Puntualmente, al verificarsi di eventi che colpiscono l’opinione pubblica, il genio italico si manifesta sotto forma di Uomini del Destino o aspiranti tali che sembra non aspettino altro per estrarre dal cappello La Grande Ricetta Risolutrice del Problema del Momento. Nel caso dei fatti di Macerata, l’inossidabile leader di Forza Italia ci informa che si rende necessario rimpatriare almeno 600,000 migranti su 630,000 qui (i 30,000 eccedenti potrebbero rimanere in quanto aventi titolo allo stato di rifugiato). Con tale misura, alla quale andrebbe affiancato “un nuovo Piano Marshall” (traduzione in lingua piazzaffarese di “aiutiamoli a casa loro”), l’emergenza sociale rappresentata dall’immigrazione favorita dai governi della sinistra (sic) andrebbe a soluzione.
Purtroppo per me, gli atteggiamenti alla “ghe pensi mi” hanno il potere di scatenare i miei istinti peggiori, quelli che portano al risveglio del pianificatore dormiente cui é stata martellata nel cervello l’idea che qualunque linea d’azione, prima di poter essere considerata una possibile soluzione, debba superare una verifica di fattibilità logistica e normativa.
E quindi cominciamo (sarò lungo ma purtroppo, come vedrete, le cose sono un po’ più complesse di quanto le faccia apparire il Nostro).
Punto 1, la reale entità del fenomeno migratorio. Sarebbe ora che ci mettessimo in testa che, per ragioni demografiche ed economiche, i migranti continueranno ad arrivare e continueranno a essere spinti, per la stragrande maggioranza (a oggi, circa l’85%), da motivazioni economiche. L’ho già scritto in passato qui ma credo valga la pena ripeterlo: sul versante demografico le previsioni dell’ONU al 2050 qui prevedono gli abitanti dei paesi dell’Africa subsahariana siano destinati a raddoppiare, passando da uno a due miliardi. Sul fronte economico, inoltre, nonostante i progressi fatti negli ultimi trent’anni, l’Africa subsahariana denuncia a tutt’oggi un livello di redditi pro capite tra i più bassi al mondo (1.652 dollari all’anno, contro i 34.861 dollari dell’UE a 28). Demografia e differenze di reddito continueranno dunque a rappresentare importanti fattori di attrazione verso l’Europa, che dovrà fare i conti con un numero di potenziali migranti pari a 300 – 350 milioni di persone. Il fenomeno migratorio non é quindi un “problema”, vale a dire qualcosa che per definizione può essere risolto, bensì un elemento di situazione di cui tenere conto e da affrontare con metodo e pragmatismo, e non con l’attuale faciloneria, sulla quale mi riprometto di ritornare in un prossimo parto della mia fertile mente. Siccome da che mondo é mondo chi (e)migra é spinto dal venire meno, a casa sua, delle condizioni minime necessarie per fargli intravvedere la possibilità di una vita decente e di qualche miglioramento nella sua condizione, se si rimuovono le cause di questo stato di cose e si rende “casa sua” un posto dove poter costruire un futuro, il nostro non vedrà più ragione di migrare: in questo senso, “aiutiamoli a casa loro” é un programma sensato.
Il che ci porta al Punto 2: cosa intendiamo per “aiutarli a casa loro”? Va dato atto a Berlusconi di aver quantomeno lasciato intendere che, secondo lui, non si tratta di continuare a consegnare aiuti economici al potente di turno che regolarmente se li intasca, bensì di aiutare i paesi di provenienza a rimettersi in sesto. Il fatto é che é che Nigeria, Eritrea, Bangladesh, Guinea, Mali, Senegal, Costa d’Avorio, Gambia e Sudan, ovvero gli stati da cui proviene la maggioranza dei migranti, ancorché derelitti, poveri (non proprio tutti), corrotti e scassati (tutti, chi più chi meno), sono degli Stati Sovrani. Il che significa che per andare a casa loro ad aiutarli é necessario o un loro invito o una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Altrimenti andare a aiutarli a casa loro senza essere invitati si traduce in “invasione”, ma forse é un dettaglio nozionistico, introdotto da uno che si ostina a ritenere che le parole abbiano un significato.
