Il grande “ritorno al futuro” degli anni Settanta

Da un po’ ho cominciato ad avere una sensazione strana, dapprima indefinita, che si è man mano precisata in un singolare disagio: quello di vedere la società che mi circonda comportarsi un po’ come “Doc” Emmett Brown nel fortunato film Ritorno al futuro. Molti sembrano insomma non avere altra aspirazione che ritornare al felice mondo passato, i cui connotati rievocano quelli degli anni Settanta, quando tutto andava bene (?) e il mondo attendeva appunto un brillante futuro.

Certo, potrebbe trattarsi solo di una mia impressione, magari rafforzata da eventi del tutto casuali, come le commemorazioni di personaggi iconici dell’epoca recentemente scomparsi, come David Bowie, Muhammad Ali o Carrie Fisher. Però…
Però, qui in Italia, abbiamo visto quel giovanotto di Massimo D’Alema, che negli anni Settanta avviò la sua ascesa politica, combattere duramente per sopprimere le riforme costituzionali, smantellare il PD (che peraltro ha sempre coerentemente osteggiato), e ricostituire una formazione minoritaria di sinistra “non di governo” che profuma intensamente di Prima Repubblica. Questo disegno probabilmente ha avuto successo perché si è mosso all’interno di una più ampia reazione ai tentativi riformistici degli ultimi anni, e in generale di un rifiuto delle sfide politiche dell’ultimo trentennio: rifiuto del maggioritario, dell’Unione Europea allargata, dell’Euro, del lavoro “precario”, della globalizzazione economica, delle migrazioni, del cambiamento climatico. E non si tratta di un fenomeno solo italiano: con la Brexit il Regno Unito ritratta l’adesione alla CEE avvenuta nel 1973, in USA il trionfo di Donald Trump è fondato sul malcontento delle classi che negli anni Settanta erano dominanti e dagli anni Ottanta in poi hanno subito una progressiva marginalizzazione a beneficio di tecnocrati e finanzieri, e in Francia… staremo a vedere. Emblematica è davvero l’immagine di Trump che, circondato da minatori dei monti Appalachi, firma la cancellazione del piano di Obama per la riduzione delle emissioni di CO2, mentre i principali giornali commentano invano che le trasformazioni economiche, industriali e tecnologiche degli ultimi decenni rendono impossibile ripristinare i posti di lavoro perduti nelle miniere.

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Ma a che servono simili articoli, o a maggior ragione i nostri piccoli post? Nessuno è in ascolto: le nostre menti sono sintonizzate sul rock’n roll dei leggendari anni Settanta, e il frastuono è assordante, mentre i Seventies restano al centro anche dell’offerta culturale. Cover band di Pink Floyd, Led Zeppelin e Genesis impazzano, musical come Jesus Christ Superstar o il Rocky Horror Show riempiono ancora i teatri, al cinema troviamo le millesime iterazioni di Star Trek o Star Wars, al Festival di Sanremo il pubblico ritrova l’intramontabile Albano e la più giovane Fiorella Mannoia, che negli anni Settanta era ancora poco conosciuta.

Non c’è dubbio, molti di noi ricordano quegli anni come anni tutto sommato felici, almeno retrospettivamente. Musica e film erano molto meglio di adesso, i salari e i posti di lavoro mediamente crescevano, e la folta generazione dei baby-boomers era giovane e ben decisa a cambiare il mondo. Oddio, in Italia eravamo in pieno negli anni di piombo, l’inflazione era a due cifre, la crisi petrolifera aveva appiedato mezzo mondo e l’altro mezzo o era povero o era rinchiuso dietro la cortina di ferro, ma questi sono dettagli. Quello che è certamente vero è che le cose sembravano, ed erano, molto più semplici.

Personalmente, sospetto che quello che davvero ci manca di quegli anni sia proprio la semplicità. Negli anni Settanta, quando il tramonto della Prima Repubblica non era neanche immaginabile, la DC era la DC e il PCI era il PCI;

clicclac
I clic-clac. Cosa di più semplice?

gli USA e l’URSS si fronteggiavano in modo chiaro e il loro antagonismo era l’unica vera realtà globale dell’epoca; nessuno pensava che oltre alle toilette per uomo e per donna potessero servirne di altro genere, e le tecniche mediche non erano ancora
arrivate a sollevare questioni etiche per le quali non abbiamo risposte. I computer erano grossi armadi elettronici in stanzoni refrigerati, di cui nessuno sapeva nulla, e i telefoni che la SIP ci installava in casa non avevano la pretesa di rivolgersi ai loro utilizzatori con gradevoli voci sintetiche. I sindacati rappresentavano milioni di lavoratori appartenenti a categorie ben definite, e non pensionati, e ciascuno dei maggiori sindacati era allineato con la politica di uno dei principali partiti. Forse non è strano che abbiamo nostalgia di quei tempi, ma le reazioni che vediamo in questi ultimi anni mi sembrano terribilmente regressive, e abbinano una sistematica negazione di ogni tentativo di fare i conti con la complessità (una sorta di “No tutto”) al tentativo di recuperare modelli che spesso funzionavano male anche quando erano contemporanei e che ora sono palesemente arcaici.

Ma il tempo non si può invertire, e non si può ricacciare il genio nella lampada per “tornare al futuro” che ci aspettavamo in quegli anni. Alzare barriere protezionistiche non farà tornare la Cina e le “tigri asiatiche” a un’economia primitiva e incapace di competere con la nostra, replicare gli show degli anni Settanta non ci restituirà la fantastica stagione del progressive rock, cacciare Renzi non ci riporterà in un mercato del lavoro protetto da automazione e globalizzazione, uscire dall’Euro non ci farà ritornare ai tempi in cui il debito pubblico italiano era al 50% del Pil e la spesa pensionistica era il 9% del Pil anziché il 17%, negare il cambiamento climatico non lo farà sparire. Il terzo millennio è qui per restare, e non saranno i politici e le soluzioni degli anni Settanta a poterlo gestire.

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