamo, nel modello di concertazione triangolare (stato, sindacati, organizzazioni datoriali) un nuovo pilastro dell’involuzione sindacale in Italia. La concertazione nasce a partire da due accordi rilevanti:
- il Protocollo 31 luglio 1992 tra governo e parti sociali – Politica dei redditi, lotta all’inflazione e costo del lavoro, che abolì definitivamente la cosiddetta “scala mobile”, un meccanismo automatico di adeguamento degli stipendi all’inflazione adottato nel 1975 su spinta sindacale, progressivamente limitato nel 1984 dal Governo Craxi e quindi abolito nel 1992 con questo protocollo durante il Governo Amato. Va ricordato che il PCI promosse un referendum abrogativo nel 1985 per contrastare le limitazioni craxiane alla scala mobile e perse;
- l’Accordo tra governo, Confindustria e sindacati sulle nuove relazioni sindacali, noto anche come Protocollo Ciampi-Giugni del 23 Luglio 1993. Questo accordo – superata la scala mobile – intendeva per la prima volta fissare degli obiettivi comuni (fra Stato e parti sociali) di politica dei redditi, cioè di accrescimento dei salari sulla base dell’aumento della produzione e degli utili d’impresa. Secondo tale politica sarebbero stati fissati dei limiti all’inflazione, tramite la previsione di un “tasso d’inflazione programmato”, per conseguire una crescita occupazionale, uno sviluppo economico tramite l’allargamento della base produttiva ed una maggiore competitività delle imprese.
Questi due accordi furono sollecitati da una condivisa necessità di risanare l’economia pubblica abbattendo l’inflazione con un occhio all’appena firmato Trattato di Maastricht e in previsione dello sforzo di adeguamento dei conti italiani per entrare nell’Euro.
La parabola sindacale quindi, riassumendo in poche righe, si può sintetizzare così: periodo di grandi lotte sociali con il sindacato in funzione di avanguardia (fine anni ’60 e anni ’70) e due pietre miliari non solo simboliche: lo Statuto dei lavoratori (1970) e l’opposizione alla deriva sovversiva delle Brigate Rosse con l’omicidio di Guido Rossa (1979); riflusso degli anni ’80 con le sconfitte che abbiamo fatto iniziare con la marcia dei 40.000 e proseguono con la sconfitta sulla scala mobile; nuova stagione – sostenuta da Ciampi e Prodi – della concertazione (anni ’90 e 2000) in cui ai conflitti e alla contrapposizione si sostituisce l’accordo programmatico e preventivo in nome della pace sociale e dello sviluppo economico; notare che la crisi della politica con l’inchiesta “Mani pulite” e l’avvio della cosiddetta Seconda Repubblica ha il suo giro di boa nel 1992, e non può essere visto come un caso che esattamente in tale devastante crisi il sindacato – tramite i processi di concertazione – sia chiamato a farsi a pieno titolo soggetto politico; e accetti.
Il significato ultimo della concertazione è proprio l’ingresso del sindacato nell’arena politica fino a divenire un vero e proprio veto player in grado di determinare i tratti delle riforme, condizionare i caratteri della legislazione e della contrattazione collettiva, imporre dirigenti nelle imprese pubbliche (p.es. Moretti alle ferrovie) e dar spallate ai governi (quello Berlusconi nel 1994).
In quegli anni il Paese è chiamato ad una drastica razionalizzazione del bilancio statale proprio nel momento in cui la classe dirigente dei partiti attraversa la crisi di legittimazione più profonda della sua storia ed è necessario porre fine alla politica di sostegno della pace sociale mediante spesa pubblica che aveva caratterizzato i precedenti decenni. È̀ in questo contesto che maturano le condizioni per il nuovo coinvolgimento dei sindacati nella responsabilità di governo, definita, appunto, “concertazione”.
La conclusione della storia è doppia: da un lato il peso giocato dalle tre maggiori confederazioni sindacali nelle decisioni di spettanza politica (p.es. riforme delle pensioni e dei lavori subordinati nel 1995; “pacchetto Treu” del 1997; Protocollo del 23 Luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività), d’altro lato il doppio livello di contrattazione, quindi le rappresentanze sindacali unitarie e, di conseguenza, una sorta di ampliamento a livello locale dei principi della concertazione. Questi fattori hanno portato il sindacato ad assumere un ruolo molto diverso da quello iniziale, originario, di difesa dei diritti dei lavoratori in un contesto asimmetrico e sbilanciato a loro sfavore, a quello di soggetti attivi di politiche economiche e del lavoro (livello alto, di veto player) e di concreti negoziatori locali fra politiche aziendali e bisogni sociali.
