Genitori che picchiano i professori, accoltellano dirigenti scolastici e vicepresidi, minacciano gli insegnanti dei propri pargoli per un rimprovero o una nota. Seguiti a ruota dai figli. Episodi sempre più frequenti, ai quali forse finiremo per abituarci.
“Eh già, è proprio vero: si stava meglio quando si stava peggio. Quando ero un ragazzino se la maestra mi sgridava o mi tirava uno schiaffone, a casa mio padre o mia madre me ne davano due. Adesso i genitori si presentano ai colloqui con i professori accompagnati dall’avvocato, se va bene, altrimenti con un’arma. E siamo sempre più vittime delle aggressioni delle baby gang. Dove andremo a finire, signora mia?”
Luoghi comuni? Mentre per le mezze stagioni è forse opinabile che siano mai esistite, su questo invece siamo tutti d’accordo: fino ad una generazione fa in pratica tutti gli adulti erano responsabili dell’educazione di bambini e ragazzi; i quali non si azzardavano a replicare nel caso ricevessero rimproveri dalla vicina di casa, dall’anziano incontrato per strada, ma soprattutto dagli insegnanti. Oltre naturalmente ai propri genitori. Diciamo che l’infanzia era un periodo importante, ma transitorio, che preludeva all’entrata nel mondo adulto, alle regole del quale era bene che ogni fanciullo imparasse da subito ad adeguarsi. Con il contributo di tutti gli adulti.
Il problema tuttavia, mi preme sottolineare, è solo in parte da imputare alla perdita di autorevolezza del corpo insegnante, intendendo la scuola come la principale agenzia educativa che ha sempre svolto, nella società contemporanea, un ruolo civico e morale, oltre che culturale, fondamentale.
Beninteso, una parte di responsabilità è da attribuire anche agli insegnanti, che non vanno difesi a spada tratta anche quando dimostrano scarsa professionalità e preparazione, ridotta attitudine all’insegnamento (che sempre più spesso è visto come un ripiego, quasi un ammortizzatore sociale), demotivazione e vero e proprio ‘imboscamento’ (passatemi il termine, ma dall’interno delle aule insegnanti che frequento da una decina d’anni come professoressa, oltre alla personale esperienza come genitore, posso affermare che non si tratta di casi isolati).
Però i comportamenti dei genitori cui accennavo in apertura, e che ultimamente si fanno sempre più frequenti, caratterizzati dalla tutela esasperata dei propri figli contro i presunti eccessi di metodi correttivi o abusi di autorità da parte degli insegnanti, hanno un’origine più complessa; è essenziale analizzare l’età dei genitori, la loro appartenenza ad una generazione che è cresciuta in un clima che differisce sensibilmente da quello in cui è cresciuta la generazione degli insegnanti.
Oggi in Italia l’età media del corpo insegnante si aggira sui 51 anni (siamo gli ultimi in Europa). Quindi parliamo di persone che in gran parte hanno frequentato elementari e medie prima della rivoluzione sessantottina; prima che si introducessero criteri di libertà ed apertura nella scuola mai sperimentati in precedenza, prima che la televisione progressivamente si sostituisse ai genitori ed ai giochi con i coetanei, nel tempo che i ragazzini trascorrevano in casa dopo la scuola. Poiché ancora la generazione dei cinquanta-sessantenni di oggi, i figli del baby boom post bellico, aveva in gran parte le mamme casalinghe, quelle che rincorrevano con la ciabatta e tiravano gli sculaccioni, perché di tempo in casa ne passavano tanto e sapevano bene come domare le proprie piccole pesti; non le nonne accondiscendenti che, lo sappiamo bene, hanno viziato la generazione degli attuali trenta-quarantenni, quelli cresciuti guardando cartoni animati e telefilm in TV e davanti alla console dei videogiochi. Perché sono loro, in maggioranza, i genitori di questi ragazzini che oggi frequentano la secondaria di primo e secondo grado. Ragazzini, spessissimo figli unici, cresciuti al centro dell’attenzione dei propri genitori; genitori che, per scelta o per necessità, avevano molto meno tempo da dedicare loro e preferivano non doverli privare di una presenza accondiscendente e protettiva. Come del resto le indicazioni più recenti della pedagogia e della psicologia dell’età evolutiva hanno ampiamente indicato come decisamente migliori rispetto ai metodi coercitivi dei loro genitori.
Cerchiamo dunque di scoprire le ragioni dei loro comportamenti, che non sono caratteristica solo della generazione dei nati negli anni ’70 e ’80, ma i cui semi erano già presenti anche nella precedente (i baby boomers degli anni ’50 e ’60).
