Il futuro appartiene alla nonviolenza, alla conciliazione tra le culture differenti. È per questa via che l’umanità dovrà superare il suo prossimo traguardo.
Stephane Hessel, Indignatevi!
Dal punto di vista politico questa è l’epoca dell’indignazione. Il popolo è stanco, vede le malefatte e s’indigna. I suoi rappresentati politici hanno tradito e il popolo s’indigna. Le ruberie, le malversazioni e le prepotenze non sono più tollerabili, e il popolo giustamente s’indigna. E poi? Questa energia sociale collettiva, queste dita puntate sul Male, che fine fanno? L’indignazione è una nobile forma di partecipazione politica o piuttosto un deposito di rabbia prepolitica a disposizione di chi la sa manovrare?
Per discuterne adeguatamente devo introdurre alcuni concetti importanti per distinguere ciò che è propriamente ‘politico’ da ciò che non lo è, proponendo questi aggettivi:
- a-politico: indifferente alla politica (non necessariamente contrario o ostile); non interessato, apatico, non informato e non interessato a tale informazione; probabilmente non va a votare per disinteresse (e forse ignoranza);
- impolitico: politicamente inopportuno e poco accorto (Gabrielli), e quindi ingenuo (o stupido, o malevolo) e dannoso (niente a che vedere con Le considerazioni di un impolitico di Thomas Mann); sono impolitici gli esagitati che a una manifestazione spaccano d’impulso un parabrezza o una vetrina, come i senatori che inscenarono la gazzarra dello spumante e della mortadella alla caduta del Governo Prodi; a livello popolare sono ‘impolitici’ per esempio gli atteggiamenti di astensione dal voto “perché tanto non cambia niente, sono tutti uguali, comandano sempre loro”;
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Guglielmo Giannini, Fronte dell’Uomo Qualunque prepolitico: concetto nato con Locke (‘600) che nei significati attuali ha a che fare con una riflessione politica senza prassi conseguente (nei suoi significati positivi, più rari) oppure con una riflessione politica inconsistente o incompiuta (nei suoi significati negativi, più usuali); per esempio votare per appartenenza (“la mia famiglia è sempre stata di sinistra quindi anch’io voto a sinistra”), oppure condurre analisi politiche vincolate a un’ideologia e quindi con sintesi scontate, o anche utilizzare un linguaggio stereotipato e ricco di cliché;
- politico: l’unico concetto positivo di questa serie, rispetto al quale gli altri in elenco sono caratterizzati da una carenza. La politica altro non è che l’organizzazione della vita pubblica, e quindi il confronto di idee sui diversi modi in cui tale organizzazione debba essere messa in pratica, sugli obiettivi da perseguire, loro priorità etc., in ragione di un ipotetico “interesse collettivo”, o “nazionale”, o di determinate categorie (le minoranze, per esempio). Come tutto ciò sia in realtà complicato, contraddittorio e non semplice da mettere in pratica è facilmente verificabile (si veda la voce “Politica” della Treccani suggerita in fondo a questo post). Difficoltà a parte – di cui non tratto qui – è politico l’atteggiamento costruttivo di riflessione e messa in atto di soluzioni ai problemi della collettività, compiuto secondo regole condivise, di cui si rende conto e ci si assume responsabilità;
- antipolitico: anche se il termine ha molteplici significati, anche positivi, assumo qui il significato prevalente nel dibattito di questo periodo intendendolo secondo la definizione di Carlo Galli:
Avversione e disprezzo per le forme e le attività della politica, e per i suoi protagonisti singoli (i politici), collettivi (i partiti), e istituzionali (i poteri pubblici). […] Questa antipolitica nasce dallo sdegno morale per gli scandali e la corruzione che coinvolgono i politici; dalla rabbia e dalla protesta per le promesse non mantenute dalla politica, e per l’ingiustizia con cui la politica calpesta i diritti dei cittadini; dall’idea qualunquistica che non vi sia differenza fra i partiti, che siano tutti uguali; e che con un po’ d’onestà personale e di buon senso ogni problema verrebbe risolto.

Naturalmente l’antipolitica è una forma di politica, offre un’analisi (generalmente stereotipata) e una conseguente azione che spesso sfrutta le regole tipiche della politica (per esempio la forma partito, le elezioni e la presenza parlamentare…), ma con uno scopo eminentemente eversivo (anche se qui ‘eversivo’ è utilizzato in un’accezione ristretta – ma legittima – del termine). Forse non c’è bisogno di tutte queste sfumature. Diciamo che le ultime tre sono le più interessanti e mi limito a queste.
