Vi siete accorti del Black Friday appena trascorso? Certamente. Una cosa mai vista in Italia, nata negli Stati Uniti, è letteralmente esplosa e non c’è ferramenta di borgata che non abbia fatto il suo Black Friday che, per i pochi arrivati da Marte in questi giorni, è semplicemente una svendita straordinaria preparativa della sbornia consumistica natalizia. Black Friday… Il mio negozio di abbigliamento preferito fa periodicamente svendite e promozioni, ma mi ha avvertito via SMS che avrebbe fatto uno spettacoloso Black Friday. Giravo dalla città perseguitato da cartelli Black Friday. E non mi ero ancora ripreso da Halloween – che sarebbero “i morti” (commemorazione dei defunti) – con l’aggiunta di bambini rompiscatole sobillati dai genitori che vengono a disturbare al grido “dolcetto o scherzetto”. Halloween?? Da qualche anno sì, anche Halloween. Ma siamo matti? Nessuno fa più la spesa, semmai andiamo a fare shopping. La fine settimana è ormai per tutti il week end. Beviamo gli shot all’happy hour, cerchiamo di essere easy e seguire il mood senza cadere nel mainstream. Scansioniamo i documenti (i peggiori li scannerizzano, ovviamente dall’inglese to scan), uplodiamo file, zippiamo documenti, cerchiamo di capire il frame e di essere cool e, insomma, take it easy!
Il linguaggio straniero – che tecnicamente si chiama ‘barbarismo’ – è sempre stato presente in minima parte; un tempo erano le classi colte che utilizzavano alcuni francesismi, sopravvissuti in pochi esemplari oggi quali chapeau (per dire “bravo!”), coiffeur (parrucchiere per signora, uso maschile, perché se sei una parrucchiera devi usare coiffeuse), boutique (una volta vidi una Boutique Shop…), vintage, che poi è diventato inglese; stage, utilizzato (sbagliando di grosso) con pronuncia inglese che ha un significato diverso da quello francese, che sarebbe l’uso voluto per parlare di un tipo di formazione. E senior, junior, plus, media, termini latini pronunciati orrendamente in inglese, sinior, giunior, plas midia? Oggi l’inglese più o meno stravolto e semmai orrendamente italianizzato sta dilagando e, al seguito del dilagare degli anglicismi, arrivano le usanze anglosassoni (ma sostanzialmente americane), come appunto Halloween, il Black Friday e – udite udite – il Natale americanizzato (questo ormai da decenni) con un obeso vestito di rosso che porta i regali, originariamente logo della Coca Cola. Il Natale, che festeggiano le classi medio alte anche in Cina senza che ci sia un aggancio culturale di qualunque genere per giustificarlo, tranne l’espressione consumistica e la voglia di imitare gli occidentali. Le ragioni sono note: la globalizzazione comporta, come scoria, come epifenomeno accidentale, la tracimazione delle sottoculture popolari, quelle legate a comportamenti quotidiani con alcune caratteristiche abbastanza chiare: essere caratterizzanti (a torto o a ragione) di un flusso modernista, giovanilista, vitalista. Halloween, con tutta la narrativa horror (oops!) del cinema hollywoodiano, rappresenta bene il brivido dei film (oops!) di paura presso gli adolescenti e il desiderio di essere là, il quel mood (oops!). Il Black Friday, presentato come una follia consumistica americana, attrae proprio perché follia consumistica, laddove i nostri proverbiali “sconti di fine stagione” appaio come roba da poveracci. Andare all’happy hour (oops!) è una cosa fighissima, da giovani con pochi quattrini in tasca ma accomunati dalla legge del branco, quella di sballarsi con gli shottini (oops! e ancora oops!!).
Io non sono una purista della lingua per mortalmente noiose ragioni identitarie (come i francesi, per intenderci), e non sono così sciocco da non capire come le fusioni linguistiche, specie a favore dell’inglese, siano inevitabili. Va pure bene così. La cosa che non deve sfuggire, però, è che le parole di lingue diverse non sono equivalenti. La fine settimana non è esattamente come il week end; la prima è una mera definizione temporale, la secondo è l’indicazione di uno stile di vita. “I morti” non è come Halloween; la prima è una commemorazione religiosa e la seconda è una festa pagana. La boutique non è una bottega. Lo shottino non è semplicemente una porzione alcolica piccola (quando ero più giovane si chiamavano baby – oops!). Le lingue si plasmano sui valori e le culture di un gruppo, e agiscono nel formare e dare senso a quei valori e culture. Ogni lingua rappresenta lo strumento, per i suoi parlanti, per esprimere determinati valori e non altri, gerarchie, preferenze, direzioni e orizzonti, differenti fra italiani che li esprimono con la ricchezza della lingua italiana e tedeschi che li esprimono in tedesco e cinesi che l’esprimono in cinese. Non si tratta quindi di un’invasione linguistica tutto sommato neutrale, ma dell’intrusione di semi di altri valori, altri orizzonti, in seno ai nostri. Onestamente credo che sia bellissima questa contaminazione di valori e credenze se consapevole e ricercata, mentre credo che non vada affatto bene quando viene subita inconsapevolmente.
L’uso inconsapevole di parole (e usi, e comportamenti) estranee non crea ricchezza, come nel caso di una voluta ricerca e di una consapevole fusione; crea invece fratture, come cunei piantati nella trama costitutiva della nostra visione del mondo, visione che, cuneo dopo cuneo, diventa fragile, frammentata, con un senso pian piano indebolito. E questo rende più incerta la decodifica del reale con un loop (oops!) involutivo progressivo. Naturalmente non bastano dieci parole per compiere disastri irreparabili, né il Black Friday, ma l’aumento di questi barbarismi e di comportamenti estranei alla nostra cultura appare sempre più veloce. Qualora non fossi stato chiaro: viva la permutazione, la fusione, la crasi, la contaminazione fra culture quando è consapevole e voluta. Avendo mezza famiglia straniera ho benissimo sperimentato come si siano mescolati molti nostri modi di fare; ci siamo mescolati come abitudini e usanze nella quotidiana sperimentazione reciproca. E devo dire che lo trovo molto bello. Ma non penso di bere Coca cola a pranzo, mangiare sushi perché di moda, fare il brunch coi colleghi, andare alla convention, dove parlare di business e semmai avere un flirt con la bella manager…
Mettiamola così: se abbiamo l’equivalente italiano, pensiamo bene ai barbarismi che siamo tentati di usare, e usiamo l’italiano oppure il barbarismo consapevolmente. Nulla vieta di dire week end anziché fine settimana, se sappiamo cosa stiamo dicendo. Se invece non conosciamo l’equivalente italiano allora dobbiamo considerare questa mancanza come un indicatore di pericolo. Se l’equivalente non lo conosco (o se proprio non c’è) l’uso di quel termine mi porta a usare concetti estranei: sono veramente appropriati? Cosa significano? Perché li debbo o li voglio usare? Perché è un codice del mio gruppo sociale di riferimento? Perché è un gergo che si usa nel mio settore professionale? O perché mi sento stupido se non lo uso, un paria, uno sfigato? Ecco, in quest’ultimo caso almeno l’uso di barbarismo comincia a somigliare pericolosamente a una patologia sociale.