Esattamente 60 anni fa lo studioso americano Edward Banfield pubblicava un saggio che, ancor oggi, potrebbe – forse dovrebbe – costituire il punto di partenza per qualunque discussione su qualunque argomento in Italia: Le basi morali di una società arretrata.
Banfield si era posto l’obiettivo di capire perché, in certi luoghi del mondo, il capitalismo e la democrazia non riuscivano a svilupparsi (è in questo senso che va intesa la parola “arretrata” – originale backward – del titolo). Trascorse due anni della sua vita a Chiaromonte, per studiare il comportamento della popolazione locale, attingendo sia alla documentazione pubblica disponibile (registri) sia -soprattutto- ad interviste con gli abitanti.
Al termine dell’indagine elaborò l’ipotesi nota oggi col nome di “familismo amorale”: una prassi comportamentale diffusa tra tutta la popolazione e consistente nel “massimizzare i vantaggi materiali e immediati del proprio nucleo familiare, presupponendo che anche gli altri facciano altrettanto”.
Nel quinto capitolo, Banfield elencava 17 deleterie implicazioni che questa “filosofia di vita” ha nella società e nella politica (si possono leggere qui). Anche ad una lettura veloce salterà all’occhio l’attualità di molte di quelle considerazioni.
15. In una società di familisti amorali esiste la diffusa convinzione che qualunque sia il gruppo al potere, esso è già corrotto e agisce nel proprio interesse.
6. In una società di familisti amorali, si agirà in violazione della legge ogni qualvolta non vi sia ragione di temere una punizione
7. Il familista amorale, quando riveste una carica pubblica, accetterà buste e favori, se riesce a farlo senza avere noie; ma in ogni caso, che egli lo faccia o no, la società di familisti amorali non ha dubbi sulla sua disonestà.
Ma in questa sede vale la pena concentrarsi in particolare sull’ottava di tali implicazioni, quella che recita:
In una società di familisti amorali i deboli sono favorevoli ad un sistema in cui l’ordine sia mantenuto con la maniera forte.
Banfield intervistò alcuni contadini chiedendo loro cosa sapessero del fascismo. Ecco alcune risposte:
I fascisti volevano una vita migliore per i contadini. C’era la giornata di otto ore e un salario fisso. Se un padrone vi faceva lavorare dieci ore potevate andare all’ufficio del lavoro e quello era costretto a pagare il giusto salario. Adesso ognuno fa quello che vuole e tutti cercano di far lavorare il più possibile i contadini al più basso salario.
Non so che cosa volevano, ma le loro leggi erano severe. C’era ordine, e ognuno aveva i suoi diritti e i suoi doveri. Si aveva il diritto di essere pagati quando si lavorava, e il padrone aveva il dovere di pagare gli operai per il lavoro fatto. E poi si occupavano di sussidi per le famiglie numerose, e aiuti quando nasceva un bambino. Anche adesso ci sono aiuti per legge, ma la legge non è rispettata.
Queste poche righe ci dicono forse molto più di altri interi libri sulle cause profonde del fascismo, nonché sulla natura di un popolo intero.
Ci dicono, prima di tutto, che in una società di familisti amorali le istituzioni democratiche non possono funzionare. Per il semplice fatto che chi vi lavora cerca – come tutti gli altri – di trarre il massimo vantaggio personale dalla situazione, non identificandosi minimamente con l’istituzione stessa; ergo “accetterà buste e favori”, o magari timbrerà il cartellino dei colleghi mentre questi vanno a giocare a tennis (non per generosità o solidarietà, ovviamente: per potersi far ricambiare il favore in futuro).
Ecco allora che la “maniera forte” diventa l’unico modo di far funzionare lo Stato: se la gente agisce in violazione della legge “ogniqualvolta non vi sia ragione di temere una punizione”, non resta che assicurarsi che quel timore sia sempre presente. Cioè, concretamente, mettere in piedi un poderoso apparato di sorveglianza e repressione, in grado di punire chi delinque e fungere da deterrente per chi fosse tentato dal farlo.
Arretrati o pre-moderni?
Quasi superfluo precisare, a questo punto, che la democrazia stessa verrà considerata una fregatura, in una società di familisti amorali. E infatti il fascismo attaccava proprio la democrazia sic et simpliciter, ritenendola una sorta di oligarchia sotto mentite spoglie.
In particolare verrà giudicata assurda la separazione dei poteri, ossia il principio che l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario si limitino e controllino a vicenda. Mediamente, in Italia, vi è la diffusa convinzione che non si possa effettivamente “governare” se non dispone di poteri pressoché assoluti.