Da Maria Montessori in poi, passando per il celebre (e famigerato per alcuni) dottor Benjamin Spock, a Marcello Bernardi e molti altri, la tendenza educativa è stata giustamente orientata nella direzione di porre il bambino al centro della realtà familiare, sottolineandone bisogni e necessità, soprattutto affettive e di cura, peculiari. La cruda realtà dell’esistenza, il fatto che sin da piccini ci si dovesse, nelle società rurali e primitive da cui storicamente proveniamo, confrontare con le asperità dell’esistenza, la malattia che spesso portava alla morte, la crudeltà e le prevaricazioni del mondo adulto nel quale si entrava fin troppo precocemente, e molteplici altri fattori sono oggi ritenuti nocivi ai fini di uno sviluppo equilibrato della personalità. Traumi psicologici che si è cercato in tutti i modi di evitare ai propri figli, convinti che un mondo affrontato e scoperto a poco a poco attraverso delle lenti rosa, porti inevitabilmente a una minore sofferenza e ad una crescita migliore, più sana e foriera di chissà quali meravigliosi sorti per la futura umanità. Ma forse in qualche caso si è esagerato con le buone intenzioni.
Che ne è stato infatti dei riti di iniziazione che in tutte le civiltà, dalle comunità primitive alle società moderne e contemporanee, hanno costituito lo sbarramento da superare obbligatoriamente per entrare con tutti i diritti a far parte del mondo adulto? Aboliti. Definitivamente.
Solo qualche esempio. Presso i gruppi umani di cacciatori e raccoglitori, o comunità stanziali primitive, i riti iniziatici costituivano periodi da trascorrere da soli nella natura selvaggia, lontano dal proprio villaggio, e il cui scopo era di fortificare l’adolescente che, se fosse riuscito a ritornarne indenne (altrimenti subentrava necessariamente la selezione naturale) poteva a buon titolo entrare a far parte del mondo adulto, essere ammesso a cacciare con gli altri maschi adulti, andare a vivere per conto proprio con altri giovani e in futuro accoppiarsi e riprodursi. Naturalmente vi erano anche riti di iniziazione femminili, parimenti volti a rinforzare la resistenza e la sopportazione del dolore, nonché la determinazione nell’affrontare e superare difficoltà di ogni tipo che preparassero le ragazze ad una vita adulta come madri (oggi questi riti di passaggio sono ancora praticati presso alcune popolazioni dell’Africa e dell’America Latina).
Anche il servizio di leva obbligatorio, più recentemente, ha costituito una sorta di iniziazione, inevitabilmente crudele e selettiva in caso di guerra, ma non meno tenera in tempo di pace: il ‘nonnismo’ si è sviluppato proprio tra i ranghi dell’esercito; così come per gli studenti universitari i riti goliardici, che a volte avevano persino conseguenze letali; riti che le matricole dovevano superare per poi, a loro volta, infliggere gli stessi crudeli trattamenti ai nuovi iscritti.
Le fiabe sono state per secoli una narrazione volta a rappresentare, nell’immaginario infantile, i pericoli nonché gli stratagemmi per superarli, ciò che un adolescente avrebbe dovuto affrontare una volta entrato nel mondo adulto ed essenzialmente il suo destino. Cosa che tra l’altro avveniva, ed avviene tutt’ora nei paesi non industrializzati o che non appartengono alla società del benessere nella quale noi ci riconosciamo, ben prima di quanto non avvenga ai nostri ragazzi; diciamo sui dodici anni. Per secoli ci si è sposati (soprattutto le donne), si è stati incoronati re ed imperatori, più o meno alle soglie dell’adolescenza, giusto appena superata l’infanzia. Che non era quel meraviglioso e innocente mondo in cui facciamo vivere la nostra prole. Ma oggi nelle versioni moderne e soft (Walt Disney ha grosse responsabilità in tal senso) la regina cattiva non muore, ma viene perdonata, il lupo diventa vegetariano, i porcellini si salvano tutti e tre e non solo l’ultimo: e vissero felici e contenti (anche i malvagi perché vengono perdonati), con buona pace dell’intento educativo delle fiabe.
Quindi sia i riti iniziatici definitivamente soppressi in nome di un’educazione permissiva ed elastica, sia il procrastinare sine die l’entrata nell’età adulta, fa sì che la nostra sia divenuta una società popolata da eterni adolescenti, benché decisamente sviluppati fisicamente. La sindrome di Peter Pan o della principessina, per quanto oramai già calvo l’uno e avvizzita l’altra, ha la propria origine negli eccessi di un’educazione troppo protettiva, di una comunicazione edulcorata portata all’esasperazione.
E per quanto riguarda il tema da cui siamo partiti ecco che il genitore iperprotettivo è proprio quello che, adolescente esso stesso, non vuole che il proprio figlio subisca una benché minima forma di imposizione da parte di altri adulti; sia perché ravvede in essa germi di prevaricazione, violenza e tentativo di sottomissione, sia perché rifiuta un’educazione a suo avviso rigida e autoritaria, contraria a ciò che ha sempre masticato nella propria prolungata infanzia. Così preferisce mantenere il pargolo in quel mondo dorato e fasullo che è lo stesso in cui si crogiola nella propria immaturità.
