Politica e questione morale

Se c’è un vulnus trentennale nella politica italiana, questo si trova nell’introduzione di un concetto prepolitico (‘prepolitico’ nel senso QUI chiarito), capace di essere equivocato, di accendere gli animi, di sovrastare il senso della buona politica; questo concetto è |questione morale|. Qui cercherò di spiegare perché il concetto sia nefasto e, almeno in Italia, abbia da decenni ucciso la politica che io ritengo sarebbe servita. Il termine fu coniato da Enrico Berlinguer in un’epoca abissalmente distante dalla nostra e con un significato in parte diverso dall’attuale. Diceva Berlinguer nel 1981 (QUI trovate ampi stralci dell’intervista, mentre QUI trovate un commento postumo di Scalfari):

La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. […] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.

Berlinguer , peraltro già da un lustro prima dell’intervista a Scalfari, intendeva accreditare il PCI come il “partito degli onesti”, con una sua “diversità politica” contro la corruzione della buona politica (‘corruzione’ in senso filologico, non giuridico). Ma con alcuni forti limiti visibili oggi.

L’idea berlingueriana è di fatto a metà fra una concezione di politica “alta” (i partiti non devono occupare le istituzioni, mantenendo ben distinte le loro funzioni ideologiche da quelle istituzionali, vocate al bene collettivo) e quella, divenuta poi preponderante, di natura giustizialista. Berlinguer parla della necessità di una svolta governativa, non più a guida democristiana, in un momento di profonda crisi repubblicana, nell’inverno 1980-81, come della necessità di “un governo diverso, formato da uomini capaci e onesti”; l’appello fu accolto dall’allora presidente del PRI Visentini che si espresse con analoghe parole. Il tema dell’onestà del PCI come differente da quella della maggioranza degli altri partiti (per contrapposizione, appunto, disonesti) valse quella patente di “diversità” che durò anni, vuoi perché il PCI non fu mai realmente ammesso a governare, vuoi perché riceveva cospicui finanziamenti dal PCUS e vuoi anche, e certamente, per un forte codice etico impresso nella maggior parte dei suoi dirigenti e quadri grazie al collante ideologico. Ma la lettura dell’intervista a Scalfari, come di brani assai precedenti, sembra far prevalere l’idea di un’onestà giuridica rispetto a quella politica; il partito degli onesti è sì di coloro che non occupano le istituzioni (cosa che invece il PCI fece alla grande a livello locale) ma specialmente di coloro che non rubano, e l’esplosione di Mani Pulite (1992) salvò il PCI anche grazie ai diversi fattori che preservarono quel partito dall’assalto famelico e corruttivo degli altri partiti. E, in ogni caso, è evidente che l’occupazione delle istituzioni per la gestione clientelare del potere e la corruzione dei singoli esponenti dei partiti sono due facce dello stesso fenomeno.

La giustizia e il giustizialismo sono ovviamente due concetti differenti. La prima è scontata in qualunque paese democratico; se rubi vai in galera. Il secondo, invece, non ha a che fare con la prima e si pone ideologicamente e ciecamente al servizio della politica peggiore per demolire gli avversari. Tanto che il suo opposto, il garantismo, da principio liberale è finito col diventare l’ideologia speculare del precedente, come forma cieca di difesa dei propri sodali al di là di qualunque principio di giustizia. Garantisti coi propri e giustizialisti con gli altri, come si vede ancora e ancora in tanti fatti di cattiva politica, diversamente interpretati a seconda del colore degli inquisiti. È forse necessario ribadire che vanno perseguiti i ladri e i corrotti? Non credo. Che i ladri e corrotti debbano essere esclusi da responsabilità politiche? È ovvio. Com’è ovvio che tanti casi recenti hanno mostrato che i frettolosi giudizi (giustizialisti) celebrati dalla stampa amica degli avversari si siano poi risolti con assoluzioni nelle aule, dopo avere provocato danni di immagine enormi. Quindi, molto ma molto semplicemente, occorre introdurre garanzie (per esempio sulle intercettazioni e il loro tremendo uso politico), lasciare che la giustizia faccia il suo corso, e poi bandire i rei una volta appurata la loro colpevolezza. Ma questo non c’entra con la politica. Io non voglio politici mascalzoni ma non voglio neppure un capufficio ladro, un amministratore condominiale corrotto, un ufficiale d’anagrafe concusso, un collega della bocciofila pedofilo o una maestra di scuola materna sadica, e tutto questo non c’entra con i condominii, con la scuola materna etc., ma ha a che fare con la società e con le relazioni fra i suoi membri, inclusi i politici.