Non a caso, negli ultimi lustri, anche i leader politici che ufficialmente hanno sempre detto di riconoscersi nei princìpi della Costituzione hanno tentato di riformarla in senso più “governativo”, lamentando il fatto che gli esecutivi – e in particolare la figura del Presidente del Consiglio – non avessero sufficiente potere per dispiegare l’azione di governo.
Questa concezione del potere ha radici antichissime. Nell’antica Roma di epoca repubblicana le istituzioni della Res Publica (Consoli, Senato, Tribuni della Plebe etc.) – che pure sono da considerarsi una sorta di check and balances ante litteram – valevano solo entro il pomerio, cioè entro le mura dei centri urbani; al di fuori di essi i due consoli (comandanti dell’esercito) avevano poteri assoluti, incluso quello di far condannare a morte altri cittadini romani.
Il principio che sta alla base di questo scenario è presto detto: quelle che oggi chiameremmo “garanzie” (tipo il diritto dell’imputato di appellarsi al popolo contro le decisioni dei consoli) sono lussi che ci si possono permettere al massimo in tempi di pace, ossia dentro le mura; in tempo di guerra, al contrario, lo Stato deve “funzionare”, e questo può succedere solo se chi comanda dispone di poteri assoluti.
Perché solo chi dispone di poteri assoluti può incutere nel prossimo quella paura che lo porta a “rigare dritto”.
La sensazione, dunque, è quella di vivere in un Paese in cui i cambiamenti a livello istituzionale non sono mai stati veramente introiettati e fatti propri dalla maggioranza della popolazione. Questa sensazione la ebbe ad esempio un altro studioso statunitense, Joseph La Palombara, nel 1964, quando scrisse un saggio dal titolo Clientela e parentela: studio sui gruppi d’interesse in Italia.
Soprattutto in questa parte del Paese [il Sud] è necessario superare la facciata formale per chiedersi quale ruolo svolgono nel processo politico la famiglia, i doveri dell’amicizia, i legami col proprio paese e regione o col proprio gruppo religioso. (…) I dati dell’impiego del voto preferenziale nel Sud dimostrano che qui è adoperato molto più frequentemente che nel Nord. Il meridionale vota particolaristicamente per l’uomo – il notabile della cui clientela fa parte – mentre il settentrionale vota per il partito politico come tale. (…) Qualche anno fa mi è capitato di parlare con un napoletano che era andato a Roma per far aumentare la sua pensione militare, e che si era imbattuto nell’indifferenza assolutamente frustrante della burocrazia romana. Senza scomporsi mi assicurò che tutto sarebbe andato a posto perché, tramite il suo deputato, stava inoltrando la sua petizione personale e la sua fotografia al presidente del consiglio De Gasperi, proprio come si sarebbe fatto con il re, egli disse, e come si sarebbe fatto se si fosse voluto ottenere giustizia dal padrone locale.
“Indifferenza frustrante della burocrzia” (cioè dei burocrati, a loro volta familisti amorali) e conseguente necessità, per il singolo individuo, di “arrangiarsi” a forza di raccomandazioni, rapporti personali e clientelari con i “padroni locali”. Un quadro che Pierfranco Pellizzetti definisce pre-moderno (aggettivo che non si discosta molto da quel backward di Banfieldiana memoria):
Piccolo mondo antico rinserrato nei confini comunitari del familismo e delle sue soffocanti solidarietà premoderne, oltre e fuori dalle quali guata una realtà per definizione minacciosa e incomprensibile. Nell’ottica “amorale” dell’arretratezza. L’orizzonte chiuso e difensivo del regime patriarcale, soprattutto in quel Mezzogiorno dove le rivoluzioni che investirono (tardivamente) l’Italia del dopoguerra non hanno lambito i costumi rurali. Dove la posizione della donna è sottoposta ancora a subalternità arcaiche, le libertà in materia sessuale e relativi progetti individuali di vita sono conculcate, il disconoscimento delle istituzioni pubbliche nella privatizzazione delle relazioni sociali funge da inevitabile anticamera per l’instaurazione di poteri sostitutivi tendenti al malavitoso. Traslati nel mito del maschio alfa, l’uomo solo al comando (nelle declinazioni da Mussolini al Padrino).
L’antifascismo dà più noia del fascismo
Se il fascismo è dunque logica e inevitabile conseguenza del familismo (ma potremmo meglio dire “del corporativismo”) amorale, non dovrebbe stupire l’atteggiamento non solo dei media mainstream, ma anche -e soprattutto-dell’italiano medio nei confronti dell’antifascismo, militante e non.