L’azione politica generale e quella negoziale locale trasforma il sindacato. Da depositario di interessi solidaristici generali riguardanti i lavoratori dipendenti, diventa soggetto portatore di interessi mirati e specifici e, in particolare per le tre Confederazioni, da ottimizzare in ragione del calo di iscritti e della comparsa, sin dagli anni ’90, di altre sigle sindacali. Ciò significa necessità di ricercare consenso con derive consociativistiche da intendere in senso deteriore come accettazione di compromessi, non chiari e non alla luce del sole, per il mantenimento del ruolo politico conquistato a livello centrale e locale. L’irrazionale salvataggio dell’Alitalia e l’oscura omertà sull’ILVA di Taranto sono due simboli emblematici recenti di questa spirale involutiva mossa da interessi immediati, populistici e di parte, mentre i diffusi aneddoti sulle fortune personali dei sindacalisti nelle aziende (specie pubbliche), corroborano l’immagine del sindacato come luogo di costruzione di percorsi individuali analoghi a quelli che stanno minando il sistema dei partiti italiani.
In questo quadro di mutamento genetico del sindacato occorre ricordare, en passant, il calo di iscritti (in preponderanza pensionati!), il tremendo calo di fiducia dell’opinione pubblica (generalmente attorno al solo 20% o meno negli ultimi sondaggi) e la straordinaria proliferazione delle sigle. È responsabilità del sindacato il non aver capito che la stagnazione e il declino dell’economia italiana dipendeva anche dalla sua azione e dalla sua difesa ad oltranza di un apparato normativo inadeguato di regolazione del mercato del lavoro e del sistema previdenziale, che aveva contribuito a creare, cullandosi sui successi delle grandi azioni collettive del 1994 (che fece cadere il governo Berlusconi) e del 2001 o 2002 (in difesa dell’art. 18). Negli ultimi 20 anni il sindacato difende quasi esclusivamente le leggi esistenti e la Costituzione (durissima azione contro il rafforzamento dell’esecutivo, difesa ad oltranza del bicameralismo perfetto) per difendere il contesto in cui può ottenere i migliori risultati, mentre non riesce ad essere motore di rinnovamento dell’apparato pubblico, dello stato, del modo di intendere le relazioni industriali. Il sindacato non appare capace di leggere le dinamiche sociali, economiche e occupazionali del nuovo millennio mantenendo la pancia nel consociativismo di breve respiro e la testa nelle ideologie del ‘900. Oggi il lavoro è una cosa totalmente differente da quello di trenta o quarant’anni fa (Camusso ha iniziato la sua carriera da sindacalista nel 1975; Bonanni nel 1972; Angeletti sempre nei primi anni ‘70), il mondo è cambiato, lo Stato e l’amministrazione pubblica sono cambiati, e senza una visione sistemica, senza capacità di apprendere da casi esemplari anche stranieri, senza elasticità, senza inclusività, il destino dei sindacati come lo conosciamo sarà destinato a declinare ulteriormente perdendo l’occasione di essere parte del rilancio e dello sviluppo del Paese, e forse diventando elemento di freno.
Risorse:
- Sulla marcia dei 40.000 il testo base è quello Alberto Baldissera. La svolta dei quarantamila: dai quadri Fiat ai Cobas, Comunità, Milano, 1988. Purtroppo non esiste una versione digitale. Ho però trovato una tesi di laurea di qualche anno fa che parla della marcia e fa riferimento alle tesi di Baldissera; la trovate QUI;
- Mauro Rufini, Concertazione, “Pericles” (sommaria definizione);
- Michel Martone, La concertazione nell’esperienza italiana; ampio testo con la storia delle relazioni industriali in Italia fino alla fine dello scorso decennio;
- Piero Melograni, I vincoli del consociativismo, “Il Sole 24 Ore”, 24 Nov. 1999;
- Confsal, Quanti sono gli iscritti al sindacato in Italia? Polemico documento che, su dati 2010, mostra uno scostamento del 18% fra gli iscritti dichiarati dalle principali confederazioni e quelli riscontrabili con altri dati di confronto.
Ringrazio l’amico e collega Alberto Baldissera per i preziosissimi consigli.