Perché sostanzialmente, ed è proprio questo il punto, il grosso dramma che affligge molti adulti è la sostanziale immaturità: l’incapacità di affrontare le sfide della vita da adulti. Quindi ci si attacca troppo ai propri figli, li si vorrebbe eternamente accanto a noi, preferendo differirne sempre più anche l’entrata nel mondo del lavoro; complici i genitori di questi figli unici del benessere, che sono disposti a far loro frequentare master di livello sempre crescente, corsi di formazione all’estero, e ogni sorta di possibile titolo aggiuntivo alla laurea. Al riconoscimento del quale tuttavia il figlio non è disposto a rinunciare, non riuscendo di conseguenza a trovare un lavoro adatto alle proprie qualifiche. E continuando quindi a farsi mantenere dai propri genitori, senza rinunciare però a svaghi e divertimenti.
I bamboccioni, i choosy, bersaglio di celebri battute di ministri dei passati governi, e tutte le figure tanto sbeffeggiate dai più sono purtroppo presenti in gran numero in ognuna nelle case degli italiani, anche se non particolarmente benestanti.
E forse l’esasperazione di questa immaturità è anche insita nel desiderio di iperprotezione che pervade i sentimenti dei genitori che minacciano o picchiano gli insegnanti dei propri figli.
“Mio figlio non è pronto per essere traumatizzato da un rimprovero della maestra, da una nota del professore, men che mai da una sospensione. Che cosa avrà mai fatto di male, è un ragazzino! Voglio che continui a vivere il più possibile nel mondo dorato dell’infanzia. Glielo devo, lui è il mio principino (o la mia principessa), e niente e nessuno ne può turbare la crescita serena”.
E questo riguarda essenzialmente la disciplina e il rispetto delle regole.
Chiaro che, oltre all’immaturità in questi genitori è presente anche una buona dose di ignoranza. Si ignorano i fondamentali meccanismi alla base dell’educazione dei propri figli. Si ignora che la società, per continuare ad esistere e non degenerare nell’anarchia e nel tanto temuto far west, ha stabilito regole di convivenza civile che devono essere comprese e rispettate fin dall’infanzia. Si ignora che essere bravi e buoni genitori passa anche dai ‘no’ e dalle punizioni, oltre che dal dialogo e dal far sentire ai propri figli che si è dalla loro parte. Tuttavia quando un figlio sbaglia la prima cosa che un genitore dovrebbe fare è ribadire che l’errore commesso va sanzionato. Giustificare le azioni dei figli non significa comprenderne le motivazioni: significa tollerare, adducendo scuse, comportamenti che a lungo andare diventano inevitabilmente molesti se non proprio violenti. E la proliferazione delle bande di ragazzini organizzati che delinquono ne sono una spia.
Perché quasi mai i rimproveri degli adulti sono senza fondamento. È pur vero che tutti noi abbiamo subìto nella nostra infanzia e adolescenza, l’ostilità di insegnanti a cui non eravamo particolarmente simpatici; o i soprusi del bullo di turno, il compagno di classe o di giochi in cortile che in alcuni casi ci ha rovinato l’esistenza; fino al giorno in cui del professore ci siamo liberati superando gli esami, e davanti al bullo abbiamo finalmente trovato il coraggio di reagire. Altrimenti, ed è un caso molto frequente fonte di nevrosi in età adulta, di queste figure non ci si libera davvero più. Diventare adulti, autonomi, indipendenti, forniti di un bagaglio di esperienze adeguato ad affrontare e superare le sfide dell’esistenza, passa anche da questi ostacoli. Superarli significa crescere.
Quando gli adulti cercano di combattere il bullismo dei compagni di classe intromettendosi nelle dinamiche che governano i rapporti tra adolescenti, non sempre fanno la scelta giusta. E lo stesso discorso vale per i rapporti con l’autorità, che per gli adolescenti sono insegnanti, professori e presidi.
È giusto parlarne con i propri figli, suggerire strategie e comportamenti, far sentire loro la nostra vicinanza, ma poi sono i nostri figli che devono reagire e cambiare il proprio comportamento; non possiamo sostituirci a loro, anche se ameremmo molto farlo e trasferire loro la nostra esperienza; ciò che ci è costato, a causa di errori e battute d’arresto inevitabili, tanta pena e vera e propria sofferenza. Nessuno ama assistere al pianto dei propri figli, ma sapere che attraverso quella sfida si diventa grandi è una soddisfazione ben maggiore, e dovrebbe essere anche motivo di orgoglio per ogni genitore. Ma ciò presuppone nel genitore stesso una maturità adeguata al proprio ruolo.
È proprio questo uno dei principali problemi educativi della nostra società del benessere: i genitori cercano di togliere ai propri figli, in buona fede per carità, qualsiasi impedimento che possa essere di ostacolo ad un’esistenza spensierata. Ma non sempre scelgono il metodo migliore. Il mito, legittimo e auspicabile, è quello della felicità a cui ogni essere umano ha diritto, e prima di ogni altro i nostri figli. La felicità ad ogni costo.
Tuttavia la felicità si conquista, non la possiamo regalare. Nemmeno a coloro che amiamo di più.