Del resto, l’idea stessa di opporsi a un qualcosa per questioni di principio è incomprensibile a un familista amorale, che per definizione non crede in alcun principio se non quello del massimo utile personale. E infatti
In una società di familisti amorali il fatto che un individuo o un’istituzione dichiari di agire in nome del pubblico interesse piuttosto che per fini personali, verrà considerato una frode
La solidarietà disinteressata è impensabile, e da questo punto di vista non sorprende affatto che le leggi razziali siano state approvate in Italia ancor prima che nella Germania nazista: riguardavano altri -le minoranze-, ergo perché preoccuparsi?
Il familista amorale si ribellerà a qualcosa -ad esempio un Governo- solo quando ne verrà personalmente danneggiato nei suoi interessi privati e particolari, e solo quando sarà sicuro che la ribellione rappresenti il male minore. Lo stesso Banfield segnalava che ai contadini il fascismo
non dispiaceva – fino a che non portò alla guerra -.
La soppressione della libertà individuale, le leggi razziali e altre nefandezze erano cioè tollerate di buon grado, fintanto che il regime riuscì a garantire un minimo di benessere materiale.
Ergo, non c’è nulla di cui sorprendersi d’innanzi all’atteggiamento tenuto in questi mesi dai media e partiti mainstream – che per vendere devono farsi interpreti del comune sentire, o almeno di quello dei propri clienti (che per opportunismo chiamano “lettori” o “elettori”) – nei confronti del palese rialzare la testa di gruppi fascisti: minimizzare (“sono casi isolati”, pazienza se negli ultimi 4 anni le aggressioni fasciste ammontino a 147), relativizzare (“fascisti e antifascisti sono la stessa cosa”, “fascismo degli antifascisti”), fare spallucce di fronte all’evidenza: è il tipico atteggiamento del familista amorale – cioè dell’italiano medio – di fronte a qualsiasi problema che non lo riguardi in prima persona. Dopotutto i fascisti di Casapound distribuiscono pacchi di pasta e fanno le ronde contro i ladri (tranne quando i ladri sono loro, come nel caso del 38enne Yuri Dall’Ara, arrestato per furto con scasso), mentre gli antifascisti rovesciano cassonetti e spaccano le vetrine. Ergo, i fascisti sono buoni, gli antifascisti cattivi.
“L’anti berlusconismo è sbagliato”
Questo refrain è stato un cavallo di battaglia di molti opinionisti/pensatori/frequentatori di pollai televisivi, durante il c.d. ventennio berlusconiano. Ed era uno dei cavalli di battaglia anche del Renzi prima maniera, il Rottamatore: la sinistra – tuonava l’allora sindaco di Firenze – non avrebbe dovuto attaccare Berlusconi su questioni “morali” (laddove con questo termine s’intendevano cose – il conflitto d’interessi, le leggi ad personam, la corruzione di giudici/testimoni/chiunque_servisse – che avevano ben poco a che fare con la morale e molto con il penale), ma rinfacciandogli ciò che non aveva fatto (le rivoluzione liberale e dintorni).
Ecco, questo modo di ragionare – apparentemente innocuo e per certi aspetti anche di buon senso – rappresenta in realtà un’ulteriore conferma e giustificazione del familismo amorale: implicitamente si afferma che l’etica è del tutto irrilevante per chi governa, e che l’unico criterio con cui si deve giudicare l’operato di un Governo (o del suo capo) sia quello dei vantaggi materiali che è riuscito a procurarci. Che chi sta al comando sia un ladro, un mafioso o peggio diventa irrilevante, fin tanto che riesce a risolvere i nostri personali problemi.
Si potrebbe concludere che gli italiani non odiano tutti i politici ladri, ma solo quelli che non spartiscono il bottino.
Bibliografia
E. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, Il Mulino, 2010.
J. LaPalombara, Clientela e parentela: studio sui gruppi d’interesse in Italia, Edizioni di Comunità, 1967.
Sitografia
Alfio Squillaci, Precisazioni sul familismo amorale: un tratto permanente della cultura italiana.
Articolo scritto per Hic Rhodus da Leonardo Zampi. 30 anni, laureato in archeologia ma faccio tutt'altro nella vita. Politicamente mi definisco liberale (e anche un po' libertario) e progressista. Dal 2015 sono attivista del Partito Pirata. Amo la satira (meglio se intrisa di black humor) in ogni sua forma, e io stesso ogni tanto mi cimento nella scrittura di racconti satirici ambientati nell'Italia contemporanea (che di spunti, ahimé, ne offre molti).