Per parlare ora dell’indignazione farò esplicito riferimento al pamphlet di Stephane Hessel, dal titolo Indignatevi!, uscito nel 2010, ispiratore degli Indignados spagnoli e di Occupy Wall Street, citatissimo nel blog di Beppe Grillo. Hessel parla dell’indignazione come forza di cambiamento degli egoismi del mondo (in sostanza: del capitalismo) e si fonda sulla responsabilità individuale e la non violenza. Hessel ha avuto maestri di straordinario valore e una storia ricchissima di esperienze, e il suo libretto era esortativo, un messaggio per l’impegno dei giovani contro le ingiustizie; non a caso subito dopo Indignatevi! Hessel ha scritto Impegnatevi!. Questo messaggio di Hessel è positivo e propositivo, e qui utilizzerò questo suo concetto di ‘Indignazione’. A mio modo di vedere questo slancio propositivo dell’indignazione dovrebbe portare a una politica migliore (controllata dal basso, con obiettivi trasparenti, valutata…) e, specialmente, dovrebbe smuovere l’apatia e la sterilità della prepolitica, e temperare quella dell’antipolitica. Naturalmente molti hanno letto e compreso il libello di Hessel, molti – anche senza averlo letto – sono sanamente indignati e impegnati, proprio come reazione individuale e responsabilizzante, nel sociale, nella politica, nell’educazione e così via. Sono assolutamente certo di questo. Come sono certo che c’è un succedaneo dell’indignazione che invece premia la prepolitica e l’antipolitica, che si fossilizza nella denuncia stereotipata senza prassi, o negli eccessi dell’antipolitica sfascista.
Il disimpegno indignato, populista, rancoroso quanto disinformato, verbalmente violento quanto preda di cliché e stereotipi è estremamente forte in Italia. Anche se presenta dei caratteri di trasversalità che evidentemente hanno a che fare con l’intelligenza e la cultura delle persone, gli indignati prepolitici e antipolitici sono con abbastanza chiarezza concentrati in alcuni settori politici.
La concentrazione in alcuni gruppi politici è favorita da una banale relazione fra il livello “macro” e quello “micro” ben studiato nelle scienze sociali. Avere un contenitore (partito o movimento), ricevere parole d’ordine, vedere tali parole d’ordine rimbalzare sui mass media (specie la tv) con continuazione, entrare nel gruppo e sentirsene parte (con senso di protezione, di inclusione, di verità) sono evidentemente tutti elementi che favoriscono l’aggregazione. Di contro, fare aggregare attorno a poche parole d’ordine, mantenere l’indignazione come condizione di coesione, secernere in continuazione malumore, indicare nemici, aggredire verbalmente, sono gli strumenti della leadership necessari per mantenere e manovrare masse considerevoli di individui: per vincere le elezioni, imporre una legge, scendere in piazza minacciosamente se non soddisfatti…

Ma questa indignazione pre- o anti- politica, per essere politicamente utilizzabile, deve continuamente rinnovarsi. Il climax antagonistico e battagliero deve costantemente essere mantenuto alto, cosa che – in mancanza di una ideologia netta e chiara – diventa impresa complessa. Ecco allora un lavorìo continuo di iniziative eclatanti (salire sui tetti ieri, chiedere l’impeachment di Napolitano oggi, far cadere il governo domani), tutte rigorosamente inessenziali rispetto all’agenda dei problemi economici e sociali italiani, tutte destinate al fallimento ma tutte, rigorosamente tutte, lanciate nell’arena politica come questioni essenziali, delitti da vendicare, pietre miliari per la costituzione di un nuovo ordine. Ecco il linguaggio sempre e soltanto iperbolico, con aggettivazioni al vetriolo, con l’annullamento degli avversari; sempre quello, attentamente ripreso da epigoni e seguaci. Ecco l’isolamento (il M5S che non si allea con nessuno, Forza Italia che esce dal governo scontando la scissione…) pur di restare puri, distinti, fedeli ai cliché. Ecco l’Amato Leader. Ecco il populismo…
Il paradosso è questo: da un lato gli indignati populisti, prepolitici e antipolitici sono facilissimamente individuabili: dicono sempre le stesse cose (solitamente quelle del leader), usano lo stesso linguaggio, reagiscono pavlovianamente a quelle che chiamano provocazioni, non deflettono, non discutono. Strillano. D’altra parte, non riuscendo a entrare in comunicazione con loro, non si riesce a farli recedere di un passo: inutile mostrare dati che sconfermano l’ennesima bufala anti-sistema che hanno messo in giro; inutile spiegar loro che certe teorie economiche, più che bizzarre, sono fantascientifiche; inutile provare a dire che “politica” vuol dire discutere per realizzare assieme un qualche beneficio pubblico. Inutile. L’unica speranza rimane quella dell’agire politico concreto e fattivo, onesto e disinteressato, che nel nostro Paese manca da troppi decenni. La riduzione della disoccupazione, il ritorno del benessere delle classi medie, il reale sostegno alle famiglie in difficoltà, servizi che funzionino davvero… Solo questo sconfiggerà il populismo, e l’indignazione che rimarrà sarà quella propositiva di Hessel. Insomma: solo una sperabile, ipotetica, futura buona politica scaccerà la prepolitica e specialmente l’antipolitica. Ma se interpretiamo correttamente Hessel, ciascuno di noi è chiamato, da subito, a fare la propria parte. Meno indignazione. Più partecipazione.
Risorse:
- Politica, “Dizionario di filosofia”, Treccani.it;
- Antipolitica, Carlo Galli, “La Repubblica”;
- Indignatevi!, Stephane Hessel, pdf gratuito.