Se oggi fossi un costituente, chiamato a scrivere una nuova Costituzione, proporrei forse come primo articolo “L’Italia è una repubblica democratica fondata sull’uguaglianza dei diritti”. Se trovassi troppa opposizione a destra, a causa di una ragionevole paura che questi diritti siano intesi anche per immigrati, rom e gay, potrei cercare una mediazione con “… fondata sulla giustizia e la libertà”, o qualcosa del genere. Ma onestamente, sinceramente, non mi verrebbe in mente di fondare la mia Repubblica “sul lavoro”, non più che “sulla salute” o “su due pasti al giorno”. Né si può dire che questa sia una formulazione riscontrabile in altre costituzioni occidentali (fonte). È ovvio che per capire questa stranezza (a me appare tale) occorre compenetrarsi con quegli anni (1946-47) e con quegli interpreti della neonata repubblica post bellica: Togliatti innanzitutto. Lo scenario era piuttosto semplice: i comunisti erano (a torto o a ragione) fra i grandi vincitori morali e politici del momento grazie al massiccio contributo della resistenza, non certo solo loro, e non certo esente da ombre, ma tant’è; nella caotica divisione europea fra i vincitori del conflitto, la Russia dei soviet si era mangiata un bel boccone e sosteneva i partiti comunisti occidentali in un momento in cui i moderati europei e gli Stati Uniti temevano fortemente una presa del potere dei comunisti in Italia. Togliatti e i suoi, interpreti del leninismo più ortodosso, si ponevano come paladini dei lavoratori oppressi in un’epoca in cui la grande maggioranza era costituita da operai, manovali, braccianti e mezzadri.
Con la sua insistenza sul tema dei lavoratori Togliatti voleva segnare un punto in direzione di una visione proletaria e “sovietica” della nascente repubblica. La sua definizione originaria suonava, infatti, così:
Lo Stato italiano è una Repubblica di lavoratori (fonte per questa e la prossima citazione).
“I lavoratori”, quindi, e non già il lavoro. Il lavoro è un concetto astratto mentre i lavoratori sono i proletari, i compagni dai campi e dalle officine, i possibili rivoluzionari di domani. Dopo varie mediazioni operate soprattutto da esponenti cattolici (La Pira, Dossetti, Moro) la commissione parlamentare per la Costituzione boccia la proposta di Togliatti e approva questa formulazione:
L’Italia è una Repubblica democratica. La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese
Il baricentro si sposta leggermente: il fondamento diventa il lavoro, ma si sottolinea la partecipazione effettiva dei lavoratori all’organizzazione politica, sociale etc. Come dire che comunque gli artefici reali della conduzione del paese sarebbero i lavoratori.
Solo il 22 Marzo 1947, in Assemblea Costituente, un emendamento di Moro e Fanfani approvato per una manciata di voti ricondurrà al testo attuale.
Che non significa nulla. Che l’Italia sia “fondata sul lavoro” non significa più che i lavoratori hanno un ruolo particolare, non significa che qualcuno, o tutti, abbiano “diritto al lavoro” (questa è materia per l’art. 4), come non significa che gli italiani siano una schiatta di lavoratori o qualunque altra cosa. Di mediazione politica in mediazione politica, di cesello semantico in cesello semantico, la spinta togliattiana di caratterizzare, sin dall’art. 1, una visione sovietica dell’Italia è stata annacquata fino a scomparire. Resta una dizione inutile, residuo del compromesso in aula, dove ovviamente questa faccenda del lavoro non poteva scomparire completamente. I democristiani erano già democristiani a tutti gli effetti. E non si può, a questo punto, non notare l’asimmetria dell’art. 1 che nella prima proposizione (“L’Italia è una repubblica democratica”) parla della forma dello Stato, mentre nella seconda (“… fondata sul lavoro”) propone un asserto in nessun modo qualificante tale forma di Stato.