Tutto ciò premesso è utile capire come si sia diffusa in maniera esagerata la perversione giustizialista. La chiamo ‘perversione’ in senso proprio, etimologico: da propaganda berlingueriana comunque allacciata a una visione di bene comune, alla continua e spietata macchina del fango che cerca di raffigurare tutto e tutti come disonesti, tranne naturalmente i propri amici. Mi sembra di poter indicare queste principali cause:

  1. la fine dell’innocenza originaria (vera o presunta) del PCI e sue filiazioni: ormai, dal PCI ai DS, quel partito e i suoi succedanei hanno governato eccome, e non sono stati esenti da personaggi discutibili. È facile trovare in Internet lunghi elenchi di amministratori e politici PD indagati, processati e a volte condannati, e questo alimenta l’idea che nessuno sia buono, tutti ladri, la casta, vergogna! Fate girareee!!!111!!!
  2. l’impetuoso aumento del populismo che si alimenta, appunto, di questi facili slogan; proprio perché sono tutti ladri mentre, ovviamente, il popolo è innocente, ecco lo sviluppo di pulsioni antisistema e antipolitiche; il populismo si nutre del malaffare altrui, che deve evidentemente enfatizzare ed elevare a sistema, e così facendo rafforza l’idea che tutto sia marcio, anche se non è vero;
  3. il protagonismo di giudici e magistrati. Mani Pulite fu un momento tragico di delega della politica, distrutta dagli scandali, alla magistratura, che fece a volte un uso disinvolto delle proprie funzioni. Poi, su quell’onda, la sinistra cercò di liquidare Berlusconi per via giudiziaria, non riuscendoci per via politica (e non sto affatto insinuando che di questioni interessanti per il magistrato non ne esistessero, a casa Berlusconi…). La magistratura è diventata, in Italia, una giocatrice politica, come il sindacato, anch’esso supplente della politica negli stessi tragici anni, e – a seconda delle interpretazioni dei diversi giudici – ha desiderio di intervento in politica, utilizzando, a volte ai margini della decenza e della regolarità istituzionale, strumenti impropri del suo ufficio (una critica generale di questo populismo giudiziario la trovate QUI).
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Davigo e Di Matteo

Questa riflessione non è una buona ragione per diffidare dell’ingresso dei magistrati in politica. Come qualunque cittadino, anche il magistrato può scegliere questa strada. Ma non quando vuole lasciar intendere che il suo ruolo, nell’agone politico dove ha scelto di cimentarsi, rappresenti, in virtù del suo ufficio, una garanzia di moralità. Davigo e Di Matteo al convegno 5 Stelle sulla giustizia si sono invece mostrati come una sintesi dei temi tratteggiati sopra; l’idea populista di giustizia, la confusione fra morale e giustizia tipica del populismo grillino, non lasciano ben sperare per la nuova ondata di magistrati politici che intendono succedere al fallimentare Ingroia e al più fortunato Masaniello napoletano.

Ma, e qui concludo, la morale non ha a che fare con la giustizia, e meno ancora con la politica. La politica riguarda tutti, è la gestione degli affari pubblici nei maggiori interessi della collettività. La morale invece è la codifica di valori etici che non sono mai collettivi ma personali; e non sono negoziabili. Io ho i miei valori e perseguo una mia etica, voi avete i vostri. Siamo differenti e ci differenziamo sempre di più, le visioni etiche differiscono e a volte confliggono. L’idea di una politica guidata dall’etica è spaventosa, perché significa imporre una visione del bene e del male, dei diritti e dei doveri, del giusto e dell’ingiusto, su tutti, calpestando le diversità che – a questo serve la politica – devono potersi scambiare, contaminare, confrontare, alla ricerca di un interesse comune e trasversale. Ecco un’ottima ragione per diffidare del populismo grillino e dei magistrati da loro sedotti. La Giustizia è parte di una visione laica del governo o, se volete, di una sorta di “etica civile” (dovere, responsabilità, terzietà…). I magistrati giustizialisti in politica rappresentano semplicemente un’involuzione dei più generali sistemi della politica e della giustizia, in un connubio pericoloso.