L’Italia è un paese per startup?

Coins and plant, isolated on white background

Periodicamente, i nostri giornali pubblicano notizie su giovani imprenditori italiani che ottengono successi in concorsi o iniziative internazionali per nuove startup. Gli italiani, recitano invariabilmente questi articoli, sono brillanti e ingegnosi, la scuola e l’università non sono poi così scadenti, eccetera.

Ma l’Italia, oltre a generare questi rampolli creativi e intelligenti, è un ambiente favorevole alla nascita di startup? E poi cos’è davvero una startup? Si tratta del modello di imprenditoria del futuro o è una faccenda di nicchia?

Innanzitutto, a costo di essere banali, cominciamo da cos’è una startup.

Una startup non è semplicemente una qualsiasi nuova azienda. Una startup è, secondo una definizione recepita anche da Wikipedia, un’organizzazione transitoria costruita per sviluppare un nuovo modello di business, rendendolo riproducibile e scalabile. Chiaro, no? Provo a dare una mia lettura di questa definizione:

  1. Si basa su un’idea di business innovativa. Queste idee nei tardi anni ’90 erano quasi tutte basate su Internet (le famose dot.com), ma ora includono un po’ di tutto, anche se la tecnologia resta un elemento spesso determinante. Un nuovo bar non è una startup; una nuova catena di bar che usasse bicchieri intelligenti per capire cosa i clienti stanno bevendo e consigliare la prossima consumazione potrebbe essere una startup.
  2. Ha un piano di crescita: la startup è una crisalide che, se tutto va bene, si trasforma in un’azienda di medie dimensioni. In altre parole, l’idea di business è tale da poter essere “industrializzata”, ovviamente se la startup ha successo.

Dopo questa lunga premessa, vorrei osservare che questo modello teoricamente dovrebbe essere particolarmente indicato per noi italiani, per diverse ragioni, che elenco a rischio di sfiorare il luogo comune: siamo creativi, siamo i campioni della piccola imprenditoria, siamo abili a lavorare in contesti poco strutturati (insomma, il caos creativo non ci spaventa).

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Inoltre, l’approccio-startup può costituire un modo per compensare il cronico divario che l’Italia accusa sul resto del mondo sviluppato relativamente all’innovazione. Analogamente, il nostro elevato tasso di disoccupazione giovanile implica che molti giovani anche altamente preparati non vengono assorbiti dalle imprese esistenti e possono essere più motivati a perseguire una propria idea imprenditoriale. Insomma, anche certe nostre debolezze dovrebbero costituire un incentivo ad adottare il modello delle startup.

Infine, le startup costituiscono un modo alternativo e sempre più utilizzato per fare ricerca e sviluppo. Diverse grandi aziende, che da anni si impongono tagli sostanziosi dei programmi di ricerca e sviluppo, hanno cominciato a finanziare, o meglio incubare, startup esterne (solo per fare un esempio tra i tanti, Telecom Italia ha un programma di incubazione che si chiama Working Capital). Spesso, infatti, per una grande azienda finanziare una startup è più economico e meno rischioso che far partire un progetto interno di ricerca e sviluppo.

Tutto bene quindi? L’Italia è il paese ideale per lanciare una startup? Non proprio. Come immaginerete, ci sono due fattori che non ci favoriscono: i soldi e la burocrazia.

Per quanto riguarda la seconda, conosciamo tutti bene gli ostacoli che essa pone alle imprese, ed è evidente che iniziative “ultraleggere” come le startup non possono sostenere il “normale” carico burocratico senza schiantarsi al suolo. Questo, per la verità, devono averlo pensato anche gli ultimi governi, che hanno infatti introdotto norme e incentivi destinati a facilitare la vita agli startupper. In particolare, la legge 221/2012 (con successivi regolamenti attuativi e modifiche) riguarda proprio le startup, con semplificazioni amministrative, agevolazioni fiscali e normative. Di quanto questa semplificazione sia …semplice potete farvi un’idea leggendo la guida sintetica agli adempimenti, o leggendo ad esempio questo articolo piuttosto critico.

A proposito di finanziamenti, infine, non c’è moltissimo da stare allegri. Ricorrendo alla pubblicazione The Italian Startup Ecosystem: Who’s Who, possiamo apprendere che in Italia gli investimenti in startup ad alta tecnologia sono un ottavo di quelli in Francia e Germania, un quinto di quelli nel Regno Unito e metà di quelli in Spagna. Peggio ancora, la tendenza degli investimenti appare in calando, come si vede dal grafico qui sotto:

Fonte:
Fonte: “The Italian Startup Ecosystem: Who is Who”

Come si vede, il calo previsto è in particolare dovuto agli “investitori istituzionali”, e anche di questo francamente non mi sorprenderei.

A compensare almeno in parte questo quadro, osserviamo che in una classifica mondiale dei dieci migliori incubatori associati a un’Università (ossia non gestiti direttamente dall’Università ma con stretti rapporti con essa) ci sono due incubatori italiani, e in particolare H-Farm, associato all’Università Ca’ Foscari di Venezia, è addirittura al secondo posto.

Come rispondiamo quindi alla domanda iniziale? L’Italia è o non è un paese per startup? Forse la risposta è che, in un paese dove fare impresa è difficile, anche fare startup è difficile, ma possibile. Chi si lancia in questa avventura, però, farebbe bene a studiare con attenzione tutte le possibilità offerte sia dal sistema di facilitazioni e finanziamenti pubblici (ivi inclusi quelli europei, e quelli offerti dal programma Smart & Start del Ministero per lo Sviluppo Economico); poi, farebbe a mio avviso ancora meglio a tener presente anche altre fonti di sostegno e finanziamento, quali ad esempio quelle corporate che ho citato prima, gli incubatori, specie quelli legati alle Università, o anche il crowdfunding, che è ormai una realtà anche in Italia. e anche in rapida crescita.