Appare dunque più produttivo, riaccostarsi all’art.1 sulla scorta di una consapevolezza cui si può dare finalmente accesso. La consapevolezza che risulterebbe ormai inadeguato voler dedurre dal principio del lavoro la richiesta di nuove forme di egemonia o di primato politico sociale, quale che sia il soggetto che per ipotesi ne dovrebbe assumere la titolarità. Nel “lavoro” deve invece ravvisarsi il principale paradigma della coesistenza e della integrazione tra i diversi gruppi sociali in cui si articolano gli assetti pluralistici contemporanei, in forza della pari dignità che ad essi deriva dal ruolo rispettivamente assolto nel funzionamento del sistema economico e dell’apporto in tal modo prestato alla realizzazione ed alla crescita del benessere della comunità cui fa espresso riferimento il secondo comma dell’art.4. Va da sé che in questa prospettiva il valore del lavoro, come codificato dall’art.1 non può che assumere portata universale, ossia l’attitudine ad includere le diverse espressioni della “vita activa” (il lavoro subordinato, il lavoro autonomo, il lavoro imprenditoriale, ecc.); in tutte difatti si realizza quella saldatura tra realizzazione individuale e risconoscibilità sociale su cui si gioca la capacità di progresso di una comunità. Ciò non significa scantonare nell’indistinto, restando fermo che il comune fondo di valore nulla toglie alle specifiche e rispettive identità e all’esigenza di appropriate misure di valorizzazione (Roberto Nania, Riflessioni sulla “costituzione economica” in Italia: il “lavoro” come “fondamento”, come “diritto”, come “dovere”, Associazione Italiana dei Costituzionalisti).
Il successivo recupero in chiave “lavorista” della nostra Costituzione, a questo punto, non appare convincente (si veda qui Onida) ma troverete molti riferimenti in rete) se non altro perché interpretazioni ex post, tentativi di dare un senso a una querelle il cui principale significato, come detto, si perde in ragioni storiche.
Perché abbiamo trattato di questo? Semplicemente per una ragione: difficile dire se la nostra sia la Costituzione più bella del mondo o semplicemente una buona costituzione o addirittura una mediocre. Certamente è un lavoro di intensa mediazione politica, operata settant’anni fa in epoca di blocchi, di guerre, di minacce comuniste e residui fascisti, di costituenti reduci da una guerra devastante. La Costituzione non è stata scritta su Marte con un algoritmo neutrale, ma è il frutto di un’epoca segnata da guerre e divisioni, dove gli equilibri erano delicatissimi e nessuno dei contendenti (sostanzialmente: comunisti e loro alleati da una parte e moderati dall’altra) aveva certezza di vittoria in prospettiva, e ciascuno cercava di imporre propri principi e di impedire la netta affermazione di quelli altrui. Il lungo lavoro di elaborazione linguistica dell’art. 1 è uno degli indicatori chiave per leggere queste paure, questo braccio di ferro comunque necessitato da una sintesi che contenesse un po’ delle ragioni di ciascuno.
L’inevitabile storicizzazione della Costituzione significa fra le altre cose sua caducità, inevitabile necessità di periodico aggiornamento (con tutte le cautele e le garanzie che si vogliono); anche nei suoi “principi fondamentali” dovrebbe e potrebbe essere tranquillamente aggiornata e rivista senza che alcuno si senta offeso, senza che ciò significhi un tradimento ai Padri della Patria, senza che si gridi al complotto.
Postilla finale: spero sia chiaro che non auspico un’estenuante lotta parlamentare per modificare l’art. 1; per quanto mi riguarda va benissimo anche così. Il senso è che la Costituzione nel suo insieme è un prodotto storico, storicamente connotato nel linguaggio, nei principi, nell’architettura. Interrogarsi sul suo adeguamento è doveroso, non semplicemente consentito.
(In copertina: lavori dell’Assemblea Costituente)