E proviamo quindi, punto 3, a pensare a cosa ci voglia per rimetterli in sesto. Dal momento che parliamo di Stati con parecchi problemi di ordine pubblico, separatismo, guerriglie più o meno endemiche, nonché di funzionamento della macchina statale, bisognerà imbarcarsi in una bella operazione di Stabilizzazione e Ricostruzione. Per essere chiari, “stabilizzazione” é un termine generico che comprende varie attività, condotte primariamente dalle Forze Armate ed in particolare dall’Esercito, volte a realizzare un ambiente ragionevolmente sicuro in cui la componente civile, locale e di quelli che scalpitano per andare a casa dei rimpatriandi per colà aiutarli, possa cominciare ad operare. Una lista delle cose da fare comprende, con maggiore o minore rilevanza a seconda dei casi, garantire la sicurezza (cessazione di ostilità, tregue, avvio di colloqui di pace, condurre disarmo, smobilitazione e reintegrazione degli appartenenti a fazioni/gruppi armati), fornire assistenza umanitaria a gente che in molti casi é tanto se ha gli occhi per piangere, garantire il soddisfacimento dei bisogni immediati della popolazione (acqua, cibo, sanità, fognature…), migliorare o riavviare il sistema scolastico;
gettare le basi per lo sviluppo di un sistema di governo partecipativo, ragionevolmente onesto ed accetto alla popolazione (a tutta la popolazione, minoranze etniche, linguistiche e religiose comprese), assistere il rientro dei profughi e degli sfollati.
Tutto questo, A PREMESSA del vero lavoro di “ricostruzione”, vale a dire rimettere in piedi reti stradali, ferroviarie e delle telecomunicazioni, introdurre tecniche, tecnologie e metodologie lavorative al passo con i tempi, supportare programmi ed istituzioni monetarie (la moneta della maggior parte dei paesi citati più sopra non vale la carta sulla quale é stampata), riformare il settore del diritto del lavoro, supportare programmi di investimento pubblici e lo sviluppo del settore privato (manifatturiero, agricolo e terziario)… insomma il supporto allo sviluppo economico ed infrastrutturale.
Punto 4., la stabilizzazione é rischiosa, e la ricostruzione é costosa: se tutto va bene, i frutti della nostra azione si cominceranno a vedere forse dopo una ventina di anni. Siamo disposti ad impegnarci per così tanto tempo, ad affrontarne i costi materiali ed umani? Per stabilizzare (più o meno) il Kosovo, un paese di 2 milioni di abitanti delle dimensioni dell’Abruzzo, ci sono voluti 18 anni, le NU, la NATO e l’impiego di un contingente multinazionale che, dagli iniziali 40,000 soldati, si é progressivamente ridotto agli attuali 5,000 provenienti da 31 paesi (di cui 500 italiani, di cui ci si domanda spesso “ma quanto ci costano”), e ancora adesso basta che un esagitato si faccia venire qualche idea balzana in testa e Mitrovica esplode di nuovo e i monasteri di Decani sono di nuovo sotto assedio. Dei paesi che ho menzionato, non tutti hanno problemi di grave instabilità interna, é vero (il che rende meno scontato che ci invitino a casa loro ad aiutarli, ma é un’altra faccenda) ma la Guinea é grande quasi quanto l’Italia (che é circa 30 volte il Kosovo), la Libia é 5 volte il nostro paese e il Sudan 6…facciamo quattro conti?
Corollario al punto 4.: una volta aiutatili con successo a casa loro, avremo ottenuto che non se ne vengano più da noi in virtù di migliori condizioni di vita, in primis di migliori retribuzioni. Ciò presumibilmente comporterà che un sacco di beni (dalla t-shirt di cotone con la scritta spiritosa ai cellulari) costeranno qualcosa di più, come del resto si scopre con sorpresa mista a disappunto nei negozi equi e solidali. Ma sono certo che siamo tutti ben convinti che si tratti di un piccolo prezzo che vale ben la pena di pagare per fermare le ondate migratorie.
Punto 5, che é quello il cui esame mi ha divertito di più e spero divertirà anche voi: rispediamo a casa 600,000 immigrati. Ammettiamo che il numero sia questo, senza andare ulteriormente ad indagare (in realtà il numero dovrebbe essere significativamente più basso, non fosse altro perché il Ministero degli Interni ci dice che il 62% dei migranti arriva in Italia con regolare passaporto, il che complica un po’ la comoda equazione straniero=clandestino=föra dai ball) ma poiché mi sono proposto di fare le pulci a questa dichiarazione va bene così), ed ammettiamo anche che per rimpatriare qualcuno basti caricarlo su un idoneo mezzo di trasporto e scaricarlo nel paese d’origine, anche se non é esattamente così che funziona. Poiché non si può onestamente pensare di traghettarli tutti in Tunisia o Libia e di sbolognarli alle autorità locali, si tratterà di rispedirli al mittente (terminologia tecnica in leghiliano moderno) a mezzo aereo. Lo faremo utilizzando vettori nazionali, anche perché nessuna delle compagnie aeree dei paesi di provenienza della maggior parte dei migranti serve l’Italia, e quindi ci avvarremo di Alitalia (alé) che metterà a disposizione il suo vettore più capiente, vale a dire il Boeing 777-200R, capace di trasportare 291 passeggeri, di cui immaginiamo 280 espulsi più una decina di agenti delle forze dell’ordine che per tenerli sotto controllo direi che ci vogliano. Quindi per rimpatriarli tutti con (600,000 : 280=) 2,143 sortite ce la caviamo. Per comodità di calcolo, prendiamo come destinazione Lagos, Nigeria, che è abbastanza baricentrica rispetto alle zone di origine della maggior parte dei nostri immigrati: per arrivare a Lagos da Roma ci vogliono 5 h e 30′, quindi il ciclo viaggio (A/R) dura 11 ore al netto delle soste in aeroporto. Assumendo di bloccare ad uso esclusivo delle operazioni di rimpatrio 2 degli 11 Boeing 777-200 di cui dispone Alitalia, ognuno dovrebbe volare 1,072 cicli pari a 11,792 ore di volo, ovvero stare in aria per 492 giorni. Anche con una disponibilità illimitata di equipaggi che si alternino ai comandi degli aerei scongiurando il rischio di soste per ferie, a questi 492 giorni ne dobbiamo aggiungere almeno 57 giorni di fermo tecnico degli aeromobili per i check di tipo “B” (ogni 2,000 ore di volo, ognuno dura circa 3 giorni) e tipo “C” (ogni 3,500 ore, dura 15 giorni circa). Totale: almeno 549 giorni, o 18 mesi, di ponte aereo con due Boeing 777. Tornando ai costi, un’ora di volo di Boeing 777-200R (solo costo di esercizio dell’aeromobile, carburante e paga dell’equipaggio – per chi voglia divertirsi qualche dato riferito a compagnie USA qui) costa circa € 8735, e quindi il costo di un ciclo é (11h x €8,735=) € 96,085. Ne possiamo concludere, anche senza l’ausilio di sofisticati algoritmi in Turbo-Pascal, che il costo dell’operazione rimpatrio proposto dal nostro Grande Imbonitore parte da miseri (96,085 x 2,143=) € 205,910,155 (Euro duecentocinquemilioni novecentodiecimila centocinquantacinque), ai quali si devono aggiungere costi di manutenzione dell’ordine di € 35,000,000 (il costo delle manutenzioni di medio e lungo periodo è pari a circa € 1,500 per ogni ora di volo), le indennità del personale di scorta, le tasse aeroportuali, le tariffe delle società di handling a terra, la tariffa anche minima – crediamoci – che Alitalia applicherebbe comunque ad ogni passeggero…raddoppiamo e non se ne parli più. Se si pensasse di risparmiare ricorrendo ad aerei più capaci, si sappia che ad aereo più grande corrispondono più motori e costi più alti: con un Airbus A-340 600 da 359 posti ce la caveremmo con 1,290 sortite a € 231,000 cadauna (1 h di volo costa € 21,000), e quindi dovremmo rifare i calcoli partendo da € 297,990,000 di soli costi di esercizio…
Punto 6., conclusioni: signori, amici, connazionali… vi piace davvero tanto farvi prendere per i fondelli da imbonitori e incompetenti? (pensateci pure, ma per favore fate presto perché, mentre ci pensate, io tento di resistere agli istinti suicidi che il “dibattito” politico di questi ultimi mesi ed il pensiero di ciò che ci attende mi ispirano).
Risorse:
- Mario Giro, Smettiamola con le balle sui rimpatri forzati, “il Foglio”, 7 Febbraio 2018.